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Mancini ai Creedence Clearwater Revival.
Lebowski è un outcast che guarda alle cose con distacco, un esistenzialista implicito, che sembra fluttuare nel vuoto (il suo sogno è quello di
volare su un tappeto), osserva gli altri affannarsi senza neanche provare a capire le ragioni del loro comportamento. Allo stesso tempo, con ludica
goffaggine, conduce con implacabile tenacia le sua battaglie per vedersi riconosciuto un diritto demenziale ma fondamentale alla conservazione
della dignità (ottenere il risarcimento di un tappeto su cui hanno orinato per spregio, a seguito dello scambio di persona).
Lebowski è semplicemente uno che riesce a vivere in un mondo di crisi, proprio come i protagonisti di Fratello, dove sei?, odissea del nuovo
millennio ambientata durante la grande crisi del 1929. Tre uomini semplici, desiderosi solo di tornare a casa, son però curiosi di vedere se si
avvererà la profezia di un vecchio cieco che ha dato loro un messaggio sui binari della ferrovia: una trama elementare che si dipana lungo un
intreccio straordinario di rimandi. È un nuovo tipo di musical, un road-movie, un dramma sociale ispirato a Sturges [regista], un mito che
ripercorre il passato e dà nuova forma a figure storiche, trasformandole in caricature isteriche.
Già Lebowski offriva una molteplicità di riferimenti eterogenei, ma qui è quasi impossibile dar conto della pluralità dei rimandi: alta letteratura,
classici, folk e pop culture, storica, letteraria, cinematografica, musicale. Omero (sia pure sottoposto a contaminazione pop, es. con Cenerentola),
la Bibbia, Mark Twain, Moby Dick, film tra cui Sullivan’s travel di Stuges, Nick mano fredda, Nascita di una nazione, Crossroads, Paper Moon, Il Mago di
Oz, Prendi i soldi e scappa. Ci sono anche rimandi a storia e miti del Mississippi: al governatore W. Lee Pappy O’Daniel, commentatore
radiofonico solito presentarsi in pubblico con una scopa per spazzare via dal Texas vizio e corruzione; il chitarrista Tommy Johnson che avrebbe
venduto l’anima al diavolo; il rapinatore psicopatico Baby Face Nelson, ecc. Ma è sul versante musicale che il film spiega tutto il suo potenziale
spettacolare e la sua sottigliezza filologica: dal folk-blues degli Appalachi, al pop-rock contemporaneo (la mucca sul tetto durante
l’innondazione rimanda ai Pink Floyd); Man of Constant Sorrow di Dick Burnett è la canzone che dà successo ai Soggy Bottom Boys; ci sono poi
spirituals, cori battiti, una serie di canzoni della tradizione fluviale.
Dentro, la riflessione sul rapporto tra fede e ragione, i riferimenti alla crisi materiale e morale, a un tempo duro, destinato a diventare ancora più
duro per l’avvento della società dello spettacolo (la radio) e dei consumi (la brillantina) di massa.
Dopo aver ambientato il film negli anni ’30 e alla fine dei ’50, con L’uomo che non c’era (2001) indagano un altro periodo cruciale, quello della
guerra fredda. Ed è un fumatore disperato, unico uomo magro in un universo di gente grassa e ciarliera, un barbiere che sogna di diventare
proprietario di lavanderie a secco. Sua moglie non lo ama e sa di essere tradito, fa un lavoro alienante, conosce la propria assenza di qualità e,
quando tenta di diventare il pigmalione di una giovane pianista, deve definitivamente e tragicamente fare i conti con la mediocrità del mondo,
accettando di buon grado la sedia elettrica.
È il più raffinato e disperato film dei Coen, che fa emergere il lato oscuro e represso di una facciata forzatamente armonica e bene educata. È un
saggio sull’angoscia, esistenzialista, con un soggetto che prende atto della sua definitiva distonia con il mondo e della sua solitudine assoluta. Ed
Crane è un uomo riflessivo e intransigente, che non avendo la forza per opporsi alla deriva (corruzione), ovvero di essere moralista, finisce per
sentirsi un fantasma in un contesto di creature volgari e “iper-corporee”.
La critica ha liquidato il film come “manierista”: termine che si riferisce alla corrente artistica che prende la classicità a modello e la deforma,
mostrando i limiti del “positivismo” rinascimentale; l’artista esplora nuovi confini mantenendo il confronto con la classicità. È un attitudine che
contrassegna i momenti di crisi.
Non è un paese per commedianti
Prima ti sposo, poi ti rovino (2003) è forse il tentativo di rientrare nella produzione mainstream. Preoccupati di non rimanere confinati nel quadro
degli art-movies d’autore, qualifica pericolosissima che del resto va assai stretta ai Coen, accettano di dedicarsi ad una storia non originale e di
condividere la scrittura del film con gli stessi Ramsey e Stone (autori). Il risultato è un film ad alto budget, con due star del momento, George
Clooney e Catherine Zeta-Jones. Per certi aspetti, il film rimanda a tempi prettamente coeniani, come il ricatto e il richiamo alle ragioni del
sentimento contrapposte a quelle del profitto e del calcolo.
In Burn After Reading - A prova di spia (2008), i due Coen riescono a sciogliere la spy-story in un film che non ha alcun elemento spionistico. Non c’è bisogno
di dire che la gente spia, mente e ricatta. Il loro timore, la loro paura dell’ignoto, produce un livello crescente di paranoia che fa sì che i personaggi reagiscano
con violenza senza alcuna ragione. Ciascuno sospetta dell’altro semplicemente perché ha imparato che le apparenze ingannano.
La logica è che non esiste più alcun senso al quale ancorarsi per determinare il principio di realtà in un contesto di desideri fuori controllo e di
paranoia diffusa. Gli analisti della Cia sono alcolizzati, gli istruttori di palestra si improvvisano ricattatori, le loro attempate colleghe ignorano
discreti corteggiatori per andare in cerca di avventure su internet e sono disposte a tutto pur di farsi un’operazione plastica al seno, detective che
non hanno mai usato le pistole sanno costruire complicate macchine erotiche. C’è un disco che gira di mano in mano, ma non è importante cosa
contenga, bensì che sia segreto (solo perché proviene dalla Cia) e che molte persone lo desiderino. Le persone fluttuano come elettroni
impazziti intorno ad un nucleo incandescente (la capitale politica, Washington, su cui si concentra l’inquadratura Google-view d’apertura.
Il film intercetta uno stato d’animo diffuso nell’era Bush, a fronte dell’insensatezza di imprese belliche basate su informazioni false e irrilevanti e a
fronte di una crisi incipiente che è anzitutto una crisi esistenziale generalizzata.
Ma non c’è critico che riesca ad individuare in Burn After Reading una proposta originale, capace di aggiungere un tassello alla filmografia dei
Coen, prima delle tre tragedie che segnano l’ultima fase della loro maturità.
Nel 2007 era uscito Non è un paese per vecchi, trasposizione rispettosa del capolavoro di Corman McCarthy, insignito di un quantità di premi
Oscar (miglior film regia, sceneggiatura, attore non protagonista), momento di definitiva consacrazione hollywoodiana.
Il lavoro del fedele direttore della fotografia Roger Deakins si concentra anzitutto sul paesaggio classico (assieme a Il Grinta il film costituisce un
dittico western). L’unico personaggio che parla è il vecchio sceriffo, guidato dal codice penale della legge e da quello morale della civile
convivenza, ma che si rivela inadeguato a fermare le forze che si scatenano attorno a lui.
Il Grinta non è da meno quanto a cupezza del ritratto della condizione in cui si dibattono gli esseri umani. È un ennesimo confronto con la
classicità della tradizione e della storia statunitense. Recuperano un western minore di John Wayne, operazione geniale poiché ripulisce dalla
convenzionalità della prima trasposizione una storia che ha una serie di elementi originali. È infatti un romanzo di formazione, ma al femminile,
che racchiude un durissimo romanzo di formazione raccontato con un’ironia sarcastica. Ancora le gelide acque del calcolo economico sono
mosse dalla più distruttiva delle motivazioni, la vendetta.
Dall’inizio alla fine i protagonisti non fanno che trattare sul prezzo: quello della bara del padre appena ucciso; il risarcimento della vendita dei
cavalli; la stanza da condividere con una signora; le prestazioni dei tutori della legge; il rilascio di ostaggi; la proprietà di un cadavere dal quale si
può pur sempre ricavare qualcosa.
Tuttavia è possibile creare relazioni affettive profonde e solide, come quella che lega i due protagonisti e li conduce ad affrontare rischi e sacrifici
pur di perseguire gli scopi dettati da una legge morale superiore. Un imperativo categorico al quale la protagonista sacrificherà perfino un
braccio e il diritto ad una parvenza di vita normale. Una favola estrema ma nella quale si aprono degli spiragli di riconciliazione che passano
ancora una volta attraverso l’ambivalenze: come se gli autori avessero iniziato a dichiarare la propria ammirazione per coloro che riescono a
conservare una certa purezza entro un mondo corrotto.
Quella purezza che il protagonista di A Serious Man (2009) aveva smarrito, scatenando le ire del divino. È questo il più compiuto lavoro dei
Coen. Ambientato in una piccola comunità ebraica del familiare Minnesota nel 1967, racconta le peripezie di un normalissimo professore che
affronta problemi ben al di sopra della capacità di sopportazione di qualunque essere umano.
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Bl o o d S imp l e - Sang ue f acil e
Giulia Carluccio e Riccardo Fassone
Esercizio di stile o oggetto anomalo? Note sulla ricezione del film
Il film è stato categorizzato sotto l’etichetta di film indipendente, fatto che legittima tutta una serie di interrogativi sul significato di questa
etichetta dal punto di vista estetico. Entusiasmo e perplessità sono infatti stati suscitati da questo presunto esercizio di stile che negozia abilmente
la dimensione independent con quella commercial; tra queste due polarità si è giocata la partita di un film di cui, a ridosso dell’uscita, «not all the
critics were sure what to make». Ci fu infatti chi sottolineò che il film era «really about nothing so much as Coen’s avidity to earn point» e anche che
«and, boy, does Coen have style. Most of this vacant virtyosity in what the American screen can’t get enough of».
Insomma il film pone un problema di definizione di categoria. E anche la questione del virtuosismo, cioè l’e ffetto stylish, gioca alternativamente in
negativo e in positivo.
Effettivamente, il background teorico e storico che tali ipotesi critiche implicano sono complessi: riguardano non solo la produzione
indipendente, ma anche il cinema post-Hollywood e post-New Hollywood.
Stilisticamente rientra a pieno nella dimensione formale del cinema indipendente americano: si vedano i due movimenti di macchina, quello
che corre sul bancone del bar e quello rasoterra nella