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Theories, colpevoli di aver creato equivoci fatali per lo sviluppo degli studi del cinema. Con le

teorie psicoanalitiche si schierò il filosofo Slavoj Zizek, il quale affermava che bisognava partire dal

singolare per poi saltare direttamente all’universale. Quindi partire da un film, indagarlo con gli

strumenti dall’analisi testuale, per poi generalizzarlo in una teoria globale, lasciando da parte tutte

le possibili eccezioni. I cognitivisti post-teorici, invece, si opponevano proprio a questo. Loro si

basavano su dati empirici, sul pluralismo delle teorie, sulla frammentazione della teoria e non sulla

sua generalizzazione. In questo capitolo, ci si soffermerà quindi sulle varie posizioni prese dalla

teoria psicoanalista classica e il cognitivismo post-teorico sul coinvolgimento emotivo.

2. Le teorie di impianto psicoanalitico hanno considerato l’esperienza filmica più da un punto di

vista globale, offrendo una teoria generale del dispositivo cinematografico nella quale poi,

attraverso le varie analisi testuali, riscontrare quelle configurazioni singolari e uniche. Al contrario, i

cognitivisti preferiscono lavorare partendo direttamente dai problemi specifici, isolati

dall’esperienza per poter dare uno studio più approfondito. Questi, quindi, preferiscono non

giungere ad una risposta generale ma restituire il più possibile la complessità dell’esperienza

analizzando i vari problemi e singolarità. Il loro approccio al “soggetto” quindi è diverso dagli

psicoanalisti, questi ultimi lo vedono più come uno spettatore astratto, un’idea; i cognitivisti invece

lo indagano proprio come un essere corporeo, in carne ed ossa. Potremmo dire, dunque, che gli

psicoanalisti si sono occupati delle dinamiche affettive (individuo-spettatore) e i cognitivisti, invece,

di quelle propriamente emozionali (spettatore-soggetto). Le critiche quindi all’interpretazione

psicoanalista erano quelle di impostare soggetti tramite identificazioni con l’elemento filmico, non

valutando quindi le varie implicazioni emotive che si possono sviluppare; dall’altro lato delle critiche

furono mosse ai cognitivisti che hanno rifiutato ogni tipo di identificazione invece di precisarne dei

confini.

3. Bisogna infatti dire che l’identificazione con un personaggio non dipende solo dalla situazione

narrativa, ma anche attraverso cui essa prende forma sullo schermo e sostanzia la narrazione.

Non è sufficiente valutare una situazione in cui un personaggio si trova, bisogna mettere in conto

gli affetti suscitati, da elementi stilistici che ne determinano l’intensità. A questo punto bisogna fare

una distinzione tra emozioni e affetti. Ma prima bisogna parlare di alcuni studi recenti fatti da

Daniel Stern sulle forme vitali. Queste costituiscono un aspetto dell’esperienza umana molte volte

nascosto, ovvero il senso di vitalità che permea la nostra esperienza (nella vita come nel cinema).

La vitalità che è strettamente soggettiva si manifesta secondo cinque fondamentali eventi dinamici:

movimento, tempo, forza, spazio, intenzione/direzionalità. Questi sono alla base delle forme vitali

che percepiamo nei nostri e nei movimenti degli altri e non si riferiscono a pensieri o emozioni

particolari, ma sono parte delle pieghe dell’esperienza e sono legati alla forma, più che al

contenuto. I primi studi sull’emozione cinematografica da parte dei cognitivisti tenevano conto dei

contenuti narrativi senza tenere in considerazione gli aspetti dinamici che, per loro natura sono

difficilmente isolabili, quindi furono ignorati totalmente. Tuttavia però se si prende in considerazione

l’esperienza vissuta non si può separarla dalla sua intensità e dinamicità. Quindi troviamo uno

studioso, Raymond Bellour, uno studioso che dagli anni Novanta ha teorizzato un nuovo modo di

approcciarsi a emozioni e affetti. Egli quindi si occupa di studiare questi due aspetti non più dal

solo contenuto narrativo, ma attraverso gli elementi dello stile e della messa in scena e di

considerare l’esperienza dello spettatore in maniera più ricca, descrivendone il vissuto soggettivo

istante per istante inserendosi nelle pieghe dell’esperienza. Quindi con Bellour la nozione di

identificazione si riferisce ad un insieme di fenomeni che non costituiscono un problema, anzi

permettono di vedere l’esperienza in maniera più globale. Non c’è più il soggetto della psicoanalisi,

ma questo è compreso in una visione più ampia della vita mentale, che articola diversamente il

rapporto mente-corpo.

4. Il primo studioso a mettere insieme vari pensieri, compreso quello di Stern, fu Brian Massumi,

che riteneva fondamentale nella ricezione delle immagini, distinguere l’emozione dall’affetto (sfere

autonome). Questa distinzione riposa su quella tra il contenuto delle immagini e il loro effetto e in

questo processo possiamo riconoscere due sistemi autonomi: quello qualitativo (emozione), che

rappresenta il contenuto soggettivo, che trova la sua collocazione attraverso la sfera socio-

linguistica (l’emozione è la qualità di un’esperienza che attraverso la qualificazione linguistica è

definita poi come personale); quello intensivo (affetto) che segue logiche diverse dall’emozione, è

intrecciato ma allo stesso tempo isolabile, è caratterizzato da una trasversalità nelle reti

semantiche, connette ciò che normalmente viene codificato come separato. Quindi secondo

Massumi l’emozione è riferita al soggetto, mentre l’affetto ha una dimensione fuggevole e sottile e

appartiene alla categoria dell’impersonale. A questo punto possiamo mettere a confronto il punto di

vista post-strutturalista di Massumi che accentua i tratti inammissibili dell’affetto, con la prospettiva

analitica che ispira molti studi sull’emozione filmica. Ci rifaremo ancora a Noel Carroll e ad un suo

intervento del 1999 intitolato “Film, Emotion and Genre”. Carroll parte come premessa col dire che

l’emozione indica quei fenomeni eterogenei, che vanno dall’umore prolungato al riflesso

istantaneo. Detto ci egli cerca di restringere il campo semantico e di indicare con “emozione” una

classe ristretta di stati emotivi, che comprende esclusivamente quelli di componente cognitiva, non

negando che comunque alcuni film possono suscitare delle reazioni affettive proprie, alcuni suoni e

immagini possono muovere il pubblico verso un livello di risposta sub-cognitivo. Nella prospettiva

di Carroll le amozioni sono dirette verso un oggetto, implicano un livello cognitivo come causa e

stati corporei come effetti. In ogni film esse sono pre-focalizzate, ovvero ogni film narrativo tende a

pre-determinare il “focus emotivo” dello spettatore, offrendo situazioni molto strutturate. Quindi lo

spettatore si trova a completare il processo con la sua risposta emotiva, che dipende dalle

intenzioni del film (lo spettatore seve comprendere il testo filmico nel modo in cui il cineasta lo ha

reso saliente attraverso la pre-focalizzazione). In questo modo è possibile uno studio delle

emozioni di impianto cognitivista perché non sono opposte ai processi cognitivi superiori ma li

sostengono. (questo però porta a frammentare l’esperienza emotiva e ridurla a una sorta di

valutazione razionale istantanea.

5. Con Carroll gli studi si sono limitati a seguire il modello emozione-affetto, dando una

spiegazione cognitiva dell’emozione, tralasciando totalmente la parte sub-cognitiva dell’affetto.

Invece, il lavoro di Carl Plantinga, costituisce il tentativo di considerare tutte le componenti di

entrambe le parti. La sua teoria è definita cognitivo-percettiva poiché essa non si focalizza soltanto

sui processi cognitivi dell’emozione, ma anche di quei processi corporei, pre-razionali, automatici e

talvolta non coscienti. Molti dei nostri comportamenti e delle nostre risposte funzionano al di là del

controllo consapevole, quindi il coinvolgimento spettatoriale è pertanto descritto come una struttura

complessa, che include attività cognitive e reazioni affettive. Nel modo di vedere di Plantinga

comunque c’è una distinzione, non rigida, tra emozioni e affetti. I primi sono definiti relazionali, cioè

sulle emozioni intese come modi attraverso cui un agente percepisce e costruisce il mondo intorno

a lui: l’emozione quindi è caratterizzata dall’intenzionalità, è diretta verso un oggetto. A differenza

quindi da Carroll, Platinga dal punto di vista degli affetti egli riconosce la loro centralità nel

medium-cinema, nella misura in cui la nostra prima esperienza di un film è eminentemente

sensoriale e pre-linguistica; con questo Platinga pone l’accento sulla natura “sensuale” del cinema

e sui suoi affetti sensibili: il piacere del cinema risiede nell’esperienza effettiva e fisica consentita

dal medium.

6. Le ipotesi di Platinga, vanno in netto contrasto con quelle di Vivian Sobchack, in cui la vediamo

affermare che il film possiede un corpo, cioè è in possesso di una visione corporea come lo

spettatore. Questo va fortemente contro la teoria cognitivo-percettiva. Nella visione della studiosa,

si parla anche di “soggetto incarnato” riferendosi alla dimensione soggettiva dell’esperienza e

soprattutto si sofferma molto sulla descrizione del soggetto vivente. Lo spettatore è un body

subject poiché è nell’essere corporeo e nell’atto di vedere che egli diventa consapevole di sé come

soggetto. Inoltre il corpo il terzo termine tra la visione soggettiva e l’immagine oggettiva;

nell’esperienza incarnata del cinema, corpo e immagine finiscono per toccarsi e funzionare come

“superfici in contatto”. Il corpo vissuto è condizione e fondamento per un nuovo soggetto che

Sobchack definisce “cinestetico”, in con cui si connette il “cinema” a due elementi costitutivi del

sistema sensorio umano, la sinestesia e la cenestesi. Sono due forme di “sentimento generale”,

globale e non scomponibile: la prima ha a che fare con l’attivazione simultanea di modalità

sensoriali diverse, la seconda indica il sentimento interno, l’immagine totale della nostra vita

sensibile. Il soggetto cinestetico dà senso al significato del vedere del film attraverso una visione

incarnata e in-formata della consapevolezza degli altri sensi.

- La vergogna, il disgusto e oltre. Un’interpretazione di The Elephant Man

1. Nel 1980 Michael Howell e Peter Ford pubblicarono “The true story of the Elephant Man”, il

racconto “definitivo” della vita di Joseph Carey Merrick che rendeva noti molti dettagli biografici

dell’uomo Elefante fino ad allora sconosciuti o trascurati. Una delle scoperte più sorprendenti è che

Merrick nel 1984 decise s

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A.A. 2017-2018
9 pagine
13 download
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher cecconimarta96 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Estetica del cinema e dei media e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi Roma Tre o del prof Carocci Enrico.