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Il romanticismo si concentra dunque quasi esclusivamente sulla letteratura orale, sui prodotti
folklorici cui è possibile assegnare un valore artistico.
Il positivismo tenta invece di documentare tutti gli aspetti della cultura del popolo, dal punto di vista
di un concetto antropologico esteso di cultura. Per il positivismo non c’è una vera e propria
delimitazione disciplinare tra folklore e antropologia. Entrambe le discipline documentano gli stadi
arcaici dell’evoluzione culturale dell’umanità, di cui i prodotti popolari sarebbero sopravvivenze.
In quest’ottica, i contadini europei, tanto quanto i “selvaggi”, vivono letteralmente in un’epoca
precedente, lontana dalla modernità. Questa tendenza all’allontanamento dell’altro nel tempo è
definito ALLOCRONIA.
Per la scuola evoluzionista di fine Ottocento, il folklore rappresenta uno dei grandi campi per lo
studio comparativo delle origini della cultura umana. Gli usi e costumi contemporanei vengono
ricondotti a presunti antecedenti storici, a forme originarie che ne costituirebbero la spiegazione.
Ogni cultura nazionale ha prodotto una propria tradizione di studi. Per l’Italia, Giuseppe Pitré è il
personaggio più rappresentativo di questa fase, per i suoi studi sui contadini palermitani, fondatore
della “demopsicologia” (primo insegnamento universitario dedicato al folklore). Ma ogni regione
italiana ha i suoi appassionati raccoglitori di “curiosità” popolari, spesso dilettanti, eruditi locali,
maestri di scuola, parroci.
Nel primo Novecento questo filone positivistico raggiunge il suo culmine. Nel 1906, Lamberto Loria
fonda a Firenze il primo Museo di Etnografia Italiana, una raccolta di cultura materiale proveniente
da diverse regioni. Nel 1911, tale collezione diverrà la base per la grande Mostra di Etnografia
Italiana organizzata a Roma per le celebrazioni del cinquantennale dell’unità d’Italia. Questa
mostra di spirito internazionale fa sì che il grande organizzatore di cultura e museologo Lamberto
Loria riunisca a Roma tutte le regioni italiane in un grande disegno di museografia.
Sin dall’Ottocento, ma maggiormente con i regimi totalitari del Novecento, gli studi di folklore
hanno anche svolto una funzione pedagogica nella costruzione delle identità nazionali con finalità
politico-culturali.
Nel Novecento c’è stato un movimento molto significativo, a cui fa riferimento anche il titolo di un
volume uscito in Italia, “Dal museo al terreno”, che abbandonava il museo come presidio della
conoscenza e lo usava soltanto come informazione preliminare per la ricerca sul campo.
Personaggio emblematico di questo cambiamento radicale dell’antropologia è stato Bronislaw
Malinowski. Se in periodo positivista gli studi di folklore sono saldati a quelli antropologici e
etnologici, dopo la Grande Guerra, le due discipline si separano nuovamente, come conseguenza
della rivoluzione metodologica dell’antropologia culturale. Questa infatti, come già detto, viene a
fondarsi su due basilari principi: da un lato la ricerca empirica basata sul fieldwork e
sull’osservazione partecipante, dall’altro una elaborazione teorica sociologica con una solida
riflessione epistemologica. Gli studi di folklore non la seguiranno in questo, restando legati ad un
approccio più filologico.
Nel corso del Novecento, antropologia e demologia si sono distinte non solo per l’oggetto di studio
(alterità esterna ed interna), ma anche per impostazione metodologica e per un diverso assetto
accademico e istituzionale.
- L’antropologia si è sviluppata in pratiche di ricerca “pura”, all’interno delle università
- Gli studi popolari invece nei musei, nelle politiche territoriali di valorizzazione del patrimonio
e in altri ambiti “applicati”
Un’altra differenza tra le due discipline si evidenzia nel fatto che se per gli studi antropologici ed
etnologici è oggi possibile ricostruire una storia in qualche modo unitaria su base internazionale,
per quelli folklorici questo è praticamente impossibile, in quanto frammentati in scuole nazionali.
In Italia, nel periodo tra le due guerre gli studi antropologici non conoscono particolati sviluppi, da
un lato per le politiche autarchiche e ideologiche del fascismo dall’altro per la diffusione
dell’idealismo storicistico di Benedetto Croce.
Nel secondo dopoguerra, l’Italia si apre nuovamente alla cultura internazionale, si sviluppa un
indirizzo di studi autonomo sulla cultura popolare con le proprie radici nel pensiero di Antonio
Gramsci. Nei Quaderni del carcere, Gramsci si disfa delle concezioni romantiche e positivistiche
del folklore e lo ripensa come fenomeno centrale dei rapporti tra le classi e come conseguenza
diretta dei processi tramite i quali i ceti dominanti esercitano il potere. Individua gli intellettuali
come principali mediatori dei processi di egemonia culturale.
Nel ventennio 1950-70 con i processi di modernizzazione vengono meno le condizioni che, nella
visione di Gramsci e Cirese, garantivano la separazione della cultura subalterna da quella
egemonica: l’isolamento territoriale, la perifericità, l’impossibilità di accedere all’istruzione e alle più
alte risorse culturali.
Quasi tutti i nostri musei sorti in questo periodo, escludendo quelli etnologici, che sono tutti figli
dell’Ottocento e di questo progetto anche scientifico di conoscenza del mondo della diversità, in
gran parte sono nati da collezionisti locali che hanno deciso di costruire la memoria della propria
comunità.
Dagli anni ’90 si definisce un nuovo paradigma, incentrato sulle nozioni di memoria e patrimonio. È
un’istituzione internazionale, l’UNESCO, che detta il nuovo linguaggio e i nuovi obiettivi della
valorizzazione delle culture locali e tradizionali. Una Convenzione del 1972 ha creato la lista dei
beni culturali e naturali riconosciuti come “patrimonio dell’umanità”, circa 900 in tutto il mondo, in
prevalenza di carattere storico-artistico e monumentale.
Nel 2006, la Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile contribuisce alla
definitiva affermazione della nozione di intangibile o immateriale, per definire ciò che prima si
chiamava folklore o cultura popolare.
Il museo come forma di antropologia e manufatto
Un museo può essere considerato una “forma di antropologia” in quanto dà corpo e concretezza,
attraverso la sua collezione di oggetti e la loro esposizione, al pensiero di certi uomini su altri
essere umani.
Nel Museo Nazionale di Antropologia e Etnologia (MNAE) di Firenze, un primo esempio di
rappresentazione dell’alterità, la materializzazione di ciò che per gli europei del Settecento,
attraverso lo sguardo del capitano Byron, era l’altro.
Un museo, così come un testo etnografico, è un modo di rappresentazione attraverso il quale
frammenti di una cultura, prelevati dal campo, perché meritevoli di essere “salvati”, acquistano un
nuovo valore in un nuovo contesto e in una nuova sistemazione.
A partire dagli anni Settanta del Novecento si è iniziato nelle discipline antropologiche a guardare
con sguardo critico all’atto di “rappresentare. Si è parlato di una vera e propria “crisi della
rappresentazione etnografica”, mettendo in discussione il modo in cui gli altri erano rappresentati. I
testi etnografici, e così i musei, si configurano come “finzioni”, sono cioè verità culturali e storiche
parziali e incomplete, sono fabbricate e modellate dall’etnografo.
Il modo in cui sono stati collezionati gli oggetti, il perché e il come sono stati esposti rivelano il
modo in cui gli Occidentali si sono autodefiniti nel relazionarsi con l’Altro.
I presupposti storici e politici di produzione di una raccolta di oggetti e della loro successiva messa
in mostra sono fondamentali per una corretta comprensione, tanto da dover essere a loro volta
esplicitati e resi visibili.
Le esposizioni nei musei di antropologia non rappresentano tanto le culture in esso messe in
mostra, piuttosto riflettono le diverse immagini che gli antropologi hanno prodotto delle culture che
hanno studiato. James Clifford afferma: “le categorie del bello, del culturale e dell’autentico sono
cambiate e continuano a cambiare. È perciò importante contrastare la tendenza delle collezioni a
essere autosufficienti, a sopprimere i loro particolari processi storici, economici e politici di
produzione. L’ideale sarebbe che la storia della collezione e della esposizione fosse un aspetto
visibile di ogni mostra.”
Dunque, se il museo è una modalità di rappresentazione legata a contingenze culturali, storiche e
politiche di un certo periodo storico e di una certa società, possiamo pensarlo, come ha suggerito
Michael Ames, come un manufatto prodotto da una certa cultura.
Un museo di antropologia non è solo “finestra” sulle popolazioni altre in esso rappresentate, ma
anche uno specchio che riflette la cultura antropologica che lo ha prodotto in un certo momento
dando corpo e concretezza a certe forme di conoscenza e verità.
Secondo Ames, sono quattro le tipologie espositive utilizzate nel tempo per mostrare gli oggetti
etnografici:
- LA STANZA DELLE MERAVIGLIE, una modalità che compare prima della nascita
dell’antropologia come disciplina. Gli oggetti di popoli lontani erano apprezzati per la loro
rarità e stravaganza in un allestimento privo di sistematicità.
- L’APPROCCIO STORICO-NATURALISTICO, di matrice evoluzionista, si sviluppa alla fine
del diciannovesimo secolo quando l’antropologia inizia a svilupparsi come disciplina
autonoma. L’oggetto è adesso fonte di informazione in grado di documentare la realtà di
uno stadio pregresso dell’evoluzione umana. Gli Altri sono visti come “primitivi” e le
collezioni presentati o su base tipologica e comparativa, come nel Museo Pitt Rivers di
Oxford, o su base geografica, come il MNAE.
- L’APPROCCIO CONTESTUALISTA, legato alla moderna antropologia, esprime la
necessità di mostrare gli oggetti ricostruendone il contesto d’uso originario. Franz Boas
introduce negli allestimenti museali l’uso del diorama, o scene di vita, mettendo in mostra i
manufatti in insiemi che simulavano l’originario contesto culturale dal quale erano stati
prelevati.
- L’APPROCCIO ESTETICO-FORMALISTA, vede gli oggetti provenienti da popoli altri
trasformarsi in esemplari di opere d’arte: la forma diventa più importante del contenuto.
Tutte queste modalità rappresentano “punti di vista esterni” per osservare manufatti prodotti da altri
popoli. Michael Ames