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CAP. 3 – PAZZI A REGIME E PAZZI DI REGIME. EDUARDO TRA
SCARPETTA E PIRANDELLO: nel primo ventennio del 900 la follia prende
spazio con Cesare Lombroso ed una lunga scia di best-seller.
Successivamente si sviluppa una polemica sul genio in quanto forma
deviante e vi partecipa tra gli altri anche Pirandello. Con Lombroso il genio
avrebbe rappresentato in rapporto con il proprio doppio, la follia, un
potenziale di più addomesticata eversione. L’epidemia intellettuale ha proprio
in Pirandello il suo focolaio infettivo destinato a generare epigoni. Ed Eduardo
sa che il teatro del passato è un mondo inabissato più che scomparso,
perché mentre i singoli modi di far teatro svaniscono, la cultura storica
dell’attore permane. Il caso della postura stilizzata del sopracciglio inarcato di
Scarpetta, con malizia riemerge in De Filippo. Una postura incardinata nella
maschera di follia, apparentemente bonaria, ma selvaggia e feroce, esibita in
Ditegli sempre di sì: questo testo rappresenta il punto di convergenza delle
traiettorie principali che incrociano la formazione edoardiana ed il motivo della
pazzia subisce un approfondimento tematico e drammaturgico più originale
che in Uomo e galantuomo. La riduzione parodistica dei propri modelli, al
centro di quest’opera, è di estrazione masochista, ma non meno riconducibile
alla sfera della silenziosa lamentazione. Emerge il convincimento che la follia
abbia una retorica, funzionale ad un ordine disciplinare. Proprio come in
Ditegli sempre di sì, in cui Michele Murri esercita una follia speculare a quella
dell’Enrico Iv pirandelliano, dove i sani o presunti tali assecondando il pazzo
lo prendono alla lettera. Qui è il pazzo a prendere alla lettera tutto ciò che i
sani dicono e questa è in ciò si trova lo spirito del teatro eduardiano. Luigi
Strada è invece un cialtrone in odore di delirio, vittima predestinata e doppio
di Michele Murri. Il colloquio iniziale col dott. Croce con la conversazione
iniziata come resoconto di numerosi fallimenti è indice di una discesa in
quella follia di cui si annuncia il ritorno. Lo stilema prediletto della
farneticazione di Strada è la risata “veramente difficile per un attore”. In
Ditegli sempre di sì, la follia cresce per accumulo come confermato
dall’edizione tv del 62, fino al cortocircuito tra il pazzo clinico Michele ed il
pazzo artistoide Luigi. Entrambi vogliono sposare Evelina confermando
specularità. Nel frangente concitato della fuga di Ettore, giovane che a causa
di guai con la legge deve schivare la fidanzata Olga, Michele(Eduardo)
costringe Luigi a ripetere la sua scena permettendogli la reiterazione di
quadretto fortemente meta-teatrale. Si mostra così il potere assoluto
dell’attore più esperto. Murri dinanzi alle stravaganze di Strada insiste sul
ragionamento, alludendo a Pirandello parodisticamente. Nel momento di
nominare o sorvolarvi, il manicomio, Michele assume la postura paterna del
sopracciglio inarcato, fino ad esplodere la violenza per la prima volta
schiaffeggiandosi ripetutamente, come per risvegliarsi. Eduardo poi prende di
mira la dimessa postura crepuscolare e pre-ermetica di inizio secolo. La
dialettica attoriale si traduce nel tentativo di Strada di dire i propri versi,
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mentre Murri lo interrompe, assumendo le veci di capocomico, capace di
vessare ripetutamente il proprio attore in prova. L’improvvisazione della recita
della poesia di Strada, in realtà concordata con Murri, a causa del difetto
clinico di quest’ultimo, diventa una farsa nella farsa. Un’onomatopea
sbagliata, cra cra per i passi anziché per indicare una rana, scatena l’estro
derisorio di Murri, che nella versione tv dà l’idea di quanto potesse essere
amplificata la diatriba. Al contrario di quanto succede nel testo,
l’esasperazione di Strada, dinanzi all’incalzare ottuso di Murri, si stempera
nell’indulgenza unanime, mentre in tv c’è una prima esplosione di violenza,
con il personaggio interpretato da Eduardo che brandisce minacciosamente
una bottiglia di champagne. Ed ancora la violenza esplode nella terapia d’urto
adottata nei confronti di Attilio, per convincerlo a suon di ceffoni a
riappacificarsi con il fratello. Il mago Omar Niczbei rivela alla fine il suo
profilo, in una crudele caccia all’uomo. La perfidia e il carattere letale della
funzione che riveste si manifestano nell’inquietante espediente della falce con
cui, accarezzando la siepe, Michele annuncia la sua presenza alle spalle di
Strada. In tv si nota che tutta la scena ha un andamento di allucinazione
giocosa, nei termini di trasfigurazione continua di tutto ciò di cui si serve
Murri/niczbei per realizzare il proprio inganno. Strada viene fatto accomodare
su una carriola in guisa di aereo, costretto a portare in grembo una cesta di
serpenti non velenosi, in realtà rami secchi. Niczbei allarga le braccia come
ali e simula il rollio del motore. Luigi reagisce al tono serafico di Michele
tacendo, annuendo e subendo i soprusi dello stesso. Il tenore caricaturale
dell’episodio contraddistingue le invettive del protagonista edoardiano contro
l’attitudine al ragionamento. Il rispecchiamento definitivo tra pazzo e suo
doppio avviene in conclusione, quando congedandosi, Michele ammonisce
Luigi: Vattenne o manicomio. Il mago Niczbei è una prefigurazione di Sik Sik
e della più matura prova rappresentata da La grande magia, e la sorella è
abbigliata con il costume dell’assistente del Mago. La morte suggella la
ripresa tv con l’ennesima corona di fiori e la villa trasformata per un momento
nel prospetto cimiteriale precedentemente evocato da Strada. Nell’episodio
dei bottoni, il fatto che Eduardo/Michele non strappi i bottoni della propria
giacca potrebbe indicare la necessità di non distruggere niente per non
interrompere la linea ideale della tradizione, ma nulla toglie alla violenza
efferata dell’atto di strappare i bottoni dalle giacche altrui. La guerra dei
bottoni suggella il filo ininterrotto di un’artigianalità del mestiere che perdura
nell’esperienza, di là da ogni possibile cancellazione.
CAP. 4 – ILLUSIONISTI E CERRETANI. SIK-SIK, COTRONE E
MARVUGLIA: l’incontro decisivo tra Pirandello ed Eduardo avviene nel 33 al
Sannazaro di Napoli, grazie al critico del “Mattino”, Achille Vesce, per lo
spettacolo Sik-Sik, l’artefice magno. Sik-Sik riprende la silhouette eduardiana
nella misura di un’osservazione diretta e spregiudicata di chi lavora al suo
fianco e ne sancisce l’impressionante magrezza. Il meta teatro eduardiano è
un intra teatro, rappresenta l’ipotesi felice di una prospettiva vasta e ovattata
come quella del teatro stesso. C’è l’idea di attraversamento non indolore di
un confine sino alla comprensione definitiva che il confine è in Eduardo
stesso, che da quel momento fa sul serio. L’attore che fa sul serio lavora
sotto copertura molteplice: dell’autore impegnato in una fuorviante scrittura
farsesca, del neo capocomico che mira alla propria emancipazione, del primo
personaggio stralunato. In ciò che dice il mago c’è consapevolezza e
profonda onestà della menzogna che riscatta tutta la dignità di un mestiere:
l’imbroglio non c’è e chi lo vede ha visto una cosa per un’altra. Il colombo
diventa pollastro, che Sik Sik non fa vedere per quello che sembra. Come
mago Sik-Sik può fallire, ma come Attore, Eduardo è infallibile, perché
autorizzato a rendere credibile tutto ciò che accade in scena. La famiglia degli
Scalognati di Pirandello rappresenta il punto di arrivo di una parabola che sta
per compiersi: l’orizzonte dei sei personaggi è stato mutato molto. Sono gli
attori, la compagnia di Ilse ad andare incontro agli Scalognati, segnalando il
cammino di ritorno di Pirandello nel ribadimento dei propri antichi
convincimenti. Se gli Scalognati fanno i fantasmi è per la loro natura
fantasmatica. Cotrone costituisce il superamento definitivo del raisonneur, ma
trova conferma il senso di superiorità del poeta, magico per la capacità di
dare vita ai suoi personaggi. Il problema risiede nella maschera nuda della
realtà che è fittizia rispetto alla realtà del fantasma. Anche nell’ultimo atto
pirandelliano si annulla ogni possibilità di catarsi, di soluzione che non sia
nell’autodistruzione. I Giganti suggellano la radicalizzazione inesorabile del
pensiero pirandelliano ed il riscatto cui proprio sulla scena non si deve
risparmiare l’ultima disfatta. Poeta e attore si ricompongono nel personaggio
Otto Marvuglia di La grande magia di Eduardo. La coerenza e l’originalità
dell’impronta eduardiana sono ravvisabili nella postura del personaggio che
riprende Sik Sik con un registro più simile a quello di Omar Niczbei in Ditegli
sempre di sì. Ciò traspare anche nella registrazione tv di Cantata dei giorni
dispari, in cui, nel primo atto, Otto Marvuglia, con l’amante di Marta, Mariano
D’Albino, fa sparire la donna grazie al trucco del sarcofago. Il marito non
capisce e viene sollecitato a prendere posto in scena. L’inganno è un
autoinganno. Eduardo svolge ancora il ruolo di capocomico, anche se fino al
50 interpretava Di Spelta. Marvuglia parla con cognizione di causa, avendo
contezza del trucco e l’illusionismo è autentico, riguarda la fede di Calogero
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nella moglie Marta, che lo obbliga a non aprire la scatola anche per il
sospetto che la responsabilità della scomparsa di essa sia sua. Perché
l’illusione generi effetto occorre che il tempo riveli la sua radice effimera,
coscienziale e fallace. In Pirandello il tempo ha una sua ambivalenza, lineare
del capocomico e sferico dei personaggi, mentre Eduardo attribuisce
direttamente agli attori il compito di incarnare la scansione complessa e
circolare del tempo. Eduardo opta per una strategia intra teatrale che
struttura la propria dilatazione temporale nella focalizzazione interna. Nella
Grande magia Marvuglia è un capocomico che ha da insegnare la propria
arte illusoria. Ha bisogno di pubblico e soprattutto di altri attori per le
dinamiche relazionali. Il pubblico rappresenta lo sfondo placido e
rassicurante, il mare, cui Otto indirizza Calogero. Nello spingerlo verso la
parete immaginifica del mare, Marvuglia prova a occultare con la consueta
sicurezza dei propri gesti il corteo di donne, che rientrando dall’abitazione di
Arturo Recchia, piange la morte della figlia Amelia, di cui Calogero non deve
sapere. Il trucco che ci uccide secondo Eduardo, solo gli esseri umani
saprebbero riconoscerlo, ma preferiscono l’inganno salvifico all’