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Due idee di poesia: umanistico-espressiva secondo cui la poesia è
espressione di una interiorità individuale, quanto riesca a comunicare e a
emozionare; semiotico-ideologica che considera il testo come una
costruzione linguistica e quanto incida sul linguaggio e sull’immaginario
collettivo. Per tenere insieme entrambe occorre fare uso della dialettica.
Si propone una “retorica integrale” derivante dall’unione di procedimenti
indicati dai vecchi trattati e una sorta di inconscio del testo. Recupera nel
discorso un’intenzionalità di fondo ma la questione della sincerità è
sempre problematica: ciò che conta però è l’effetto del messaggio sul
destinatario per cui la sincerità è irrilevante. La strategia del testo si
incontra con la contro-strategia del lettore, e da questo ne deriveranno
accettazione, rifiuto o critiche. La critica è rivolta a comprendere quale
interesse contenga il testo, e la politica diventa come un colpo di pistola
in un concerto (ripresa da Stendhal): una modalità di interruzione, un
elemento straniante, una dissonanza che indica che la politica è là fuori e
che quindi l’appassionarsi alla lettura non può sostituire la chiamata
all’impegno; indica poi una funzione di demistificazione della pretesa
letteraria di immergerci in un mondo ovattato.
Benjamin: la critica riguarda il problema della lingua in generale. “non vi
è evento o cosa nella natura animata o inanimata che non partecipi in
qualche modo alla lingua, poiché è essenziale a ogni cosa comunicare il
proprio contenuto spirituale”. E’ l’uomo che fornisce un nome a ciò che
non ha voce e l’oggettività di questa traduzione è garantita da Dio
(facoltà mimetica, capacità di raffigurare attraverso le parole).
Nell’ultimo Benjamin la “lingua muta” è l’espressione degli oppressi, dei
“senza nome”. Partiva in realtà dalla critica come ascolto, “la pura e
semplice criticabilità di un’opera pone nella stessa un valore positivo”. La
critica non può capire un’opera se non a partire da un’urgenza storica
che la renda attuale, ma la sua comprensione è possibile solo dopo la sua
“morte”. “la critica è mortificazione delle opere” poiché ha il compito di
privarle del loro incanto emotivo. Ma è un lavoro che elimina per
costruire, per creare spazio; il carattere distruttivo è nemico dell’uomo-
custodia e “riduce l’esistente in macerie non per amor delle macerie ma
La tecnica del critico in tredici tesi
della via d’uscita che le attraversa”.
(1928) giustifica l’atteggiamento negatore. La critica “militante” vuole
evitare sia la falsa superiorità del critico-giudice sia il falso rispetto per il
libro in quanto tale dell’interprete benevolo. L’obiettivo è quello del
materialista storico: trasportare l’opera nell’urgenza del presente,
attualizzandola (compito politico della critica).
Riprese di Brecht: ripreso da Burger alla metà degli anni ’70 (poiché
rende possibile un nuovo tipo di arte politica in quanto autore di opere
non organiche; i singoli elementi hanno un’ampia autonomia), in Italia da
Sanguineti (riprendeva il modello del critico come rappresentante di chi
non c’è, dei socialmente esclusi; la tecnica dello straniamento come
rottura di qualsiasi cerchio magico) e Curi (allarga la nozione di
straniamento e la applica al contesto lettetrario: “il linguaggio è altro dal
soggetto perché esso non gli appartiene, ma se lo trova davanti come un
insieme di materiali, di pensieri già pensati, di parole già dette”). Il nodo
principale sta nella concezione di autore come produttore e della
scrittura come lavoro. Nell’area inglese compare in Eagleton negli anni
’80 (per il carattere pragmatico del materialismo di Brecht e per
l’umorismo). Coglie in lui alcune importanti indicazioni dialettiche:
attenzione al rovescio dei problemi, affidamento al divenire nel suo
carattere innovativo e aperto. Ripreso anche in ambito spagnolo da Juan
Carlos Rodriguez che dirama lo straniamento a tre livelli (tra attore e
personaggio, tra rappresentazione e pubblico e all’interno del pubblico
stesso). Lo riprende anche Jameson con lo straniamento, il gestus fino
all’uso del proverbio e della sentenza, la frammentarietà, il minimalismo:
“una distanza allegorica si apre all’interno dell’opera: una breccia
attraverso la quale significati di tutti i tipi possono infiltrarsi uno dopo
l’altro. L’allegoria è così una ferita rovesciata, una ferita nel testo; essa
può essere tamponata o tenuta sotto controllo, ma mai del tutto
eliminata come possibilità”. In Francia Brecht torna al centro del dibattito
con Badiou: non lo colloca nella linea di punta identificata con Mallarmè e
Beckett ma ne riconosce l’importanza nel quadro di una “subordinazione
riflessiva dell’arte”.
Il pensiero di Brecht: 1. L’arte fa parte della produzione quindi non può
essere contrapposta al mercato come qualcosa di sostanzialmente
diverso. Uno dei massimi titoli di nobiltà dell’arte consiste nella sua
inutilità. Compie un vero e proprio esperimento sociologico e realizza uno
schema dove dirama l’articolazione dell’opera suddivisa tra autore e
opera che si divide in forma e materia e quest’ultima in trama e
personaggi fino ad arrivare all’esplicazione sul piano del mercato e sugli
effetti sul pubblico (tensioni, happy end, atmosfera…). L’alternativa su
questo livello è l’ammissione di questa contraddizione interna con la
conseguente perdita dell’illusione dell’autonomia della creazione
artistica. 2. Egli aveva presente nell’immedesimazione un limite e una
valvola di sfogo: “essa si rivela sempre di più una tecnica storicamente
condizionata. È entrata in crisi perché non consentiva di rappresentare gli
individui nell’ambito della lotta di classe, perché le emozioni spirituali
non collocano il lettore all’interno della lotta di classe, ma lo allontanano
invece da essa. Gli scrittori ogni volta che debbono descrivere un
personaggio lo restringono in modo tale che ad ogni lettore debba
riuscire possibile immedesimarsi in esso. Gli esseri umani che essi
descrivono si assomigliano tutti”. L’alternativa è che non ci devono
essere modelli extrastorici e segnala l’utilizzo di nuove tecniche come
quelle del monologo interiore e del montaggio: forme di visione da fuori,
oggettivazione del comportamento, frammentazione e ricomposizione. Il
realismo si realizza attraverso lo humour e l’ironia. Lo straniamento è il
procedimento usato per eccellenza e modifica il rapporto con il pubblico.
Stretto parente di questo sarà l’allegoria. 3. L’insieme sociale è solcato
inevitabilmente dalla disuguaglianza. Il capitalismo è “contrario alla
ragione” e sappiamo che per lui l’unico mezzo è il comunismo. Bisogna
scovare la contraddizione in fenomeni che sembrano unitari. L’alternativa
è l’intervento. L’assioma di partenza è l’utilità del dubbio (Lode del
dubbio). Può portare al cambiamento solo una messa in discussione dello
stabilito. Si tratta di “sopportare la contraddizione” e “suscitare la
contraddizione”.
Lukacs: rispecchiamento della realtà, poetica del realismo.
Rappresentazione antropomorfa legittimata dal fatto che rappresenta un
mondo disantropomorfizzato. Opposizione dell’arte al feticismo delle
merci: rappresentando uomini reali nei loro rapporti sociali, l’arte dissolve
l’ingannevole fantasmagoria dei feticci che riduce gli uomini a cose.
Contro l’allegoria poiché mettendo in scena non il personaggio-uomo ma
le sue componenti astratte personificate, fa la stessa cosa del feticcio
marxiano. Se solo un elemento rinvia al di là del cerchio magico costruito
intono all’opera d’arte questa diventa un insieme confuso di oggetti.
Adorno: al contrario di Lukacs, abbraccia l’arte astratta poiché difficile
ed enigmatica. L’unico modo che ha l’arte di distanziarsi dagli orrori
prodotti dal mondo (vedi la guerra mondiale) è marcare un’incolmabile
differenza dall’esistente. Il frammento è posto in antitesi alla totalità,
principio costitutivo diventa il montaggio e con esso l’interruzione, la
discontinuità, la rottura. La soluzione per liberarsi dal feticismo è
l’assunzione consapevole che si sconta nell’aporia. Il modello è Beckett