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3. DALLA PARTE DI GERUSALEMME: TRA ESTOV E TAUBES (E PIRANDELLO)
Così Atene si separa da Gerusalemme, in virtù di un movimento che la contemporaneità
ha comunemente accettato considerandolo inevitabile e indiscutibile. Lo Schlegel di Ideen
aveva profetizzato che <<l’unica opposizione importante contro la religione degli uomini e
degli artisti è da attendersi dai pochi veri cristiani che esistono ancora>>. Se fra i
<<cristiani>> di Schlegel possono annoverarsi, su una sponda ebraica o cristiana che sia,
dei diritti di Gerusalemme, allora uomini come Lev Sestov o Jakob Taubes sono alfieri di
una messa in discussione della via greca, l’uno per la metafisica dell’interiorizzazione,
l’altro per la dimensione escatologica del Romantik. Lev Sestov, filosofo eterodosso ed
autodidatta consegna ad un libro dal titolo emblematico, Atene e Gerusalemme, la summa
del suo controverso pensiero. Sestov attacca l’intera storia della filosofia occidentale, da
Socrate a Nietzsche, contestandone l’ingiustificata negazione della comune esperienza
umana. Mentre gli uomini e le donne immersi nel quotidiano flusso della vita sperimentano
il dolore e la morte a cui reagiscono con una sincera protesta. I filosofi dell’Occidente
ritengono da sempre questo vissuto nient’altro che un’inutile apparenza, perché solo nella
sottomissione alla Necessità ineluttabile si può pervenire alla virtù e alla salvezza. Dal lato
dei nescientes si collocano gli indicatori dell’emozione, del pianto e del riso, della lotta
contro la tirannia del tempo ; dal lato dei dotti si erge l’arroganza del sapere, la rinunzia ad
incidere sugli adiaphora, su tutto ciò che non è in nostro potere, per obbedire (è il parere di
Seneca) alla Necessità con spirito lieto e pronto. Solo questo rifugio nell’Io, questa
esaltazione del sapere sull’agire può prospettare all’uomo una via d’uscita. La parte dei
filosofi sarebbe per Sestov quella di Atene, mentre il posto degli uomini comuni è lo stesso
in cui verrebbe a posizionarsi Gerusalemme. Si tratta di una riproposizione della dialettica
pascaliana fra il popolo soggetto al divertissement e la superbia dei filosofi, i
<<mezzosapienti>> (i demisavants). Anche secondo il Pascal c’è una contrapposizione
netta fra il popolo dedito alla distrazione e i filosofi arrocati nella pretesa di svelare agli
uomini la vera natura del divertissement in quanto fuga dalla morte. Ma come ha capito
Pirandello, lacerato lungo il suo più maturo percorso creativo fra la ‘prima’ e la ‘seconda’
creazione, fra Gerusalemme e Atene, la via stoica altro non è che una versione filosofica
della via estetica, dove l’interiorità non solo ‘obbedisce’ ma ‘crea’. Tutto si gioca, per lui,
come per Sestov (e per Pascal),sulla possibilità che << l’individuo alla più alta potenza>>,
il dio dell’Atene di Friedrich Schlegel, possa davvero rimpiazzare l’assentarsi dal mondo di
Jahve Sabaoth, il Dio biblico che in Gerusalemme aveva stabilito la propria dimora. Che
cosa significa in profondità questo mancare di Dio? Ameno due cose. La prima. Secondo il
modello ebraico-cristiano, l’esperienza di Dio non ha bisogno di momenti separati, può
realizzarsi intensamente grazie ad un’immersione consapevole e misteriosa nell’esistenza
degli uomini, nella vita concreta, nella banalità del loro esserci, dei loro gesti quotidiani.
C’è una quotidianità della fede e dell’esperienza ‘teologica’ originaria che non può essere
assorbita dall’esperienza estetica , perché essa non può interpretare la bruttezza, la
povertà, la devastazione della forma, come luoghi. C’è una bruttezza irredimibile, un non
senso tragico, un dolore immotivato e privo di ogni appiglio di forma, che è l’opposto
dell’aisthesis. Non che l’uomo agisca per portare alla superficie della forma l’informe, ma
che l’informe in quanto tale sia abitato da Dio , e resti tale anche quando l’a-morphos
venisse a coincidere con il mondo. Il primo Creatore l’Auctor delle origini, ne manterrebbe
infatti pur sempre la memoria, impegnando così a priori il credente in una dedizione
corporea, in un agire fiducioso, in una speranza disperata. C’è uno spazio in cui l’uomo
resta muto, non ha parole né immagini, ma ha solo la fede. La seconda. L’evento della
creazione estetica è una vittoria sulla morte declinata al di là dell’esistenza personale. Il
trionfo della nea ktisiss su Thanatos mette tra parentesi la morte come evento personale,
intimo, corporeo. La sua salvezza è nell’ordine dello spirituale: generare, nell’interiorità più
profonda, creature vive, autonome, imperiture. Nell’esperienza dell’opera l’esistenza è
affidata ad una parola che non è la parola di un Vivente, ma di un uomo assoggettato alla
morte come chiunque altro, un uomo del quale si deve accettare la mortalità. Lui, in
quanto emittente di quella parola, non mi potrà soccorrere, a lui non potrò consegnare la
mia vita: devo sapere che quel che mi resta è solo la sua opera, la sua parola scritta.
L’esperienza estetica come spazio del sacro ha già da sempre fatto i conti con la morte.
Questi i temi di fondo sollevati da Atene e Gerusalemme dove il progetto romantico si
compie. È in questo contesto che Jacob Taubes interviene a prendere le parti della ‘via
ebraica’. Abendlandische Eschatologie, la tesi di dottorato ( nonché l’unico libro
pubblicato) svolge il tema del rapporto fra apocalittica e occidente, in una rilettura
complessiva della nostra cultura. A partire da Taubes è l’apocalittica di Israele il vero
fondamento di tutta la cultura occidentale. La distanza delle genti di Abramo dall’Oriente
circostante si misurò infatti, all’inizio della storia di Israele, proprio nel superamento della
staticità e della spazialità orientali, in favore di un primato inappellabile del tempo. Israele
divenne il popolo del tempo, e dunque dell’attesa apocalittica. La contrapposizione
drammatica fra tempo ed eternità –in cui il tempo nasce quando l’eternità dell’origine è
perduta appare a Taubes come il terreno di coltura della memoria e della storia. Se
l’eternità è l’assente, il tempo è l’indigente lacerato nelle sue parti inconciliabili, proteso
verso un anelato, definitivo riposo: la storia è questo anelito. L’immobilismo dell’eterno
ritorno, tipico delle culture antiche, si colloca perciò agli antipodi della drammatica mobilità
apocalittica (<<Apocalittica e antichità si fondano su assiomi reciprocamente contraddittori.
Ciò che in una delle due sfere vitali è realtà, nell’altra è vana apparenza>>). Senza
l’apocalittica non si spiega il cristianesimo, non si rende ragione della predicazione del
regno di Dio. Quel che cambia, lungo la storia dell’Occidente, è il vettore del movimento.
Nei primi secoli cristiani esso è rivolto verso l’esterno. Non si tratta più dell’avvento del
regno nel mondo, ma essenzialmente della salvezza finale dell’anima dell’uomo. Sarà
questo processo a realizzarsi pienamente nell’idealismo romantico, chiamato a rispondere
alla temibile crisi tipica del moderno. Così, da un lato, la metafisica romantica porrà il
nesso di presupposizione reciproca fra libertà nel tempo e libertà nell’eternità (ovvero tra
finito e infinito) come l’assoluto, fondendo <<Dio e mondo da un punto di vista estetico-
religioso>>, dall’altro dal Romanticismo si genererà un’apocalittica trascendentale che
poggerà sulla soggettività in quanto auto-conoscenza, auto-apocalisse. Sarà contro la
redenzione romantica, afflitta per lui da un insostenibile estetismo, che poche settimane
prima di morire Jacob Taubes si scaglierà. Mettendo a confronto il Frammento di teologia
politica di Benjamin con il finale dei Minima moralia di Adorno, il filosofo si slancerà contro
l’escatologia estetica della riflessione, della ricerca infinita, della moltiplicazione degli
specchi, rifiutando la conciliazione della Vorstellung, della rappresentazione senza il
Messia, senza l’aiuto e il sostegno offerti da un altro luogo. Nel conflitto istituito fra Adorno
e Benjamin, fra il messianico istantaneo e l’als ob della redenzione di Adorno, si ripropone
il conflitto fra Atene e Gerusalemme.
4. PER UNA NUOVA ERMENEUTICA DELL’APPLICAZIONE
Se c’è un punto fondamentale di convergenza fra la ricerca di Sestov e l’indagine serrata
di Taubes, esso è da ricercare certamente nell’epistemologia che sorregge i due pensatori,
nella loro logica interna. È la Bibbia infatti, la Scrittura ebraica e/o cristiana, il loro
ancoraggio, la torre di guardia da cui scrutano e interpretano il mondo. Se si osservano i
fenomeni a partire dalla Bibbia, se è la Scrittura il testo fondativo a cui si fa costante
riferimento , la visione dei problemi, il modo di leggerli e di affrontarli cambiano
considerevolmente. Di Sestov di Atene e Gerusalemme è presente: parlare il linguaggio
della Bibbia significa al contempo pensare diversamente. Eppure, proprio la sottolineatura
di Sestov rimane interna agli schemi di quella rimozione a cui egli vorrebbe porre fine. La
Bibbia è progressivamente scomparsa dall’orizzonte culturale dell’Europa moderna perché
una sottocultura clericale diffusa ne ha nel tempo inaridito le fonti, impedendole di circolare
e di essere letta nella molteplicità delle sue forme e delle sue parole, dei suoi libri, viventi
contraddizioni. Proprio l’aver ridotto la Scrittura ad un’autorità logica ha contribuito non
poco ad una sua dolorosa sparizione. La rivoluzione romantica si è innestata su queste
basi e ha progettato una sostituzione del Libro, e dunque una sua estraneazione dal
circuito vivo della cultura. Il risvolto concreto di questa trasformazione epocale della
cultura è stato un oblio infinito della Scrittura e della tradizione ebraico-cristiana, che priva
non ha più inciso in alcun modo sul medium della cultura alta. La domanda è allora relativa
all’eventuale contributo che un ritorno alle fonti bibliche e della traditio possa offrire
nell’attuale contesto culturale. A fronte del modello critico disegnato dal Romanticismo,
quale apporto può venire da una riconsiderazione dell’approssimarsi ai testi sub specie
Hierosolymorum? La rispo