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Il fuorilegge della foresta è mosso da un proposito: combatte l'ingiustizia dalla sua ombra
stessa, compie le sue eroiche imprese nella foresta, smaschera l'ironia per poi essere
reintegrato nella società. Lascia la foresta e muove verso la luce della salvezza.
(La selva in Dante)
Nella Divina Commedia, la selva ottiene un aspetto tutto nuovo. Dante si smarrisce nella
selva oscura, si trova anch'egli all'ombra della legge. Ma è la legge morale di Dio, non la
legge secolare. La legge di Dio è infallibile, ergo la selva non è un rifugio dall'ingiustizia
ma un'allegoria della colpa cristiana, del peccato. Nuovo elemento: la paura della foresta
che non è data dalla presenza di animali selvatici ma è una paura vaga e indefinita che
rasenta l'angoscia esistenziale.
Dante sente il bisogno di un mutamento di direzione: ''nel mezzo del cammino di nostra
vita'' non indica il punto intermedio di una traiettoria ma un punto critico che richiede una
conversione, un mutamento di direzione. Dante esce dalla selva con un repentino
mutamento di paesaggio. La foresta diventa inesplicabilmente un deserto. Dante è
adesso libero di dirigersi verso la sommità del monte, camminando dritto. Incontra le tre
fiere, sintomo delle principali categorie del peccato (incontinenza, violenza e cupidigia):
questo ci mostra come non è realmente al di fuori della selva, essendo le fiere
appartenenti a quell'ambiente. Il paesaggio rimane fondamentalmente una foresta:
Dante riesce a rappresentare per il lettore il fatto che la diritta via è la via erronea.
Dante vede la luce della trascendenza sulla sommità del monte e non riesce a
raggiungerla: la selva descrive l'impotenza, la rinuncia della volontà. La figura di Virgilio
arriva in soccorso a Dante e lo guida lungo il monte, spiegando che la strada è in
discesa e che lo condurrà al centro del mondo terreno. La strada in discesa indica una
miracolosa conversione nella figura del protagonista: è la strada dell'umiltà, più ljunga e
più tortuosa.
Alla fine di questa discesa e della successiva scalata, Dante si ritrova in una foresta:
stavolta non si tratta della selva oscura ma della selva antica del paradiso terrestre.
Dante è qui libero di vagare per quei boschi in quanto adesso, come Virgilio spiega, si è
sbarazzato della ''diritta via'', della via erronea.
Differenza tra selva oscura e selva antica: La selva antica è snaturata dei pericoli della
selva oscura e dei suoi animali selvatici. Grazie al processo di espiazione, questa selva
ha cessato di essere un luogo selvaggio del mondo naturale ed è diventata un parco
municipale della città di Dio.
Nella dottrina cristiana, la redenzione della natura (compresa la natura umana nella sua
condizione di peccato) significa la sua completa riumanizzazione, perché Dio creò
Adamo a sua immagine e gli diede il dominio sulle fiere.
Affermare che la volontà umana è stata redenta significa affermare che essa ha trionfato
sulla natua e questa è la volontà di Dio.
La selva oscura rappresenta nel prologo di Dante l'ombra della legge. Se la legge è il
potere assoluto della volontà, allora la sua ombra appare come l'impotenza della
volontà, l'incapacità di conquistare il potere. Questa impotenza è la paura che Dante ha
dinnanzi alla selva.
(La foresta nella psiche umana)
La foresta diventerà, nella letteratura, lo scenario di ciò che verrà chiamato l'inconscio
della psiche umana. Un esempio ne è la terza novella della quinta giornata del
Decameron di Boccaccio. Questa narra di due giovani innamorati, Pietro e Agnolella che
si perdono nella foresta ma separatamente e, invece di ritrovarsi, si imbattono entrambi
in uno stupro simbolico (causato per Agnolella da un gruppo di briganti che con una
lancia le sfiorano il seno e per Pietro da un gruppo di lupi che cerca di prendere il suo
ronzino). Il loro lieto fine è basato sul fatto che i due, dopo aver affrontato queste
avventure, si ritrovano, si riscoprono. La foresta è per loro un'iniziazione simbolica della
sessualità. I due giovani vengono simbolicamente stuprati. Questi stupri simbolici
rappresentano la condizione individuale della solitudine, dell'essere uno contro molti.
Prima di diventare uno, Pietro e Agnolella devono estraniarsi nella foresta, devono
diventare due. Nella foresta perdono per la prima volta la loro verginità, ovvero il
possesso di sè. Soltanto dopo essere profanati essi sono davvero pronti per suggellare il
loro amore con l'unione sessuale.
(Età dell'uomo)
Con questo termine intendiamo il risveglio umanistico del Rinascimento italiano ma,
aldilà di questo, evochiamo l'età di una specie, del trionfo di una specie. L'espansione
della Repubblica marinara di Venezia nel XV secolo decreta la fine di molti boschi
sopravvissuti al precedente sterminio dei secoli precedenti. Alla fine del secolo, quando
gli alberi da legname cominciarono a scarseggiare, la Repubblica adottò misure estreme
per proteggere ciò che restava delle foreste dell'entroterra. Ciò che distingue l'età
dell'uomo dalle epoche precedenti è l'ideologia umanistica che accompagna il
potenziamento dei suoi mezzi e della sua ambizione.
Uno degli indizi certi dell'avvento dell'età dell'uomo è la trasformazione delle foreste in
luoghi di nostalgia lirica. In una delle più note liriche di Petrarca (Chiare, fresche et dolci
acque) la foresta appare come un rifugio dal mondo tumultuoso della società umana, in
cui il poeta si ritira per cercare sollievo nel ricordo del passato. Di certo non siamo più in
una selva oscura, non vi è qui nulla di selvaggio e non vi sono mostri, nè alcuno
smarrimento. Il poeta si ritira qui non per scoprire l'avventura ma per dedicarsi
all'introspezione. La foresta non è un rifugio per il fuorilegge ma per un uomo vittima
delle tensioni generate dalla civiltà.
Analizziamo una delle grandi epiche del Rinascimento: L'Orlando furioso.
Nel poema troviamo alcune delle foreste più straordinarie della letteratura, piene di
magia, di mostri, cavalieri e strane avventure. Il poema è pervaso da un'ironia rivolta alla
situazione geopolitica dei tempi, instabile e legata alle circostanze. Ariosto ironizza sul
concetto di virtù ed è proprio nella foresta che tale virtù si smarrisce nella propria ombra.
Già dalle prime scene vediamo dei cavalieri erranti nella foresta che cadono da cavallo o
lo perdono per negligenza. Questo rappresenta l'analogia tra virtù e abilità nel cavalcare.
L'anima virtuosa è come un auriga che riesce a mantenere i suoi due cavalli (la volontà
e l'intelletto) su un sentiero diritto. I cavalli del Furioso non possono essere controllati
altrettanto bene: poiché nessuno li mantiene su un sentiero diritto, essi si disperdono in
tutte le direzioni nel folto della foresta, il luogo dello smarrimento erotico.
Il tema principale del Furioso è l'incapacità dei valorosi paladini di controllare il desiderio.
La maggior parte dell'azione, nel poema, si svolge nelle foreste, le quali rappresentano
lo scenario delle tenaci passioni e degli impulsi irrefrenabili che distraggono i paladini
dalla loro elevata missione, cioè proteggere la cristianità dagli infedeli invasori.
Quasi tutti i personaggi dell'Ariosto subiscono l'espropriazione del desiderio erotico e le
foreste in cui vagano sono i luoghi di questa epropriazione. Essi vagano nelle foreste
alla mercè di forze che non sono in grado di controllare. Una caratteristica del Furioso è
il racconto frammentato: il poema fiene frammentato di continuo cosi da raccontare varie
vicende, vari episodi che si intersecano tra di loro. Non esiste alcuna trama principale,
l'autore devia continuamente il corso della storia dalle vie principale e lo dirige nelle
foreste. Il fulcro del poema è la perdita del senno di Orlando che lo conduce in un vortice
di auto-epropriazione.
Angelica e Medoro, trovando il loro lieto fine, vengono messi da parte dal romanzo,
lasciando dei versi incisi su un albero in quell'ambiente idilliaco che Orlando distrugge
con la sua furia. La stessa foresta idilliaca descritta da Petrarca. Orlando sradica quella
foresta dell'idillio e getta i suoi detriti nel ruscello. Il protagonista diventa anche un
flagello per quei pastori che avevano dato ospitalità ad Angelica e al suo amante. In
questa violenza scorgiamo l'atteggiamento di Ariosto nei confronti della nostalgia
pastorale perché, come si chiede il poeta, è impossibile essere petrarchisti in tempi
come questi.
La follia distruttrice di Orlando si abbatte anche su un altro fattore: le armi da fuoco. In
una celebre invettiva del Furioso, il poeta denuncia la macchina infernale che fa uso
della polvere da sparo. Era una maledizione non solo per la sua distruzione ma perché
spersonalizzava la guerra, contravvenendo a tutte le norme cavalleresche, basate sul
valore e sul coraggio. Quando Orlando getta l'arma da fuoco in mare, libera in senso
allegorico il potere da quella macchina infernale. La furia di Orlando è allegoria della
polvere da sparo.
Anche il trattato del 1592 di Manwood è pervaso da nostalgia. Le foreste erano in stato
di degrado e Manwood, spiegando cause e origini, pensava di poterne preservare la
cura e il corpus di leggi antiche dedite a proteggere l'ambiente forestale. In Inghilterra, i
disboscamenti erano stati effettuati già con Guglielmo ma il taglio dei boschi continuò
con gli Stuart e i Tudors. Solo nel XVII secolo si comprese la grande importanza vitale in
campo economico e nazionale dei boschi.
Il mutare del paesaggio spiega l'inversione presente nell'opera di Shakespeare. La
natura selvaggia che da sempre apparteneva alla foresta si trova adesso nel cuore degli
uomini civili. I pericoli vengono dall'interno, non dall'esterno. Quando la città diventa
sinistra, le foreste diventano innocenti, pastorali, divertenti. I personaggi di Shakespeare,
come Iago o Edmondo o Macbeth, violano i più sacri confini naturali e, quando tali
confini perdono il loro potere vincolante, essi cadono in una barbarie dello spirito che
richiama le parole di Vico sugli uomini infidi dell'età dell'uomo che erano resi fiere più
immani con le barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso.
Vico leggeva nelle barbarie la fine dell'età dell'uomo e un ritorno ad uno stato di natura
con l'imminente trasformazione delle città in foreste. Nell'opera di Shakes