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DIBATTITI SUL CORANO ALL’INTERNO DEL CORANO
Nello stesso testo si possono cogliere i riflessi del dibattito sul Corano: sono polemiche in cui
l’autore si rivolge ai suoi avversari dall’identità indeterminata rispondendo ad alcune
contestazioni. In questi casi il Corano viene presentato come Scrittura o Libro (Kitaab) e il Profeta
fa appello ad altre scritture come Torah, Vangelo e Salmi per giustificare l’affermazione di
aver ricevuto la sua dall’alto.
La dialettica della risposta si basa sull’argomento dell’autorità: è Dio che ha rivelato il suo
messaggio in “lingua araba chiara” contrapposta alle lingue barbare (greco e siriaco) e può
cambiarlo come vuole (può sopprimere o sostituire versetti, cancellando e confermando gli
scritti precedenti secondo la sua volontà) in quanto è egli stesso la fonte della Scrittura.
Chi parla nel testo?
Dal momento che i testi coranici si caratterizzano per l’assenza di una cornice narrativa
(contrariamente alle narrazioni polemiche dei Vangeli, ben contestualizzate), i commentatori hanno
sottolineato l’evidenza che fosse Dio a parlare, o in prima persona (Io o Noi, plurale maiestatis) in
quanto al-mutakallim (colui che parla) o in terza persona in quanto al-gha’ib (l’assente), quando
qualcuno parla per lui, il profeta o un redattore in ogni caso anonimi. In alcuni testi c’è un vero e
proprio incrocio di parlanti dove a volte si inserisce anche la seconda persona (interlocutori anonimi
a cui ci si rivolge con il voi) al-mukhaatab. L’affermazione che la persona che parla è Dio viene
smentita dalla sintassi e a volte dal contenuto del discorso; l’ordine “Dì” non viene rivolto
sempre al Messaggero, quindi potrebbe essere un espediente redazionale.
Le proclamazioni profetiche del Vicino Oriente sono attestabili in forma scritta sin dal II-I
millennio aC, come ad esempio quelle ritrovate negli archivi epistolari di Mari, e il loro stile e
contesto sono precisi: Dio si esprime verso i profeti biblici in prima persona (Io, non plurale
maiestatis) e i corpus profetici biblici sono inseriti in narrazioni precise attribuite a personaggi
che non sono Dio (Isaia, Geremia, Amos, “profeti scriba” come Ezechiele e Geremia). Inoltre le
proclamazioni dei profeti sono accompagnate dall’annuncio “oracolo del Signore” o altri
procedimenti che indicano il momento in cui è Dio o un angelo a parlare, eliminando
l’ambiguità sull’identità di chi parla.
Il Corano, al contrario, nella sua versione finale è concepito in modo da leggerlo come Libro di Dio,
non come Scrittura di Muhammad. Il procedimento stilistico secondo cui il discorso del profeta e
dei redattori si confonde con il discorso di Dio è volto a neutralizzare nel lettore/ascoltatore la
possibilità di distanziarsi dal testo, stabilendo una parola autoritaria, sovrana e inclusiva di Dio
come unico parlante.
Chi sono gli oppositori?
Oltre a definire gli oppositori come faziosi, refrattari, miscredenti, negatori, ingiusti e mentitori
i testi non precisano la loro identità. Li conosciamo solo grazie a ciò che essi dicono nel testo.
I commentatori antichi a partire dalla metà del 700 tentano invece di precisare chi fossero i
protagonisti e quali fossero le situazioni concrete a cui si allude nel testo poco chiaro, al fine di
fornire ai testi la cornice narrativa mancante.
Così nacque un genere di akhbar denominato asbaab al-nuzuul (Circostanze della rivelazione),
figurante negli antichi commentari di testi coranici in quanto trama di numerose narrazioni sulle
spedizioni e la vita del profeta (fonte per la sira di Ibn Ishaq, m. 767), e anche nell’esegesi
narrativa dei commentari classici del Corano di cui Tabari è il massimo rappresentante. Questi
akhbar sono spesso dei racconti-cornice che per una sorta di retroproiezione mirano a
storicizzare i testi coranici collocandoli nel corso della vita del profeta.
Gli oggetti del dibattito
Accusa che il Messaggero sia un poeta o un indovino posseduto da un jinn
La contestazione riguarda la forma di espressione del messaggio profetico, il contenuto e la
qualifica del profeta. La preoccupazione di distinguere il profeta dai poeti e dagli indovini della
sua epoca è infatti un motivo ricorrente nella polemica contro gli avversari.
Il poeta antico svolgeva un importante ruolo sociale e politico nella collettività tribale di cui
esprimeva i valori. Nella sura 26 (I poeti) questi vengono duramente condannati (214-226) in
quanto rivali socio-politici del profeta. Nel versetto 215 quelli che seguono il profeta sono
contrapposti a quelli che seguono i poeti nel versetto 224 (esplicito negli akhbar riguardanti gli
oppositori del profeta).
Gli indovini non erano semplici veggenti come presentati in seguito per ridicolizzarli e descriverli
come impostori, bensì erano veri e propri leader carismatici e a volte capi politici di clan e
gruppi tribali, in possesso dell’arte retorica delle arringhe. Tulayha al-Asadii (m. 642),
l’esempio tipico del poeta/profeta/indovino, poco prima della morte di Muhammad si pone come
profeta avversario nel Najd. Il ruolo di questo genere di personaggi continua per tutto il periodo
omayyade e oltre: il leader dissidente sciita al Mukhtaar (m. 687) annunciava nello stesso stile
ispirato i misteri del futuro, descritto anch’egli come indovino impostore. Dunque nel corso del 600
Muhammad e i suoi successori erano in diretta concorrenza con personaggi carismatici che per
modalità d’espressione e impatto sociale e politico facevano da concorrenti diretti ai discorsi
coranici.
È strano che il profeta sia stato definito poeta (shaa’ir) da arabi che conoscevano una poesia (shi’r)
dai canoni prosodici e stilistici determinati e stereotipati totalmente assenti nel Corano, in cui
si dice che Dio non aveva insegnato al suo profeta le convenzioni della poesia in quanto non
adeguate al suo messaggio (36:39): nel testo la forma letteraria dipende da modelli usati dalle
religioni della Scrittura (salmi e inni). Esiste anche un legame formale tra alcuni messaggi
coranici (brevi pericopi considerate le parti più antiche del corpus) e la prosa cadenzata e ritmata
diffusa tra gli arabi con il nome di saj: sono annunci o brevi dichiarazioni formulate in frasi corte e
cadenzate che giocano sul parallelismo (forma di discorso che un tempo riguardava le
proclamazioni oracolari). La parola saj designava anche lo stato di estasi dell’indovino (kaahin), il
cui demone era chiamato il suo veggente (ra’iyy). Il demone del poeta era chiamato jinn o shaytaan
(il suo Satana).
All’errare dei poeti e ai loro sogni, i testi polemici contrappongono la discesa di un Libro il cui
contenuto si vuole differenziare dal discorso dei poeti e indovini in quanto si richiama a
quanto annotato negli scritti degli Antichi, i quali contengono l’annuncio apocalittico ed
escatologico dell’ora del giudizio e del castigo. La Scrittura contrapposta a poeti e indovini si pone
quindi nella corrente apocalittica antica rappresentata in particolare dagli pseudoepigrafi
ebraici (zubur scritture e suhuf fogli).
La polemica sugli “scritti degli Antichi”
Si precisa intorno al tema dottrinale della resurrezione individuale e del castigo divino nel
giorno del giudizio, in un contesto più tardo e meno circoscritto rispetto a quello sulla rivalità tra il
profeta e i poeti/indovini.
Questi scritti vengono indicati col termine asaatiir che non significa favole ma la radice STR, usata
anche nelle lingue semitiche antiche, indica lo scrivere. Potrebbero essere frammenti narrativi
antichi che il Corano presenta a sostegno del suo messaggio. Conosciamo altre fonti scritte in
ebraico, aramaico, siriaco e greco, tradizioni bibliche o apocrife su Noè, Abramo, Mosè, Giuseppe,
Giobbe o Giona. Il profeta non nega di avere davanti a lui delle scritture anteriori ma afferma
che la sua è stata rivelata da Dio per confermare, precisare e interpretare quelle precedenti.
Le Circostanze della rivelazione collocano questa polemica nel contesto meccano dell’attività di
Muhammad, citando il nome del contestatore Nadr ibn al-Haarith, forse notabile meccano
qurayshita con rapporti commerciali con la Persia e il regno arabo di Hiira, da cui avrebbe
importato alla Mecca idee e testi riguardanti il zandaqa (forse manicheismo). Si racconta che Nadr
fu alla Mecca uno dei persecutori e avversari della predicazione di Muhammad, poi catturato e
giustiziato dopo l’Egira. Generalmente gli akhbar delle Circostanze attribuiscono a Nadr la
polemica rivolta contro Muhammad in cui denuncia che gli scritti degli Antichi erano le
leggende iraniche del ciclo dell’eroe Rustam (letteratura epica iranica) compilato alla fine
dell’epoca sassanide (periodo iniziale dell’islam e della conquista araba), testo che non possediamo
ma che conosciamo attraverso gli autori persiani successivi che lo rielaborarono in arabo per
esprimere il conflitto con lo zoroastrismo.
In un testo coranico che figura in due versioni parallele la menzione degli scritti degli Antichi si
associa al tema dottrinale della resurrezione individuale per giudizio e castigo. Nella sura 23 e
27 l’evocazione apocalittica del giudizio e la divisione degli uomini in beati e dannati richiama la
letteratura pseudoepigrafica e il Nuovo Testamento cristiano, in più il lessico e il contenuto
(essere risvegliati dopo la morte a partire dalla polvere per il giudizio/retribuzione finale)
richiamano l’annuncio apocalittico finale del Libro di Daniele della Bibbia ebraica. Sarebbe più
logico in questo senso ipotizzare una polemica con gli ebrei (non credono nella resurrezione
individuale) piuttosto che contro gli arabi pagani della Mecca.
I due motivi polemici della Sura delle api
La sura 16 (al-Nahl, Le api) è un’unità tematica incentrata sulla recitazione, composizione e
origine del Corano stesso e in esso vi sono elencati due motivi polemici.
1) La contestazione contro la manipolazione dei testi (in realtà semplice attività redazionale)
da parte dei redattori i quali si prendono delle libertà nei confronti della Scrittura. Negli
akhbar trasmessi dalla tradizione il tema del cambiamento o soppressione dei versetti è
relativamente frequente: si usa spesso l’espressione “fatti dimenticare”, iniziativa che
spettava a Dio (2:106), e la si trova in relazione a Uthman (Aisha racconta che quando deve
mettere il testo per iscritto non si ricorda tutti i versetti) e ad Abu Musa.
2) Il maestro straniero viene definito come “uomo che lo istruisce, la cui lingua non è
araba” contrapposta alla lingua araba chiara del Corano. Le Circostanze tentano di definire
l’identità dello straniero, un cristiano o un ebreo (si parla di schiavi o liberti di origine
straniera, ebrei e soprattutto cr