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Nel 1984 il MoMA inaugura l'esposizione “Primitivism” in 20 Century Art: Affinity of the Tribal
and the Modern, che marca l'apogeo dell'Arte Primitiva. C'erano esposti capolavori delle
avanguardie e opere d'arte primitiva, quest'ultime ripartite in tre sezioni: la prima dedicata ai
capolavori che hanno influenzato l'Arte Primitiva, la seconda era dedicata alle affinità formali tra
Arte Primitiva e arte moderna, la terza esibiva opere d'arte contemporanee influenzate da miti, riti e
religione dei Primitivi.
Il ritorno dell'Arte Primtiiva al MoMA è fondamentale per due motivi:
sancisce la canonicità di un allestimeno che valorizzza le affinità tra arte moderna e
primitiva;
segna l'inizio della decostruzione categoriale dell'Arte Primitiva e dell'estetica universalista
sottesa al “Primitivismo”.
Capitolo 4
La decostruzione antropologica th
Thomas McEvilley scrive una recensione per la mostra “Primitivism” in 20 century art, nella quale
aggredisce dei punti cruciali. Rileva uno “spirito esorcistico” e un “terrore del Primitivo”.
Il “terrore del Primitivismo”, secondo l'antropologa Sally Price, riguarda una visione del Primitivo
che ancora persisteva ed era condivisa dai curatori della mostra, come esempio cita l'accostamento
di Rubin che fa nel catalogo dell'esposizione tra un'opera di Calder e una figura Imunu. L'oggetto
della Nuova Guinea ha l'autentica qualità allucinatoria di un lavoro di chi crede nei mostri, a
differenza dell'opera di Calder. Sally Price commenta affermando che questa distinzione
interpretativa era data sul differente trattamento artistico e sulla documentazione delle due opere,
con l'idea di base che i popoli primitivi vivono nella paura di “mostri”.
Quel paragone venne criticato da McEvilley per non aver colto abbastanza il clima di paura e
oscurità, affermando che questi oggetti erano investiti da sentimenti di paura e terrore, non di
nobilitazione estetica.
The Great Divide
Sally Price dedica il volume Primitive Art in Civilized Places all'individuazione del fascino
ambientale esercitato dall'immagine culturale dei Primitivi come uomini in preda all'irrazionale ed
emozioni primarie, paura della morte, superstizione e ignoranza. Tutto questo viene definito il lato
oscuro dell'uomo, che si riglette nell'arte dei popoli “primitivi”. In alcuni casi queste
rappresentazioni dell'Arte Primitiva hanno causato il disconoscimento dell'ambiente intellettuale da
cui hanno origine.
L'influenza dell'immagine dell'Altro si rintraccia anche in altri registri della percezione occidentale
dell'Arte Primitiva. L'immagine del Primitivo come lato oscuro dell'uomo non ha sempre intenti
denigratori, bensì elogiativi.
Dalle citazioni di storici, critici e intellettuali è possibile ricavare una tabella dei caratteri attribuiti
alla nostra e allo loro Arte:
Arte occidentale Arte primitiva
Imitazione natura, realismo Stilizzazione, sterotipia, simbolismo, astrazione
Razionalità Istinto, impulsi primari, pulsioni primitive, inconscio,
desiderio, paura, forze occulte, sessualità, erotimo,
immediatezza, malevolenza
Complessità Semplicità, elementarità
Storia Atemporalità, tradizione
Individualità Anonimato
Espressione dell'identità personale Espressione dell'identità tribale
Priva di “contaminazioni” interne Priva di “contaminazioni” esterne
Creata per scopi “sublimi” Creata per scopi “religiosi”, “magici”
Qualità estetiche storiche Qualità estetiche atemporali
Le caratteristiche contrastanti del modello dell'artista occidentale rispetto a quello primitivo sono
debitrici dell'immagine speculare dll'altro da noi che abbiamo costruito: il primo possiede
un'identità individuale, il secondo possiede un'identità collettivale, tribale o etnica. Se il primo non
si lascia corrompere dal mercato, il secondo si lascia corrompere dall'acculturazione.
Da uno studio di Francis Hsu dedicato al concetto di “primitivo” emerge la preponderanza delle
connotazioni negative ancora associate dagli antropologi. L'antropologia non è dunque innocente.
L'autore rileva inoltre l'imbarazzo degli antropologi suscitato dal termine “primitivo”, troppo
connesso all'evoluzionismo e all'inferiorità data alle culture “arretrate”, con una conseguente ricerca
di termini alternativi. Venne proposto di sostituire l'espressione culture primitive con culture prive
di scrittura, se non che già Hsu rilevava che l'opposizione culture orali/civiltà della scrittura non
erano che proposte in alternativa a culture primitive/civilizzate, attraverso lavori che avevano
rilevato nella scrittura la tecnologia che promuove il pensiero astratto. Quest'antitesi venne a
configurarsi come modello del Great Divide, la divisione che oppone Noi e gli Altri. Dicotomia che
coinvolse anche Lévi-Strauss, che costruì una tabella sul binarismo etnocentrico, definendo società
“calde” le culture orali e società “fredde” le civiltà della scrittura.
Per superare la concezione negativa del termine “primitivo” dovette intervenire l'antropologia
dell'arte, che ricerca sinonimi per indicare l'arte dei popoli di interesse etnologico, quali arte trivale,
arte nativa, arte tradizionale. Questo però non risolse l'opposizione tra Noi/Altri.
Mentre nascono nuovi approcci negli studi di etnoestetica e di antropologia dell'arte, alcuni lavori
affrontano con un nuovo sguardo l'arte turistica e aggrediscono alcuni paradigmi dell'arte africana
quali il paradigma one-tribe, one-style.
Universalismo estetico e appropriazione dell'Altro
Quel che occorre non è un'estetica universale, che giudica gli artefatti di tutti i popoli, ma
un'estetica trasversale, che richiede la comprensione di visioni del mondo e visioni estetiche
alternative. th
Nella recensione di McEvilley nell'esposizione “Primitivism” in 20 century art rivolge dure
critiche: il Museo data i lavori degli Occidentali ma non quelli primitivi, lasciandoli in uno stato
infantile e di mancanza di storia. Sicuramente i responsabili della mostra pensano che sia un atto
radicale che dimostra come i “primitivi” siano uguali a noi ma, con il loro annullamneto del
contesto, significato, contenuti ed intenzioni delle opere, hanno trattato i “primitivi” come meno che
umani. Sono ombre di una cultura dai quali personalità e Alterità sono state tolte. I curatori
intendono farci conoscere degli oggetti è da dove vengono, a cosa somigliano e come soddisfano i
bisogni dell'esposizione. È un “atto di appropriazione”, come quelli serviti in precedenza per
costruire “il mito della continuità della storia dell'arte occidentale, come la riscoperta delle opere
classiche nel Rinascimento. Il bisogno di annullare la differenza assorbendola nel proprio ordine è
dato dalla paura dell'Altro, che ci costringe a negare la sua Alterità.
Secondo McEvilley il Museo pretende di confrontarsi con il terzo mondo ma in realtà lo sta
inglobando per consolidare le nozioni di qualità e sentimenti di superiorità dell'Occidente, a
dimostrazione del fatto che l'egotismo occidentale è ancora presente.
William Rubin difende il “Primitivismo” come ricezione degli artisti tribali, “primitivismo” come
opposto a “primitivo” per identificare una storia che non riguarda l'Altro ma noi stessi.
Anna Laura Jones afferma che ci sono due principi contraddittori:
l'arte non occidentale ha valori formali universali e può essere esibita nell'ambito museale
come la scultura occidentale;
gli oggetti non occidentali non richiedono di essere trattati come provvisti di creatori
inividuali che agiscono in una tradizione artistica e in un contesto storico.
Viene operata la critica antropologica all'estetica universalista, vari autori evidenziano l'astoricità e
l'etnocentrismo su cui si basa quest'estetica.
Sally Price afferma che le finalità estetiche dei creatori e dei critici non sono universali. L'esistenza
di parametri culturali e critici condivisi dai fruitori dell'arte occidentale rafforzano l'erronea
sensazione che ciò che noi valutiamo nell'opera d'arte è la sua qualità estetica pura.
Shelly Errington ribadisce il concetto richiamando l'accostamento di Figura allungata di Giacometti
e una figura allungata nyamwezi, per i quali l'etichetta asseriva che entrambe “rigettavano il
realismo”. Come può una delle due figure rifiutare il realismo se il suo creatore non ha mai cercato
di raggiungerlo?
Ezio Bassani aderisce all'estetica universalista senza porsi il problema della sua determinazione
culturale. Egli afferma che l'uso dei termini “cubista”, “astratta”, “realista” per definire un'opera
africana rivela la nostra ignorana dei canoni espressivi degli scultori neri e allo stesso tempo la
volontà d'integrare in un contesto universale i risultati della loro creatività.
La decontestualizzazione operata dal trasferimento dei manufatti africani nei musei dell'Occidente e
la loro successiva ricontestualizzazione in Occidente, è intesa da Bassani come analoga alla
desacralizzazione subita dalle opere occidentali di natura religiosa. Le modalità di questo passaggio
tra differenti regimi di valori implica un'ambigua modalità di raccolta, non certo un'evoluzione
storica interna alla cultura produttrice. Si tratta di un problema che ha coinvolto direttamente
l'antropologia.
Leiris, su quel che oggi è definita appropriazione, nel 1950 afferma che ogni volta che oggetti
religiosi o d'arte vengono trasferiti nel museo di una grande città europea, i detentori originari deglli
oggetti vengono indennizzati. È pur sempre parte di un patrimonio culturale che viene sottratto ai
proprietari e ciò crea uno shock nelle consuetudini locali.
Nonostante le critiche non c'è stato nessun ripensamento maturato dagli storici, studiosi, curatori
ecc. Come osserva Enid Schildkrout non sorprende che molti visitatori di mostre e musei si sentano
più a proprio agio con la decontestualizzazione che con indicazioni sulla “biografia degli oggetti”.
Sally Price nota che la giustificazione comunemente adottata per la raccolta del materiale è che la
conservazione di Arte Primitiva offre un contributo alla conoscenza umana. Gli Occid