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LA RACCOLTA DI SPECIMINA E L’EPOCA CLASSICA

Più o meno tutti gli studiosi che sul finire dell’Ottocento

arrivarono in questa parte del Canada produssero

collezioni. Filip Jacobsen, acquistò molto materiale, che

portò a Berlino insieme a nove Indiani che Franz Boas

incontrò in Germania e che lo fecero interessare alla costa

Nordoccidentale del Canada.

Douglas Cole ha tentato di sistematizzare la complessa

storia del collezionismo etnografico in Columbia Britannica

ne fa cominciare il “periodo d’oro” con James Swan e

l’attività dello Smithsonian.

Cole considera James Swam l’iniziatore del periodo d’oro

del collezionismo, perché la sua è la prima raccolta di

oggetti ben documentata. Questo momento viene fatto

terminare con la crisi economica che colpì gli Stati Uniti

negli anni Trenta.

Spencer Baird, zoologo segretario dello Smithsonian

Institution, si rese conto che per avere collezioni di oggetti

con una buona documentazione del contesto culturale in

cui erano collocati era necessario servirsi di raccoglitori

professionisti. Baird era convinto che le culture indiane

fossero prossime alla sparizione e che dunque fosse

necessario agire rapidamente.

Il principale rivale dello Smithsonian Institution nella corsa

ad accaparrarsi oggetti degli Indiani della costa occidentale

ful’American Museum of Natural History di New York.

Nel 1888 la collezione dell’American Museum crebbe

ulteriormente grazie all’acquisizione di pezzi, soprattutto

Tlingit, collezionati da George Emmons,ufficiale navale, fu

un eccezionale collezionista; mise insieme collezioni

attentamente etichettate e documentate. Va segnalato

però che durante la direzione di Franz Boas del museo

Emmons fu costretto a vendere le sue collezioni altrove,

infatti la sua strategia da libero mercato aveva scatenato le

ire di Boas.

L’American Museum lanciò il suo programma collezionistico

su vasta scala nel 1897 con la Jesup North Pacific

Expedition che durò sei anni, con la direzione di Franz Boas,

e prese il nome del principale finanziatore, un ricco

banchiere americano, il cui scopo era stabilire la relazione

tra le popolazioni della costa Nordoccidentale americana e

la costa nordorientale asiatica.

Nel 1899 l’American Museum aprì la sezione dedicata alle

culture della costa del Pacifico che ebbe una grande e

favorevole attenzione da parte del pubblico.

In quegli stessi anni Dorsey e il Field Museum non

mancarono certo di inizativa. Dorsey voleva soprattutto

materiali haida, il successo di Newcombe nel produrre

buone collezioni è dovuto anche a Charles Edenshaw, uno

scultore haida, che egli assunse come informatore e

collaboratore.

La fine del contratto di Newcombe con il Field Museum

segnò la fine della rivalità tra i grandi musei americani.

Da una parte per l’antropologia americana le collezioni di

oggetti dei musei cessarono d’essere così importanti. Il

diffusionismo di orientamento storico per certi versi

continuò ad appoggiare un orientamento verso l’oggetto.

Dopo la guerra, gli antropologi sociali e culturali divennero

via via sempre meno interessati alla cultura materiale e

alla tecnologia. La ricerca etnologica significava ricerca sul

campo.

Il collezionismo continuò su scala minore.

Dopo il 1906 diversi collezionisti, convinti che poco fosse

ancora nelle mani degli Indiani, cominciarono ad acquistare

vecchie collezioni realizzate dai pionieri e dai primi

mercanti. Altrettanto importante per chi voleva acquisire

oggetti fu il tentativo da parte del governo che arrivarono e

arrestarono molte persone e confiscarono tutti gli oggetti.

L’agente Wiliam Halliday, ex-amministratore della scuola

governativa per gli Indiani, aveva avuto l’incarico di spedire

tutto il materiale a Edward Spair ma per una serie di

circostanze non lo fece. L’ufficio per gli Affari Indiani

disapprovò molto il gesto di Halliday soprattutto perché

oggetti canadesi sarebbero finiti negli Stati Uniti. Alla fine

Halliday spedì il resto del materiale. Negli anni Sessanta si

aprirono le trattative per la restituzione del materiale ai

proprietari legittimi. La restituzione avvenne nel 1979 e nel

1980 e dette luogo ai musei tribali: il Kwagiulth Museum

and Cultural Centre sulla Quadra Island e l’U’mista Cultural

Centre di Alerti Bay sulla Cormorant Island.

Negli anni venti del Novecento il collezionismo su vasta

scala stava finendo.

COLLEZIONARE ARTE

Nella periodizzazione che Lohse e Sundt propongono nel

loro testo sulle varie fasi della storia del collezionismo che

ha interessato la costa Nordoccidentale si afferma che

durante la seconda metà del Novecento quando si fondò

sulla considerazione degli oggetti nativi come opere d’arte.

Un evento importante che dette l’avvio a questo processo

fu una mostra al Museum of Modern Art di New York che si

intitolava Indian Art of the United States.

Nel 1946 Max Ernst, Barnbett Newman allestirono alla

Betty Parsons Gallery una mostra, anch’essa considerate

tra gli eventi fondativi per la percezione degli oggetti native

come opera d’arte. Intitolata Northwest Coast Indian

Painting, la mostra comprendeva pezzi delle loro collezioni

private.

La prima mostra canadese che mise in mostra oggetti

nativi come opere d’arte fu la Exhibition of canadian West

Coast Art, Native and Modern del 1927. Oggetti nativi

furono appesi accanto ad opere di artisti bianchi.

Nei primi anni del Novecento la maggior parte delle mostre

di oggetti d’arte indiana della costa Nordoccidentale erano

presentate come sezioni di allestimenti etnologici

permanenti. Soltanto intorno agli anni Sessanta si

svilupparono mostre che esponevano esclusivamente arte

indiana. In ventiquattro anni solo in Columbia Britannica

furono prodotte mostre nelle quali gli oggetti della costa

Nordoccidentale erano presentati come opere d’arte. La

prima importante mostra di questo tipo è quella allestita

proprio da Audrey Hawthorn e J. A. Morris nel 1956 dal

titolo People of the Potlach presso la Galleria d’arte

moderna di Vancouver.

In Canada uno dei principali eventi che decretò l’artisticità

delle produzioni native della costa Nordoccidentale fu la

costruzione nel 1976 della Great hall del MoA.

Ciò che i musei pubblici stanno facendo con le loro mostre

ed acquisizioni è di musealizzare gli artisti Indiani

contemporanei e le loro opere a questa operazione dà

legittimazione agli artisti e ai manufatti sia agli occhi dei

bianchi che degli Indiani. Gli Indiani scoprono che il loro

patrimonio materiale ha un nuovo valore.

Questi avvenimenti, in anni abbastanza recenti, hanno

portato gli artisti nativi a non volere che le loro opere

fossero esclusivamente nei musei di antropologia, ma

piuttosto che fossero messe in mostra nelle principali

gallerie d’arte canadese insieme alle opere degli artisti non

nativi.

VERSO UN PARADIGMA COLLABORATIVO

Con la trasformazione degli oggetti nativi da specimina in

opere d’arte ad essere profondamente trasformata è anche

la natura della relazione tra bianchi e le popolazioni native.

Durante l’epoca classica del collezionismo il rapporto tra

comunità native e musei era sostanzialmente a senso

unico. La relazione così impostata andava a rafforzare il

concetto che la conoscenza fosse prerogativa delle

istituzioni e delle persone che vi lavoravano.

Le comunità native, per niente scomparse, hanno

cominciato a far sentire la loro voce pretendendo ad

esempio la restituzione di oggetti ed informazioni prelevati

in un'altra epoca. I musei da parte loro hanno cominciato a

vedere le comunità come un pubblico importante e hanno

cominciato a domandarsi in che modo le rappresentazioni

museali vengono percepite dalle comunità native.

In un testo dedicato al rapporto tra museo e comunità

native Ruth Philips afferma che negli ultimi cinquant’anni i

musei canadesi hanno radicalmente cambiato il modo di

rappresentare la diversità culturale.

Il cambiamento di paradigma che si sta diffondendo

attraverso questo nuovo modello è legato a questioni

fondamentali su come i musei contemporanei si stanno

riposizionando nelle società coloniali.

La pratica legata alla collaborazione con le comunità è

connessa, secondo la Philips, al movimento riflessivo

diffusosi nelle scienze umane e sociali e al dibattito sui

diritti umani che ha messo in evidenza la necessità di

proteggere anche la proprietà culturale e la conoscenza

tradizionale indigena. Il modello museografico

“tradizionale” è visto come un prodotto del

neocolonialismo.

Ruth Philips analizza gli eventi principali che in Canada

hanno portato alla diffusione di questo nuovo modello

collaborativo: L’Indians of Canada Pavilion, che è stata la

prima grande mostra nella storia canadese a presentare la

storia e la cultura da un punto di vista nativo piuttosto che

euro-canadese. Negli incontri preliminari tra gli

organizzatori dell’Expo 67 e le popolazioni aborigene si

arrivò all’accordo per cui ultime potevano creare un

padiglione degli Indiani del Canada a sé stante. Ciò che fu

presentato in quell’allestimento fu qualcosa di

assolutamente nuovo: la critica dei rapporti passati e

presenti tra Nativi e non Nativi lì rappresentata fu la più

completa fino a quel momento. Nel Padiglione furono

mostrati gli aspetti negativi del contatto, ma anche la

contemporaneità e il valore delle pratiche tradizionali, in

opposizione a quel modello che collocava in un passato

remoto la purezza e l’autenticità della cultura aborigena

Nel 1988 a Calgary si sono tenuti i giochi olimpici invernali.

In quell’occasione il museo della città propose un’ambiziosa

mostra dal titolo The Spirit Sings. Si trattava di riportare in

Canada oggetti raccolti, durante il primo periodo del

contatto, da missionari, soldati e collezionisti di curiosità.

Fu la mostra più costosa mai realizzata e fu anche la più

contestata. Infatti quando fu annunciato che la compagnia

petrolifera Shell sarebbe stato lo sponsor, i Cree del lago

Lubicon chiesero il boicottaggio in appoggio alla loro

rivendicazione della terra che proprio la Shell stava

perforando. Alla fine molti musei decisero di ospitare

ugualmente la mostra.

La relazione conclusiva della commissione uscì nel 1992 e

dette l’avvio ad una nuova etica della pratica museale,

caratterizzata dalla collaborazione tra operatori museali e

Dettagli
Publisher
A.A. 2012-2013
30 pagine
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-DEA/01 Discipline demoetnoantropologiche

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher storia92 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Antropologia dei patrimoni culturali e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Firenze o del prof Rossi Emanuela.