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CRITICA E VERITÀ
Roland Barthes
Introduzione
L’Università francese è un’istituzione unitaria, la cui unione viene chiamata spirito di corpo.
Il corpo dell’Università è costituito dall’insieme dei professori, contraddistinti essenzialmente da un
grado: il dottorato in lettere. Il dottorato è sottoposto a un certo linguaggio che potrebbe esser
detto scrittura universitaria e che è frutto di una censura generalizzata. Si tratta di parlare di un
testo, di un’opera, secondo una scrittura che non le è propria, e cioè di sopprimere tutti i caratteri,
le figure che costituiscono in letteratura l’impero del significante. In generale, il linguaggio
dell’Università rifiuta di giochi del significante; e in questo modo si dichiara al servizio di una
ideologia del Significato. Tale ideologia è quella della Scienza (applicata alle opere culturali) e
dell’Umanesimo: verità “oggettiva” del testo, valore umano dell’opera, sono queste le due divinità
che hanno presieduto a una enorme quantità di tesi e contribuiscono a definire lo spirito
dell’Università francese. La letteratura, quali ne siano le alienazioni storiche, è il campo stesso in
cui si sovverte il linguaggio. Ma lo sconvolgimento del linguaggio provoca una vacillazione del
soggetto: sovvertire il linguaggio, significa sovvertire tutta la metafisica occidentale. Si verifica
allora il seguente paradosso: l’incarico di gestire le avventure del linguaggio è stata affidata dalla
malignità della sorta alla scrittura più piatta, al metodo di lavoro più antiquato. Il rapporto della
letteratura con l’Università è quello di un prigioniero col suo guardiano. Ciò spiega perché, già da
circa un secolo, una disputa incessantemente rinnovata opponga l’Università a certe correnti della
critica letteraria. Sta di fatto che, tra la vecchia Università e l’elaborazione attuale di una teoria
politica della scrittura, corre una distanza astrale. Da un lato, la nostra società (rappresentata dalla
sua Università) censura l’attività simbolica in se stessa; pretende imporre dovunque i diritti della
lettera; è affetta da quella malattia del linguaggio che è detta asimbolia; è una posizione
incredibilmente retrograda. Di fronte a tale tirannia della lettera, è stato dunque necessario
smascherare gli alibi ideologici (oggettività, gusto, chiarezza) di cui si ammanta superbamente ogni
ricordo alla lettera filosofica o storica del testo, e nello stesso tempo sostenere i diritti elementari
dell’interpretazione, fondati a loro volta sulla struttura polisemica dell’opera classica. Ma bisognava
anche rivolgersi contro questa stessa interpretazione per denunciare in essa una visione
anagogica del senso: infatti, nella pratica corrente dell’analisi letteraria, interpretare vuol sempre
dire: penetrare un preteso segreto dell’opera, raggiungerne la base, scoprirne il senso profondo o
finale, dare al testo un centro e insieme una verità, in una parola, dotarlo di un significato ultimo.
La critica interpretativa diventa impossibile, se intendiamo cercar di abolire il Regno del Significato,
che è quello della nostra cultura fin dalla sua origine. Diritto all’interpretazione e critica di questa
stessa interpretazione: tali sono le due richieste enunciate nel presente testo. Lo strutturalismo si è
ormai aperto il varco e ha fatto cadere in prescrizione l’antico diritto della Lettera. La lotta vera si
combatte attualmente all’interno dello stesso strutturalismo. Questo processo segna nello stesso
tempo la scossa subita dall’idea di Letteratura (e dell’insegnamento della storia letteraria) e il
maturare di quella che viene detta la nuova critica. Sul primo punto, occorre ricordare che lo
straordinario sviluppo della linguistica ha permesso di postulare una scienza del discorso letterario,
ma occorre anche ricordare che nello stesso tempo questa scienza nuova della letteratura deve
pensare la sua propria forma; fino a oggi, il soggetto del sapere è stato sempre accuratamente
lasciato all’esterno del sapere; si tratta adesso di dissolverlo in esso; e poiché tale impresa di
dissolvimento è quella stessa della scrittura, ciò equivale a postulare che non può esservi altra
scienza della scrittura se non la scrittura stessa. E questo ci porta al secondo punto: se non vi è
più che una sola scrittura, spazio di dissolvimento del soggetto nel linguaggio, si aboliscono i
generi tradizionali; non solo non è più possibile ripartire la produzione letteraria in tipi incontestati,
ma anche e più precisamente deve essere impugnata la distinzione tra opera e critica: solo regna
dovunque e da parte a parte il Testo. L’opera non è un oggetto esterno e chiuso di cui possa più
tardi impadronirsi un linguaggio diverso, non è il supporto di un commento; priva di origine, la
scrittura conosce un solo modo di esistere: la traversata infinita delle altre scritture: quello che
ancora ci appare come “critica”, è solo una maniera di “citare” un testo antico, che è anch’esso
intessuto di citazioni. E’ dunque giusto affermare che nel momento in cui nasce una scienza della
scrittura, che è la scrittura stessa, muoiono ogni Letteratura e ogni Critica.
Fin dalla Liberazione, una certa revisione della nostra letteratura classica è stata intrapresa a
contatto di filosofie nuove, da critici molto differenti tra loro. Non c’è da stupirsi che un paese
riprenda periodicamente gli oggetti del suo passato e li descriva di nuovo per sapere cosa se ne
può fare. Ma ecco che all’improvviso questo movimento viene accusato d’impostura, ecco che le
sue opere si scoprano vuote intellettualmente, sofisticate verbalmente, pericolose moralmente e
debitrici del loro successo al solo snobismo. Quel che colpisce, negli attacchi mossi recentemente
contro la nuova critica, è il loro carattere immediatamente collettivo. “L’esecuzione capitale” della
nuova critica appare come un compito d’igiene pubblica, che bisognava affrontare e il cui successo
suscita sollievo. Provenendo da un gruppo limitato, questi attacchi portano una specie di marchio
ideologico, dove qualcosa di politico compenetra giudizio e linguaggio. Al sospetto verso il nuovo si
accompagna qualche reverenza in onore delle “sollecitazioni del presente” o della necessità di
“ripensare i problemi della critica”, allontanando con un bel movimento oratorio “il vano ritorno al
passato”. Quello che è da notare non è tanto che contrapponga l’antico e il nuovo, ma che lanci
l’interdetto su una certa parola intorno al libro: ciò che non viene tollerato è che il linguaggio possa
parlare del linguaggio. Nello Stato letterario, la critica deve essere “controllata”. Fare una seconda
scrittura con la prima scrittura dell’opera, è infatti aprire la strada a trapassi imprevedibili, al gioco
infinito degli specchi, ed è appunto questa prospettiva sfuggente a destare sospetto. Per essere
sovversiva, la critica non ha bisogno di giudicare, le basta parlare del linguaggio, invece di
servirsene. Ciò che oggi viene rimproverato alla nuova critica, non è tanto di essere “nuova”, ma di
essere pienamente una “critica”, di ridistribuire i ruoli dell’autore e del commentatore, e di attentare
così all’ordine dei linguaggi.
Il verosimile critico
Il verosimile è ciò che, in un’opera o in un discorso, non contraddice nessuna autorità. Il
verosimile corrisponde a quanto il pubblico crede possibile e che può essere del tutto differente
dalla realtà storica o dalla possibilità scientifica. Le opere di massa, ad esempio, non
contraddicono mai quello che il pubblico crede possibile, per quanto impossibile sia, storicamente
o scientificamente. Esiste un verosimile critico. Questo verosimile non si esprime in dichiarazioni di
principio. Consistendo in ciò che appare ovvio, resta al di qua di ogni metodo. E’ dato coglierlo
soprattutto nei suoi stupori e nelle sue indignazioni di fronte alle “stravaganze” della nuova critica.
Al verosimile critico piacciono molto le “evidenze”. Quali sono dunque le regole del verosimile
critico nel 1965?
L’oggettività
Ecco la prima: l’oggettività. L’oggettività in materia di critica letteraria è la qualità dell’opera
che “esiste al di fuori di noi”. Questo esterno non cessa tuttavia d’essere oggetto di definizioni
differenti; un tempo, era la ragione, la natura, il gusto, etc.; ieri, la vita dell’autore, le “leggi del
genere”, la storia. Ed ecco che oggi ce ne danno ancora una definizione differente. Ci dicono che
l’opera letteraria comporta delle “evidenze”, e che queste si possono ricavare prendendo come
punto d’appoggio “le certezze del linguaggio, le implicazioni della coerenza psicologica, gli
imperativi della struttura del genere”. Qui troviamo confusi diversi modelli fantomatici. Il primo è
d’ordine lessicografico: bisogna leggere Corneille, Racine, Molière, tenendo a portata di mano in
Français classique di Cayrou. L’idioma è sempre e soltanto il materiale di un altro linguaggio, il
quale non contraddice il primo ed è pieno di incertezze. Quando alla “struttura del genere”, sono
ormai cent’anni che si discute intorno alla parola “struttura”; abbiamo molti strutturalismi. Queste
evidenze sono soltanto delle scelte. Nessuno ha mai contestato né mai contesterà che il discorso
dell’opera ha un senso letterale, di cui, all’occorrenza, ci informa la filologia; la questione è sapere
se abbiamo o non abbiamo il diritto di leggere in questo discorso letterale altri sensi che non lo
contraddicano; non sarà il vocabolario a rispondere a simile domanda, ma una decisione globale
sulla natura simbolica del linguaggio. Lo stesso possiamo dire delle altre “evidenze”: sono già
interpretazioni, perché presuppongono la scelta di un modello psicologico o strutturale; tutta
l’obiettività del critico dipenderà dunque dal rigore con cui applicherà all’opera il modello prescelto.
Il verosimile critico sceglie di solito il codice della lettera; è una scelta come un’altra. Ci dicono che
occorre “conservare alle parole il loro significato”; in breve, che la parola ha un senso solo: quello
buono. Tale regola implica una banalizzazione generale dell’immagine: ora la vieta semplicemente;
ora la ridicolizza fingendo più o meno ironic