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CAPITOLO 2. PRENDI QUESTA MANO, ZINGARA!
Analisi della produzione ortesiana secondo le coordinate classiche del Realismo Magico e del Fantastico, nel
tentativo di individuare la relazione esistente tra la fantasia individuale dell’autrice e quella collettiva del
pubblico di lettori illustrando, al contempo, il processo che ha indotto la Ortese ad emanciparsi dal Realismo
Tradizionale sino a lambire forme ibride di espressività letteraria.
Sarebbe ingiusto ritenere che il tragitto compiuto attraverso le due fondamentali poetiche del Realismo
Magico (degli esordi) e del Fantastico (di alcune sue opere maggiori) sia rigidamente cronologico e diviso in
compartimenti stagni: di tutte le esperienze letterarie vissute, la scrittrice qualcosa trattiene e qualcosa rifiuta,
in bilico tra l’adeguamento alla letteratura ufficiale e l’estensione della sua immaginazione.
Non è difficile comprendere come una giovane Ortese, ragazza ipersensibile e aperta alle suggestioni della
fantasia, potesse essere attratta dalle idee di Bontempelli.
Sin da bambina, infatti, sperimentò nella semplicità del vivere quotidiano una sorta di trasfigurazione della
realtà cui si aggiunse l’esperienza del dolore e dello smarrimento a causa della morte del fratello, occasione
in cui scoprì il valore curativo della parola, per se stessa e per sua madre.
Nel 1933 debuttò su “L’Italia letteraria” con le poesie Manuele, Al mio faro che non c’è più e Sempre a una
soglia.
Ma fu nel 1937 che per iniziativa di Bontempelli (nuovo direttore de “L’Italia letteraria”, fondatore della
rivista 900 e teorico della poetica del Realismo Magico, formalizzata l’anno successivo nei quattro preamboli
de L’avventura novecentista) pubblicò presso Bompiani la sua prima raccolta di racconti, Angelici dolori,
stroncata da Falqui e Vigorelli per colpire indirettamente lo stesso Bontempelli, ma apprezzata da personalità
del calibro di Gatto, Quasimodo e Momigliano.
La Napoli della sua adolescenza, estatica ed eterea, rapinosa e splendente, così lontana da quella che avrebbe
descritto nel 1953 in Il mare non bagna Napoli, tanto piacque ai suoi amici partenopei perché divenne
trasposizione letteraria di una realtà che rappresentava di fatto una fantasia collettiva dei napoletani, grazie
ad una facoltà immaginativa capace di “fecondare” il reale illuminandone i lati meno conosciuti: l’eleganza,
la leggerezza e la sobrietà decantate, in opposizione all’immagine ormai consolidata di una Napoli chiassosa,
sguaiata, truffaldina, riuscirono persino secondo alcuni a modificare radicalmente l’iconografia tradizionale
della città, in un’opera insignita di valore sociologico ed antropologico.
E’ citato, su tutti, il racconto Isola, narrazione della “fuga” dell’autrice/protagonista dalla sua casa di Via dei
Mercanti, luogo soffocante nel quale aveva sperimentato “l’affanno di una vita prigioniera e vogliosa” fatta
di “quotidiani vagabondaggi per le vie della città straniera”.
“Spinta da una curiosità non priva di malinconico affanno” (cfr “leggevo e camminavo” -da un’intervista del
’73 per Dacia Maraini-, cultura concepita come cinesi ed educazione che fece del contatto con la strada il
centro della sua esperienza conoscitiva) si diresse verso una casa bella e proibita da cui sembrò essere
irresistibilmente attratta: una sconosciuta località amena, una sorta di “isola” di pace lontana dal caos
cittadino, certamente una metafora dell’agognato despacho personale sempre cercato e mai trovato, ove
grazie all’apparizione del fantasma del nonno/giovane amato, personificazione di un utopistico sentimento
amoroso che si sarebbe successivamente evoluto nell’ortesiano spirito di accoglienza del diverso, si era
manifestato il miracolo quotidiano dell’immaginazione tanto ricercato da Bontempelli.
Gli esordi nell’alveo del Realismo Magico, seguiti dalla parentesi Neorealista del Mare, furono solo brevi
passaggi alla ricerca di un’autentica autonomia poetica ed indipendenza di genere, vera espressione della sua
diversità ed unicità, consistente, secondo Carlo Betocchi, nella “capacità di esprimere quel residuo di
femminilità rimasto incontrollabile da parte dell’uomo”(1938).
Giunse difatti a concepire una letteratura che, pur servendosi di Realismo Magico e Fantastico,
paradossalmente le superò entrambe in nome di un Avventuroso Realismo permeato da un “Modo”
Fantastico declinato al femminile, rivisitazione femminile del “Perturbante Freudiano”, tra il meraviglioso ed
il mimetico/neorealistico, determinato dalle infinite dinamiche del legittimo desiderio individuale (a sua
volta scaturito da una facoltà immaginativa consapevole della diversità, irrobustita dal ricordo )
contestualizzato socialmente, storicamente e culturalmente.
Nello specifico, il Perturbante è da intendere come qualcosa di strano, di poco familiare, che nella sua
apparente novità nasconde invece tratti domestici ed umanizzati, terrificanti perché determinati
dall’inversione/ricomposizione di aspetti di questo mondo entro nuove ed inusuali relazioni.
Proprio il coinvolgimento emotivo/condizionamento sensoriale (definibile influence of anxiety e non anxiety
of influence) subito dalla Ortese a causa del perturbante muta nello spirito di compassione, comprensione ed
accoglienza del diverso posto a fondamento del Fantastico ortesiano, grazie ad una facoltà immaginativa che
contribuisce ad un’autentica percezione della diversità, per un Fantastico che ne assume piena
consapevolezza.
VISIONARIETA’/MODO FANTASTICO ortesiano declinato al femminile → rivisitazione del
PERTURBANTE freudiano → rielaborazione del reale attraverso DESIDERIO INDIVIDUALE → a sua
volta scaturito da un’IMMAGINAZIONE CONSAPEVOLE della diversità (irrobustita dalla
MEMORIA/RICORDO), che dà voce all’incontrollabile residuo di femminilità ortesiana→ e genera
coinvolgimento emotivo → alla base dello SPIRITO DI CAMBIAMENTO ED ACCOGLIENZA DEL
DIVERSO → tipico dell’UTOPISMO ortesiano (che racchiude in sé consapevolezza e desiderio di
mutamento del Reale, quindi AVVENTUROSO REALISMO).
Nella definizione della poetica della scrittrice, molto più adeguato sembra essere il concetto di “modo”
fantastico teorizzato da Jackson a dispetto del fantastico come “genere” formalizzato da Todorov, in quanto
non sono i prodigi preternaturali a contraddistinguere il fantastico ortesiano, ma il condizionamento emotivo,
sensoriale ed intellettuale di una scrittrice che accoglie in sé timori, inquietudini, sentimenti e vicissitudini
esistenziali dei personaggi descritti.
Nello specifico, se Jackson pose al centro elementi psicoanalitici ed azioni, scenari originati da volontà
consce o inconsce determinate dalla capacità di immaginare/immaginazione creativa, Todorov individuò il
Fantastico come “genere” nel momento di esitazione condiviso da personaggio e lettore, momento che
precede l’accettazione (il Meraviglioso) o il rifiuto (lo Strano) di un avvenimento non spiegabile con leggi
fisiche:
“Il Fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza: non appena si è scelta l’una o l’altra risposta,
si abbandona la sfera del Fantastico per entrare in quella di un genere simile, lo Strano o il Meraviglioso”.
(T. Todorov, La letteratura fantastica)
Ortese, invece, allargava il momento di esitazione condiviso a temi che avevano solide radici nell’attualità
sociale e politica, e non operava mai una netta distinzione tra Fantastico e Meraviglioso, ma nel momento in
cui cercava di convincere il lettore ad abbandonare ogni riserva, continuava e spesso intensificava un fitto
dialogo con il reale incorporandolo nella dimensione stessa delle sue storie “meravigliose”, troppo dense di
grumi di dolore per consentire al lettore una totale abdicazione dal regno della realtà.
Così facendo, è riuscita ad emancipare il romanzo realista dalle sue generiche costrizioni, dissociandosi dal
Realismo Magico bontempelliano (che intendeva mutare la quotidianità in un “avventuroso miracolo” per
riscoprire il senso magico della vita, in un mondo reale fecondato da una facoltà immaginativa nata dalla sete
di avventura ed estranea al mero favolismo delle fate) e dal Surrealismo (concepito come assenza del reale,
ripiegamento in una dimensione immaginaria costituita da mondi secondari superiori ed alternativi che
trascendevano leggi logiche e principi di verosimiglianza).
L’iguana (1965) → Il suo primo romanzo reputato fantastico, declinato in chiave eco-femminista. E’ in
parte una fiaba (vi è un eroe, Daddo, che partito da Milano con intenti soffusamente romanticizzati di
scoperta approda nell’immaginaria isola di Ocana, dove incontra Estrellita, “una bestiola verdissima e alta
quanto un bambino”, un’iguana vestita da donna, un tempo amante del signore del posto e divenuta poi una
serva, un’anti-principessa ibrida e mutante -così come la letteratura che la ospita- che incarna il dissidio tra
natura e civiltà, tra reale e fantastico, dalla quale il co-protagonista si sente misteriosamente attratto, tanto da
chiederla in sposa ed impazzire d’amore a causa del suo rifiuto. Chiusa in una tristezza e in un’introversione
fuori dal comune, Estrellita torna sul finale al suo immutabile destino di servitù ed umiliazione, simbolo di
un mondo naturale dolente e spaventato, forzatamente sottomesso ai voleri del genere umano, e della
condizione di subordinazione che da sempre caratterizza l’universo femminile), ma anche un’opera di
scherno nei confronti dell’insensatezza umana o di classe, e di denuncia verso le devastazioni sociali,
culturali ed ambientali dell’Italia del dopoguerra.
Critica ecologica e critica femminista coincidono difatti nel rendere visibili le distorsioni di una società
noncurante dei diritti dei più deboli, ed incapace di accettare le possibili manifestazioni di una “femminilità
trasversale”, non ascrivibile entro alcuna immagine convenzionale e rassicurante, che cozza con una “ragione
maschile e borghese” destinata a perire di fronte all’impossibilità di attuazione del cambiamento
egoisticamente ed ottusamente agognato.
CAPITOLO 3. PARTIRE DA SE’ E NON FARSI TROVARE
Si analizza come la Ortese sia riuscita, con Il porto di Toledo del 1969, a trasformare un genere classico
quale l’autobiografia in qualcosa di profondamente nuovo e in costante mutamento, “un’autobiografia
inventata”, “il racconto di una vita irreale”/Ricordi della vita irreale