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Il piacere di guardare/La fascinazione del corpo
A) Il cinema offre diversi possibili piaceri. Uno dei quali è la scopofilia: circostanze in cui
il guardare provoca piacere, come essere guardati. Soggetti, non strettamente collegati al piacere
genitale, scelti come oggetti di sguardo di controllo e curiosità. Questa avviene nell’età infantile
dove i bambini sono attratti dal curioso e dal proibito, fino poi all’età adulta dove il piacere di
guardare si sposta sugli altri. Molte volte potrebbe diventare una perversione (guardoni e voyeurs)
la cui unica soddisfazione sessuale deriva dall’osservare, nel senso di controllare attivamente, un
altro reso oggetto. Inoltre il netto contrasto fra oscurità in sala e luci e ombre sullo schermo portano
lo spettatore l’idea di star entrando in un mondo privato. B) Il cinema soddisfa un
desiderio primordiale di piacere nel guardare, ma si spinge oltre, sviluppando la scopofilia nel suo
aspetto narcisistico. La curiosità e il desiderio di guardare si confondono con la fascinazione della
somiglianza e del riconoscimento: l’immagine umana, l’individuo nel mondo… Lacan ha osservato
questo momento nei primi mesi del bambino che si ritrova riflesso nello specchio; qui nota come
l’infante riconoscendosi nel suo riflesso incomincia davvero a rendersi conto del suo corpo e del
suo essere: costruzione dell’io. Nel cinema, dato che lo spettatore ha già superato questa fase, ha
un riconoscimento falso di sé, ha un riconoscimento con un’immagine ideale: il cinema nel tempo
ha prodotto moltissimi ideali dell’io.
La donna come immagine. L’uomo come agente dello sguardo
A) Il piacere di guardare è stato suddiviso in maschile/attivo e femminile/passivo. Lo sguardo
maschile attivo proietta la sua fantasia sulla figura femminile che viene costruita di conseguenza;
le donne vengono guardare e contemporaneamente messe in mostra e il loro aspetto è codificato
in maniera da esercitare un forte impatto visivo e erotico. La donna messa in mostra ha funzionato
a un duplice livello: come oggetto erotico per i personaggi all’interno della storia e come oggetto
erotico per lo spettatore in sala, producendo un continuo spostamento della tensione fra gli sguardi
dentro e fuori lo schermo. B) L’uomo controlla la fantasia filmica ed
emerge come rappresentante del potere anche in senso ulteriore: rappresenta lo sguardo dello
spettatore, trasferisce il suo al di là dello schermo al fine di neutralizzare le tendenze
extradiegetiche della donna come spettacolo. Identificandosi con il protagonista maschile, lo
spettatore proietta il proprio sguardo su quello del suo simile, per cui il potere del protagonista di
controllare gli eventi coincide con il potere attivo dello sguardo erotico, ed entrambi procurano un
senso appagante di onnipotenza. La figura maschile è libera nel paesaggio; la ripresa e i
movimenti di macchina, uniti al montaggio invisibile, contribuiscono a rendere indefiniti i limiti dello
spazio dello schermo: il protagonista può dominare liberamente la scena, creando l’azione. Il
cinema dovrebbe suddividersi in tre livelli di sguardo: quello della cinepresa, degli spettatori e
quello dei personaggi all’interno della storia, ma si tendeva a eliminare i primi due, rendendo la
cinepresa invisibile e distaccare consapevolmente il pubblico (in modo tale da arrivare a una
verosimiglianza). Quindi dato che nel cinema tradizionale lo sguardo era solo maschile poiché
l’immagine della donna rappresentava una minaccia di castrazione, una sorta di feticcio invadente
e perché appunto prevaleva la presenza patriarcale.
Semiologia e linguaggio cinematografico: Christian Metz
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Christian Metz fu il fondatore della semiologia del cinema e nell’articolo che diede inizio al dibattito
“Le cinéma: langue ou langage?” del 1964, si chiede se il cinema possa considerarsi una vera e
propria lingua, cioè un insieme di simboli e formule ricorrenti passibile di un’applicazione diretta
delle metodologie linguistiche, oppure se debba ritenersi un linguaggio che necessita di uno studio
specifico e a sé stante. Metz allora afferma che il cinema è un “linguaggio senza lingua”. L’autore
si occupa di indagare di indagare la nozione di codice nella complessità delle sue articolazioni
cinematografiche. Metz individua alcuni codici comuni a tutti i film: in ogni singolo film è possibile
ravvisare un fulcro di codici specifici del linguaggio cinematografico ma anche una pluralità di
codici extracinematografici che interagiscono con i primi. L’intento alla base dei suoi studi non è
quello di cogliere i riflessi dell’inconscio dell’autore nella sua produzione filmica, ma quanto quello
di comprendere in che modo il dispositivo cinematografico agisce sulla psiche dello spettatore. La
vita psichica e il funzionamento della macchina-cinema abbiano un nesso molto stretto: infatti
ritroviamo alcuni elementi psichici fondamentali della propria esistenza, come l’identificazione
(Lacan e lo specchio); il voyeurismo; il feticismo… Il cinema anche se non si esprime a
parola, qualcosa “ce la dice”, ci racconta una storia attraverso varie immagini e non bisogna
pensare che il cinema è un linguaggio in seguito a qualche effetto particolare del montaggio
(successione di immagini crea significato), ma è il modo in cui racconta storie così belle che è
diventato linguaggio. Quando si vede un film, dopo un certo periodo, si tende a ricordare la trama e
l’intrigo, non tutte le immagini: è la storia che rimane impressa. Si passa da una cine-lingua a un
linguaggio vero e proprio cinematografico: in alcuni autori come Antonioni, Godard, Visconti e
Truffaut, si vede chiaramente questa voglia di passaggio da lingua a desiderio di linguaggio.
Cinema e linguistica
Vi sono vari modi per affrontare il cinema, ma diciamo che due sono stati quelli più
utilizzati: il primo fu quello di Ejzenstejn, Balazs e Bazin che si dedicarono allo studio del cinema e
del film attraverso teorie proprie all’interno del mondo cinematografico, quindi tra amatori, cineasti,
critici etc…; la seconda invece tratta della filmologia, ovvero lo studio scientifico portato avanti
dall’esterno da parte di psicologi, psichiatri, sociologi, estetologi… Il loro statuto e i loro
procedimenti, li collocano fuori dell’istituzione: è il fatto cinematografico più che il cinema, il fatto
filmico più che il film ad essere preso in considerazione. La filmologia e la teoria del cinema in un
certo senso si completano a vicenda. Molto in disparte da questi due metodi di studio, c’è la
linguistica, con la sua semiologia, che studia i codici e i messaggi del cinema.
Lo schermo e il corpo: Lev Manovich
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Qui tratteremo il libro dello studioso dei muovi media d’origine russa Lev Manovich intitolato “Il
linguaggio dei nuovi media” del 2002 e in particolare del capitolo dedicato all’analisi dell’interfaccia,
ossia dell’insieme dei dispositivi e dei codici che rendono possibile la nostra interazione coi media
in generale e con i computer in particolare. Al centro dell’attenzione è l’interfaccia uomo-computer,
ovvero lo schermo e il modo in cui i media trasformano la nostra esperienza sensibile. La presenza
degli schermi nella cultura contemporanea è sempre più pervasiva, tanto che si arriva a parlare di
society of the screen. La genealogia dello schermo ricostruita da Manovich si articola
sinteticamente in quattro fasi: lo schermo “classico”, lo schermo “dinamico”, lo schermo “in tempo
reale”, lo schermo “interattivo”. Quello classico è quello del quadro pittorico: un dispositivo che
presenta un’immagine statica all’interno di una cornice che separa nettamente lo spazio della
rappresentazione e della finzione dallo spazio “ordinario” che lo circonda. Lo schermo dinamico è
invece quello che nasce con il cinema: è uno schermo che pur essendo sempre nettamente
delimitato rispetto allo spazio che lo circonda presenta al suo interno un’immagine in movimento.
Lo schermo in tempo reale è invece quello schermo che mantiene le proprietà degli schermi
precedenti ma è in grado di ospitare un’immagine che cambia in tempo reale e non più
un’immagine in movimento ma registrata in precedenza (collegata con la le pratiche della
sorveglianza, tipo il radar utilizzato in guerra). L’ultima fase è costituita dallo schermo del computer
con il quale si è aggiunta l’interattività: lo schermo concretizza il modello interattivo, una
sottospecie del modello che opera in tempo reale, che deriva anche dal modello dinamico e
classico. Con i nuovi media lo schermo tende a moltiplicarsi (finestre interattive) oppure a
scomparire (realtà virtuale). Il caso della realtà virtuale solleva la seconda delle grandi questioni su
cui si interroga Manovich e cioè la relazione tra lo schermo e il corpo. La realtà virtuale imprigiona
il corpo in una misura che non ha precedenti in quanto lo trasforma in un “gigantesco mouse”,
ossia un’interfaccia che non è più separata dal corpo ma si è identificata con esso.
Lo schermo e l’utente
La realtà virtuale ci permette di viaggiare entro spazi tridimensionali che non
esistono, ma questa, l’interattività e la telepresenza esistono già da molto prima del computer
digitale; esse risalgono ai tempi dello schermo, un monitor rettangolare che permetteva alle
persone di illudersi di poter navigare spazi virtuali, di essere fisicamente presente in qualche altro
posto. Inizialmente era usato per presentare delle informazioni di carattere visivo, come pittura o
cinema, ma con il tempo è sempre più abbinato al computer e all’infinità di informazioni che ci
permette di accedere.
Genealogia dello schermo
Per schermo si intende una cornice che delinea un altro spazio, differente dal nostro spazio fisico,
quello dove si muove il nostro corpo, ma entrambi gli spazi coesistono. Questo è lo schermo in
senso generale, “lo schermo classico” (pittura ottimo esempio di rappresentazione “fuori
dall’ordinario” tramite uno schermo). Circa un secolo fa ottenne popolarità anche lo schermo detto
“dinamico”: mantiene le proprietà di quello classico ma permette di incorniciare anche immagini in
movimento. Nasce così lo schermo del cinema, della televisione e del video: si crea una certa
relazione tra immagine e spettatore (maggiore di quello precedente con lo schermo classico).
L’immagine ci chiede di credere in quello che mostra, anche se si ritrova a tagliare tutto ciò che è
fuori l’immagine presente sullo schermo,