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STRADE BIANCHE DEL CILE
Dopo il viaggio in Russia, nel “futuro che ha un cuore antico”,
Carlo Levi compie nel gennaio 1956 un nuovo viaggio in India, qualche tempo prima di Moravia e Pasolini (a suo dire,
“alla ricerca della nostra antichità nella nostra attualità”, del permanere nel mutare, della compresenza e persistenza di
ogni cosa), per partecipare al congresso panasiatico degli scrittori come inviato della “Stampa”, su cui pubblicò i suoi
reportage a partire dal 1957, ora raccolti nel grande racconto giornalistico Il pianeta senza confini. Prose di viaggio
(2003).
“Il mondo che ci sta davanti agli occhi non è un altro mondo, ma è il nostro mondo, la nostra storia: siamo noi stessi,
nella nostra antichità e nella nostra attualità”;
“L’India è una terra immensa dove ogni cosa di ogni tempo è terribilmente presente, sì che da principio ne sei
sopraffatto. È l’unica Grecia antica rimasta viva, la Grecia preomerica, con la sua bellezza e i suoi mostri … .
in una società che sembra un enorme mucchio di chicchi di riso separati l’uno dall’altro, sotto un sole a perpendicolo,
e una luna orizzontale che pare una barca nel cielo”.
Tre gli elementi simbolo nei quali Levi, l’ideologo, l’intellettuale, il politico, vuole riconoscersi per arrivare a conoscere
realmente sé stesso:
- la luna (nel reportage La luna delle origini);
- la vacca, con cui si identifica alla fine del viaggio (L’azione e la preghiera. Namasté);
- il grande uomo di Stato Pandit Nehru, che è l’India, e il volto che più gli somiglia.
Nel 1959, in occasione del decennale della proclamazione della Repubblica comunista cinese, si reca in Cina per
verificare gli esiti della rivoluzione maoista (da sempre oggetto di una contrapposta interpretazione) ancora in veste di
inviato della “Stampa”, che ne avrebbe pubblicato il reportage a cavallo tra ’59 e ’60.
“Siamo in un altro mondo, il più lontano e diverso tra quelli d’Oriente, …, forse il solo paese del tutto diverso a chi vi
giunga dalle terre industriose dell’Europa … .
Già fin dal primo momento, dalla prima percezione dei sensi, ogni rapporto vi pare differente, legato ad altre misure,
parlante un altro linguaggio, di forma e sentimento”;
“Quello che è costante è una straordinaria unità. … non un agglomerato di infiniti individui, ma un corpo unico, un
grande essere vivente che si chiama la Cina, fermo da secoli nelle sue strutture e nei suoi costumi. …
Tutto sta insieme nella infinita specificazione individuale”.
In effetti, la Cina non è soltanto il serbatoio di tutti i segni, una formidabile allegoria dell’indecifrabilità del reale: è per i
cinesi il centro del mondo, ma è da noi considerata una semplice invenzione dell’Occidente, il nostro principale
concorrente/antagonista, simbolo del Diverso, che ha contribuito per contrapposizione a definire l’immagine stessa
dell’Europa, rispondendo a un bisogno di contrapposizione generato da un bisogno di potere.
Allo stesso modo, Levi si sarebbe riconosciuto per rovesciamento nella Cina, riconoscendo sé stesso nell’altro da sé.
Due le grandi metafore che la rappresentano:
- il thè (“un simbolo perenne che tu assimili, leggero, trasparente , giallo e verde, come la natura cinese”);
- gli ideogrammi (“Il pensiero razionale, la poesia, la pittura mal si distinguono fra loro, e vengono quasi a coincidere
in ideogrammi che sono insieme ragione, forma, poesia e imitazione della natura”).
Nel 1971 Levi vola in Cile rileggendo il Canto general di Neruda (il poeta che è il nuovo e il vecchio Cile) per
incontrare Salvador Allende, il companero presidente, e il popolo cileno che sta conquistando libertà e democrazia
attraverso una rivoluzione “tanto più nuova e profonda quanto più essa si svolga in pace e senza violenza”.
Ma siamo ormai all’ultimo viaggio: “comincio un viaggio senza fine, al buio, tra nere forze e nere montagne”, nel quale
avrebbe visitato “sulle strade bianche della nostra infanzia, i contadini, i minatori, gli studenti protagonisti di
un’impresa epica”, instaurando un parallelismo tra i Cileni e gli uomini della Resistenza europea, attivi nei vari
movimenti di liberazione nazionale.
L’INVENZIONE DEL SUD: ELEMENTI PER UNA RICERCA CRITICA SU LETTERATURA E SUD, TRA
MIGRAZIONI E POSTCOLONIALITA’
L’intervento illustra il percorso di ricerca approdato alla stesura del libro collettaneo
L’invenzione del Sud. Migrazioni, condizioni postcoloniali, linguaggi letterari (2009), sfatando luoghi comuni,
tradizioni inventate/indotte e linguaggi acritici che hanno indebitamente contribuito alla formazione
dell’immagine/dell’identità dei tanti Sud locali che costituiscono il Sud globale, per restituire al Sud l’antica dignità del
pensiero autonomo, a partire dalla valutazione critica delle relazioni umane e socio-politiche che in esso prendono
corpo, dalla considerazione della dimensione quotidiana del vivere nei territori in questione.
Rileggere e riesaminare la cultura convenzionale/la parzialità delle visioni della modernità europea con un
atteggiamento critico dolorosamente virtuoso, umanistico, laico e mondando, eppure dolorosamente oppositivo
(Storicità dei testi e Soggettività delle valutazioni), una via di salvezza per chi ancora crede nella speranza.
Tre libri hanno ispirato la scelta del titolo e dei vari nuclei tematici:
- Il consiglio d’Egitto (1963) di Sciascia → forse l’ultimo vero esempio di chisciottismo siciliano, ove particolarmente
vere si rivelano le parole dell’abate Vella:
“Tutta un’impostura. La storia non esiste. Esite l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne
andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere.
Vostro nonno ha forse scritto la sua storia? E vostro padre? Sono discesi a marcire nella terrà né più e né meno che
come foglie, senza lasciare storia…
E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella storia?”
- L’invenzione della tradizione (1983) di Eric J. Hobsbawm → libro-paradigma sui processi di costruzione della Storia
e delle storie:
“Per ‘tradizione inventata’ si intende una serie di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente
accettate, che si propongono di inculcare valori e norme di comportamento ripetitivi , nelle quali è automaticamente
implicita la continuità col passato. Di fatto, tentano di affermare la propria legittimità attraverso la presunta continuità
con un passato storico opportunamente selezionato”.
- Orientalismo (1978) e Cultura e Imperialismo (1993) del critico palestinese Said → opere che hanno esemplificato il
senso di una ricerca critico-letteraria condotta alla luce delle grandi tragedie dell’umanità moderna e contemporanea:
la disperazione dei popoli senza storia, gli eccidi in nome della democrazia e della ragion di stato (spesso così diversa
dalla ragione umana), i viaggi della speranza lungo il Mediterraneo (sradicamento, esilio e misure di carceramento
preventivo nei CPA), le migrazioni di massa da Oriente verso Occidente, da Sud verso Nord, attuate per rendere più
opulente le realtà opulente, ed archiviate dalla normalità del silenzio e dell’indifferenza (in nome della retorica
securitaria europea, della pubblica sicurezza e delle politiche di controllo e confinamento dei moti migratori, perpetrate
con progressione razzista, xenofoba, concentrazionaria e populista).
Durante l’800 e il ‘900, l’Occidente/il Nord opulento ha provveduto all’invenzione di un Sud nel quale gli “apostoli del
progresso” avrebbero dovuto portare civiltà e democrazia, definendolo come spazio debole, eternamente in ritardo
rispetto all’Eden speculare, un non-luogo definito non tanto geograficamente, quanto ideologicamente in modo elastico,
sufficiente a sancirne l’esistenza in ragione del soddisfacimento delle necessità nutrite dalle realtà più opulente.
(Cfr leviano riconoscimento per contrapposizione/rovesciamento in Cina)
La riflessione di Said induce a riattraversare i luoghi di quel Sud inventato e spesso abbandonato:
- Taranto e l’Ilva, l’impianto siderurgico più grande d’Europa, un “pulmone tumorale naturale” collocato in un
“pezzetto di terra” in cui “lavorava la classe operaia più concentrata del meridione” (Respiro e non respiro. Taranto,
Celestini).
- Napoli e l’ultradecennale emergenza rifiuti in Campania.
“Le campagne del napoletano e del casertano sono mappamondi della monnezza, cartine al tornasole della produzione
industriale italiana… Ogni scarto di produzione e d’attività ha la sua cittadinanza in queste terre”
(Terra dei fuochi, Gomorra, Saviano, 2006).
Scenari infernali, densi di vite di scarto, rifiuti umani e materiali come effetto collaterale di una modernizzazione
punitiva, mai completamente avvenuta; complici l’omertà dello Stato, delle istituzioni e spesso dello stesso popolo.
Come ha notato Curzio Maltese, “la questione settentrionale è del tutto immaginaria, trampolino di lancio per qualche
demagogo” mentre “la questione meridionale marcisce nella più totale indifferenza”.
E benché non sia ancora del tutto chiaro come inquadrare la questione meridionale, il rapporto Nord-Sud non si
configura come una relazione tra opposti separati, ma tra entità e territori sovrapposti, intricati, coesistenti.
(Cfr leviana persistenza nella differenza, compresenza e persistenza, unità nella specificazione individuale e
dicotomia/discrepanza di Scotellaro, in realtà dualistica complementarità)
E’ sufficiente ricordare che la grande maggioranza degli immigrati italiani negli Stati Uniti proveniva dalle regioni
agricole meridionali (gente di origini contadine, considerata razzialmente altra persino dalle classi dominanti dell’Italia
settentrionale) per comprendere come dal Sud Italia al Nord Atlantico, dal Nord Africa al Sud Italia, la questione
meridionale (e di conseguenza, quella legata alla mobilità migratoria in atto) sia sempre, anche, una questione
settentrionale, fatta di razzismi, identità negate, discriminazioni, tradizioni inventate e relazioni ambivalenti, mutevoli e
instabili, da considerare per ribaltare gli stereotipi che tuttora alimentano l’invenzione di un Sud, locale e globale,
sottosviluppato.
Fanno riflettere in tal senso le osservazioni di Saviano. Secondo lo scrittore campano, il potere della scrittura letteraria
consiste nel saper &