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PISTOLE GIOCATTOLI E SPADE CARNEVALESCHE. LONE GALA / ENRICO
IV
Il giuoco delle parti
Ne la situazione paradossale è attraversata da una tensione
drammatica che culmina con un finale di sangue. Questo testo rappresenta
l’unico caso in cui sui frontespizi delle prime edizioni di Maschere nude si legge
Il giuoco delle parti in tre atti, dove “in tre atti” ha un ruolo predicativo più che
appositivo.
In una lettera inviata a Ruggeri, come commento della reazione negativa dei
critici, ritiene assurdo giudicare con criteri naturalistici un’azione
espressamente dichiarata un “giuoco”. Questo accade perché si utilizzano
categorie tradizionali anche per le strutture del testo radicalmente rovesciate
della drammaturgia del primo Novecento. Il teatro senza fatti, che li
rappresenta per negarli, non è ancora del tutto compreso nella sua logica
inverosimile. Ciò che non si vuole cogliere sono le implicazioni filosofiche di una
rottura di così ampie proporzioni.
Il giuoco delle parti viene considerato cinico e immorale per via del finale.
Pirandello è in realtà perfettamente consapevole di essere in linea con le novità
del teatro del grottesco, che è il corrispettivo della poetica dell’umorismo. Nel
nuovo teatro sussistono ancora suicidi e omicidi, con veleni, pistole o spade,
ma essi vanno visti con uno sguardo diverso che ne colga il senso simbolico e
filosofico.
Durante la stesura, Pirandello cambia il titolo della commedia da Quando s’è
Il giuoco delle parti
capito il giuoco a in tre atti, trasformando in forma teatrale
l’assunto di fondo del testo, enunciato più volte da Leone Gala: la vita percepita
come un giuoco porta a vivere esercitando la ragione fino a domare i
sentimenti e a raggiungere una sorta di atarassia.
Questo testo guarda forse più al dramma antico che alla commedia borghese,
ma lo fa restando comunque ancorato ad un teatro copernicano e
dell’umorismo. Secondo questo teatro, non ci può essere più azione: il cielo di
carta si è squarciato e Oreste è diventato Amleto.
Il giuoco delle parti ci pone davanti ad un gioco scenico, ma l’unico a saperlo e
Leone Gala. Pirandello insiste molto sui tempi scenici, indicando continuamente
una pausa attraverso la quale suggerisce che il ritmo delle battute e dei
movimenti scenici va rallentato, per mostrare il passaggio dalla persona
drammatica al personaggio alla marionetta. Così facendo si ottiene un effetto
di antinaturalismo, senza il quale la commedia potrebbe essere scambiata per
un tipico dramma borghese in cui i protagonisti parlano e si muovono nel
rispetto delle convenzioni sociali. In questo caso la pausa corrisponde invece
all’essere assorta di Silia, al suo essere quasi lontana da sé, ossessionata dal
marito che non sopporta e che è andato così a vivere altrove, dandole subito la
libertà che vuole e dimostrandole al tempo stesso che questa libertà in realtà
non esiste.
Leone Gala esterna il difficile percorso che lo ha condotto ha capire il gioco
della vita, ma anche “questo qua”, riferendosi all’azione teatrale intesa come
gioco, alla base stessa della commedia. Ci presenta quindi anche la sua
filosofia pratica, che consiste intanto nel vuotarsi dalla vita, come fa anche il
Filosofo di All’uscita, e nell’esercitare il gioco dell’intelletto che chiarifica il
torbido dei sentimenti. Bisogna poi ancorarsi ad un concetto, per non restare
leggeri come nuvole, per parare un eventuale caso imprevisto e violento.
Pirandello fa ricorrere più volte la metafora dell’uovo fresco, che indica
principalmente il movimento verso l’atarassia. In Sei personaggi in cerca
d’autore, prima dell’arrivo dei Personaggi, gli attori stanno provando l’inizio del
secondo atto del Giuoco delle parti, come il Capocomico che si lamenta perché
dalla Francia non arrivano più commedie nuove mentre Pirandello ne scrive
tante in un modo che rende difficile ad attori, critici e pubblico di restarne
contenti in quanto non sono in grado di comprenderle. Pirandello approfitta
quindi dell’occasione per far spiegare al Capocomico il vero significato della
scena di apertura del secondo atto, con Leone vestito da cuoco insieme al
cameriere Filippo: il guscio rappresenta la forma vuota della ragione, il pieno
dell’uovo rappresenta invece l’istinto, che è cieco: Leone Gala è la ragione, Silia
l’istinto.
Silia idea un piano per far uccidere il marito, spingendolo a sfidare a duello un
marchese da cui si ritiene offesa. E nel suo ruolo di marito svolge il proprio
dovere, sfidandolo. Le condizioni dettate dall’amante, pensando che si sarebbe
battuto Leone Gala, sono durissime, ma tocca poi a lui battersi in quanto è lui
che possiede realmente Silia.
All’aprirsi del terzo atto si esplicita quanto prima era stato anticipato con parole
indecifrabili: ognuno deve fare la sua parte, anche Leone, che svuotato delle
passioni domate non può sfuggire alla parte della ragione. Il gioco delle parti è
infatti un gioco condotto da fantocci e da cui neanche Leone, che rappresenta
la vuota forma della ragione, può sottrarsi. Il finale è solo la messa in atto del
tragico umorismo, ha una forma geometrica e una struttura drammaticamente
logica: non si esce dalla forma della vita. Il duello si svolge all’esterno, cosicché
lo spettatore non vedrà appagata la sua curiosità di conoscerne i dettagli,
perché il finale filosofico fa a meno dei dati di fatto: “un fatto è come un sacco:
vuoto non si regge”, afferma il Padre dei Sei personaggi in cerca d’autore. Lo
stesso Pirandello, nella prefazione ai Sei personaggi, arriva a spiegare il
significato del senso universale e filosofico di cui fatti e personaggi sono
imbevuti, senza il quale si è soltanto uno scrittore di natura storica.
Viene fatto poco rilievo sull’oggetto scenico della pistola. Il suo colpo può
essere vero, mancato o finto e poche battute bastano a commentare una morte
segnalata dal rumore, particolare importante nel teatro. Avviene una perdita
della consistenza dell’azione, che si riversa nella lettura del finale: in un
dramma prospettato come paradossale, la morte si apre a possibilità
interpretative plurime, fino a sconfinare nell’irrealtà.
In base al tragico umorismo il personaggio non può agire spinto dall’ira o dalla
vendetta, ma da una ragione algida e geometrica. È un gesto che mette fine al
percorso di svuotamento dalle passioni compiuto dal personaggio drammatico
tradizionale. L’ira non si addice più a personaggi privi di carattere: la
Il fu Mattia Pascal
contrapposizione tra Oreste e Amleto ne è finita sul
palcoscenico, aprendo il varco alla parola antiretorica, dialettica e filosofica,
unica arma di difesa e attacco in situazioni che fanno da metafora all’assurdo
gioco della vita.
Spade e pistole non sono altro che giocattoli, come l’azione antinaturalistica
che le usa per le paradossali e tragiche verità non è altro che un gioco.
l’Enrico IV,
Per Pirandello fa un uso esplicito della classificazione “tragedia in
Sei personaggi
tre atti”, quasi un passo indietro rispetto alla messa in scena di
in cerca d’autore, avvenuta solo l’anno prima. La scelta di questo genere reca
con sé un recupero della temporalità aristotelica. Il finale inoltre vede
consumarsi un delitto passionale effettuato in modo plateale, all’intero di
un’azione che non viene più chiamata “gioco” o “commedia da fare” ed è da
stabilire se l’intento di Pirandello fosse quello di ripristinare la mimesi e il
verosimile o di fare il verso ai drammi storici del tempo e in particolare ai finali
sanguinari di D’Annunzio. Enrico IV
Nella lettera a Ruggeri, Pirandello afferma che ha un’insolita
profondità filosofica, nel tema dell’impossibile confine tra normalità e follia e
dell’inarrestabile scorrere del tempo, cui fa eccezione la fissità della maschera
tragica di Enrico IV.
La scenografia iniziale suggerisce il contrasto tra la finzione del passato e
l’attualità del presente, con i due grandi ritratti ad olio, in stile moderno, che
stridono tra arredi che dovrebbero figurare la sala del trono dell’imperatore
tedesco. I quattro consiglieri dell’imperatore alludono subito alla loro falsa
identità, affermando che non stanno recitando un dramma storico. Lo stesso
Enrico IV
Pirandello, in un’intervista rilasciata nel 1922, conferma che l’ non è
un dramma storico ma una parodia del dramma storico, in quanto si svolge agli
inizi del Novecento. I consiglieri sono dunque dei fantocci che aspettano un
autore teatrale che dia loro qualche scena da rappresentare, in quanto c’è la
forma ma manca il contenuto.
Essi si divertono ad assecondare la follia di Enrico IV, di cui non è dato
conoscere il vero nome. Anzi, nel testo è preceduto da dei puntini di
sospensione, che fanno quasi pensare che ormai non importi nemmeno più
conoscerlo, il suo vero nome, o che addirittura sia nato già così, fissato nella
maschera che lo stesso autore gli ha dato.
La prima scena torna con molta insistenza sulla situazione teatrale e quando
vengono annunciati degli ospiti dal maggiordomo, i consiglieri li accolgono
come coloro che porterà loro il contenuto, da cui nascerà la tragedia. Questa
tragedia si riferisce al delitto finale, quando Enrico IV colpirà l’ex rivale, colui
che ha causato la sua caduta da cavallo durante la cavalcata in costume
organizzata per il Carnevale di vent’anni prima, quando ha battuto la testa e, al
suo risveglio, restò fissato nel personaggio di Enrico IV: per lui il tempo non
passa, ai suoi occhi e nel suo sentimento.
I ritratti del giovane Enrico IV e della marchesa Matilde Spina, vestita da
Matilde di Toscana, sono indicati dai consiglieri come ciò che scatenerà la
tragedia e vanno letti su un doppio livello: quello letterale, della vendetta e
della passione, e quello filosofico: il trucco ideato dal medico è quello di far
apparire insieme Frida, vestita con l’abito che la madre aveva allora, e la
Matilde di oggi, per provare a restituire a Enrico IV il senso del tempo.
Enrico IV ha ferito Belcredi con un colpo di spada sia all'inizio della vicenda sia
alla sua conclusione e benché non si possa parlare di finale incipitario della
tragedia cinquecentesca ci troviamo comunque di fronte ad una studiata
anticipazione della conclusione. Ecco spiegata la paura del folle e della sua
spada: tutti infatti c