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L’OPERA RIFORMATRICE
CAPITOLO 11
TRAIETTORIE OTTOCENTESCE
Darò anzitutto un’occhiata all’Inghilterra nel periodo che va più o meno dal 1840 al 1940
poi sulla Francia a cavallo tra i due secoli. Dopo di che, l’avvento in Occidente dell’”epoca
della secolarizzazione”.
All’inizio del XIX secolo l’Inghilterra conobbe una generale rinascita della fede e
1. della pratica religiosa per merito degli evangelici, ma in parte anche delle guerre
rivoluzionarie e napoleoniche. Negli anni trenta, però, nei circoli intellettuali e tra le
èlite sociali le credenze ortodosse finirono di nuovo sotto pressione. A tal punto che
verso la metà del secolo, John Stuart Mill poteva tranquillamente affermare che “le
vecchie idee religiose, morali e politiche sono tanto screditate presso le persone più
intelligenti da aver perduto per sempre gran parte della loro efficacia”. La spinta
verso l’impersonalità imponeva o rifletteva un rifiuto del cristianesimo ortodosso, ma
di fronte a quella che appariva come la perdita di numerosi beni cruciali, sembrava
indispensabile salvare alcuni valori del cristianesimo storico. L’influenza e l’impatto
di Thomas Carlyle sarebbero di per sé un buon motivo per esaminare in questi
termini il progresso dell’incredulità. Alla fine della sua carriera egli attaccò alcuni dei
valori più basilari del liberalismo moderno. La soluzione di Carlyle alle pressioni
incrociate cui stava reagendo fornì a molti dei suoi lettori ( che appartenevano
all’èlite della società) il ponte necessario per distanziarsi dalla loro fede. La
conseguenza diretta dell’impatto dell’evoluzionismo darwiniano e della sua presunta
confutazione delle verità bibliche. Avevano alle spalle un’educazione religiosa. Creò
un conflitto straziante, il cui esito in molti casi fu l’abbandono della fede, pur se
accompagnato spesso da un pungente senso della perdita. Darwin pur avendo dato
impulso a una visione materialista e riduttiva del cosmo da cui era stata amputata
tutta la teologia, la sua teoria si addentrava in un ambito in cui molti avevano già
avvertito la forza del primato dell’ordine impersonale. Carlyle, influenzato da Goethe
e in parte, da Schiller e dai romantici tedeschi, reagì contro tutti quegli aspetti del
cristianesimo incompatibili con l’ordine impersonale: l’importanza cruciale attribuita
a una relazione personale con Dio, in particolare alla provvidenza, il giudizio divino
come decisione personale di Dio e i miracoli. Egli condivideva l’idea basata su una
concezione stadiale della storia, inaccettabili per la mentalità della sua epoca,
anche se alcuni individui, incapaci di stare al passo col proprio tempo, vi aderivano.
Le nuove dottrine non erano ben definite, apparentemente implicavano l’esistenza
di una forza spirituale non puramente umana anche se capace di aiutare l’umanità
a procedere verso forme di vita più elevate che, presupponevano una forma di
provvidenza, di storia. Questa fede era molto importante per Carlyle come antidoto
a un’epoca che, se lasciata a se stessa, avrebbe teso verso una degenerazione
della vita umana: verso la miseria e l’egoismo della società commerciale-industriale,
verso la mancanza di uno scopo comune favoriti da una società tenuta insieme solo
dal “vincolo monetario”. In quest’epoca, l’universo e la società appaiono come
qualcosa di puramente meccanico, privo di significato. Tutto, anche le questioni più
sublimi, è ridotte al calcolo: universo creato da Dio a una macchina a vapore bruta
e inanimata. Si scorge ma nonostante tutto questo pensiero l’esigenza di
preservare un senso del potenziale umano per l’ascesi spirituale/morale di fronte
alla degenerazione pratica e teorica della società utilitarista-commerciale-
industriale. Bisognava perciò sia combattere sia spalleggiare il cristianesimo. La
dottrina di Carlyle erano soluzioni a tali pressioni incrociate. Matthew Arnold, a suo
modo, proseguì sulla via tracciata da Carlyle. Pur avendo perso di credibilità, la
vecchia fede gli appariva ancora in larga misura essenziale. Arnold perse la fede
della sua infanzia poco dopo i vent’anni. A un livello personale si stava distaccando
dal padre, fervente anglicano, a un livello più generale avvertiva che il declino di
quella fede che non era più in grado di accettare aveva portato dietro di sé delle
terribili conseguenze. Arnold percepiva la mancanza di profondità del mondo
moderno e la frammentazione del sé moderno. Siccome viviamo sulla superficie
siamo tagliati fuori dalle grandi correnti di senso che potrebbero trasformare le
nostre vite. Questa sensazione di essere tagliati fuori poteva anche essere
interpretata come una divisione interiore: “ La miseria dell’epoca attuale non
consiste tanto nell’intensità delle sofferenze umane, quanto nell’incapacità delle
persone di soffrire, gioire, anche solo di sentire, completamente e profondamente…
La malattia del mondo e la separazione da se stessi”. La conclusione di Arnold era
che “ l’uomo manca di un’identità profonda; soffre di disorientamento e noia, di
sentimenti incostanti e insoddisfacenti, di una superficialità esistenziale,
d’insoddisfazione per i propri sforzi tutte infermità causate dalla mancanza di una
guida salda della vita spirituale”. Arnold condivideva l’immagine degli uomini
moderni come esseri divisi, tagliati fuori da una forte corrente di vita esterna. Come
nel caso di Carlyle, anche per lui Goethe e i pensatori romantici avevano
rappresentato un’importante fonte d’ispirazione. Egli scorgeva un potere curativo
nella bellezza; in particolare nella letteratura e in quella che egli definì “cultura”. Il
suo senso di vuoto trovava un riflesso nell’epoca. A una società frammentata
corrispondeva un sé frammentato. Arnold riprendeva così a suo modo l’idea su cui
poggiavano le riflessioni di Schiller nell’educazione estetica. Questa
frammentazione e perdita di profondità sono il prezzo che paghiamo per la fine
dell’era cristiana. Arnold è assolutamente certo che la sua diagnosi rifletta un
mutamento epocale sostanzialmente incontestabile. In una delle sue ultime poesie,
Obermann Once More, viene sviluppata una sorta di abbozzo della nostra storia
spirituale. Dopo la fioritura dell’epoca pagana, con le sue grandi conquiste e la sua
bellezza, un senso di “tacito disgusto calò/Una profonda stanchezza e la
sazietà/resero la vita umana un inferno”. Ma a quel punto fece la sua comparsa il
cristianesimo che recò un grande dono al mondo. La profonda ambivalenza di
Arnold, il suo senso dell’impossibilità della fede, emerge con particolare forza nella
sua poesia Stanzas from the Grande Chartreuse, dove il protagonista, malgrado il
suo intenso sentimento di simpatia, sente di non poter tornare al mondo in cui la
vita monastica e la dedizione alla preghiera svolgevano un ruolo così importante.
Arnold dà voce qui a un sentimento sicuramente molto diffuso nell’Europa del
tempo, esistevano allora differenti modi di reagire a questo senso di un abbandono.
Si poteva ad esempio esplorare tale condizione di separazione, magari persino
crogiolarsi in essa, come fanno sia il Werther goethiano. Un’altra risposta era
rappresentata dall’azione spavalda, persino distruttiva e immorale; che troviamo in
Byron. Arnold riconosce entrambe le vie e le menziona nella sua poesia. Entrambe,
però, vengono rigettate. Esiste, anche una terza via: la ricerca di una nuova età
della fede, una nuova forma positiva di religione. In questa si collocano Carlyle,
Arnold, Emerson. La speranza di Arnold era che la nuova epoca, “incapace di
nascere”, potesse essere agevolata dalla letteratura e dall’istruzione. È nella
“Cultura” che Arnold ripose le proprie speranze di produrre tale cambiamento. Per
“cultura” bisogna intendere la “ricerca della nostra perfezione totale mediante
l’apprendimento, su tutti gli argomenti che più ci premono”. La nostra perfezione
implica la crescita della nostra umanità, in contrapposizione alla nostra animalità, e
consiste nell’”efficacia sempre crescente e nella totale armoniosa espansione di
quei doni di pensiero e di sentimento che formano la particolare dignità, ricchezza e
felicità della natura umana”. Questa perfezione va realizzata non solo nell’individuo
isolato; l’obiettivo è piuttosto quello di “una perfezione armoniosa, che sviluppi tutti i
lati della nostra umanità”, che sarebbe anche “una perfezione generale che
sviluppa tutte le parti della nostra società”. Intesa in questo senso, “la cultura cerca
di mirare alla perfezione, di vedere le cose come sono realmente, ci mostra che
cosa nobile e divina sia il lato religioso nell’uomo, sebbene esso non costituisca
tutto l’uomo”. Vale la pena esaminare ora un altro documento, un romanzo che
ebbe un immenso successo sia in Gran Bretagna sia in America a cavallo tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Il romanzo è Robert Elsmere è l’autrice è
Humphry Ward, nipote di Matthew Arnold. Il protagonista, Elsmere, è un pastore
anglicano che perde la fede nel cristianesimo ortodosso ma, anziché cadere preda
dell’indifferenza o diventare nemico acerrimo del cristianesimo; cerca di ridefinire la
fede, e di farne nuovamente il mezzo con cui gli umani possono accedere a una
vita morale superiore. Vi è la presenza di un “Cristo puramente umano”, Cristo, “ il
maestro, il martire, il simbolo per noi occidentali di tutte le cose celesti e durevoli”.
Non può però accettare “il Dio-uomo, la Parola che ci proviene dall’eternità –un
Cristo autore di prodigi, in un Gesù risolto e asceso al cielo, nell’intercessore e
mediatore vivente per le vite dei suoi fratelli dannati”. Elsmere crede in Dio, ma il
suo Dio assomiglia a una forza impersonale; è “una bontà eterna –e una mente
eterna –di cui la natura e l’uomo sono la continua e unica rivelazione”. In questo
caso l’autrice sembra aver attinto più dal filosofo T.H. Green che non da suo zio.
Nelle parole pronunciate da Robert sul suo letto di morte. Qui Elsmere riprende un
classico tema arnoldiano: abbiamo bisogno di una nuova religione, perché abbiamo
bisogno di “un nuovo vincolo sociale”. Ne abbiamo bisogno per “quella riduzion