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Apollinare. Accanto agli oratori in volgare, Carissimi produsse oratori in latino, destinati soprattutto all’Oratorio del SS.
Crocifisso, i cui partecipanti aristocratici prediligevano una lingua e una forma più alta, come il mottetto. Anche gli oratori
in latino venivano usati per incorniciare il sermone, e le differenze da quello volgare stanno nel fatto che il testo – essendo
spesso una libera parafrasi della Bibbia – era in prevalenza in prosa anziché in poesia, e che il narratore è raramente
eseguito da un unico cantante, ma più spesso si alterna fra solisti e coro. Inoltre, essendo l’Oratorio del SS. Crocifisso di
dimensioni anguste, quasi sempre l’accompagnamento strumentale era riservato al solo basso continuo. La distinzione
fra oratorio latino e volgare era in definitiva sociologica: il primo era destinato a un élite e circoscritto ai venerdì di
quaresima; il secondo era aperto a tutti in qualsiasi periodo. L’oratorio in volgare dilagò presto in Italia, e venne meno la
funzione devozionale, tanto che in breve sostituì l’opera.
I luoghi della musica barocca
Nel Seicento la relativa unità stilistica precedente si infranse, e ogni compositore prese ad adottare uno stile diverso a
seconda delle circostanze. Già prima, ovviamente, si usavano stili diversi per la musica da chiesa e per quella da camera,
ad esempio, ma nel periodo barocco lo scarto divenne consapevole e codificato. Questo può essere collegato all’avvento
della seconda prattica, che non aveva debellato la prima – ossia la polifonia contrappuntistica, i cui intrecci potevano
essere del tutto indifferenti alla parola –, costituendo un primo esempio di pluralità, né fu estraneo il prestigio di cui
continuavano a godere le musiche sacre del Palestrina, il cui stile antiquus convisse accanto al modernus barocco. Il
secondo fattore fu letterario: fin dal medioevo la produzione andava qui coagulandosi in generi, e nel 1536 questo
processo subì una spinta grazie alla pubblicazione del testo originale della Poetica di Aristotele. Dalla sua interpretazione
i letterati rinascimentali trassero spunto per un’ulteriore codifica dei generi, al fine di canalizzare la produzione ma anche
per fornire una griglia interpretativa ai fruitori; allo stesso modo, con lieve ritardo, i teorici musicali iniziarono a parlare
di una classificazione analoga a Seicento inoltrato. Il concetto di genere musicale costituiva però una categoria funzionale,
più che estetica, in quanto determinato anzitutto dalla funzione sociale, che dettava le caratteristiche stilistiche. A partire
dal trattato di Scacchi (1643), i teorici operarono una distinzione fra stile da chiesa, stile da camera e stile teatrale; questa
tripartizione stilistica veniva poi sovrapposta alla bipartizione tecnico-compositiva fra prima e seconda prattica, anche se
– in concreto – lo stile ecclesiastico ricorreva soprattutto all’antiquus, mentre quello teatrale al modernus.
La cantata da camera
Con l’affermarsi della seconda prattica, dopo il 1600 il madrigale iniziò a essere messo in musica in stile monodico con
basso continuo o addirittura in stile concertante; le composizioni iniziarono quindi a distinguersi in madrigali e arie. Nei
primi il testo è musicato da capo a fondo, senza strofe o ritornelli, con una netta stretta fra le parti; nelle seconde la parte
del basso si ripete a ogni strofa, mentre la parte vocale resta libera; il carattere ritmico, poi, è influenzato dalla musica
per danza. I madrigali polifonici iniziarono quindi il declino, brusco dal 1620; la crisi economica che affliggeva l’Europa –
causata dalla guerra dei Trent’anni – aveva intanto distrutto l’editoria italiana che aveva permesso la diffusione del
madrigale, ma d’altro canto gli stessi sommovimenti avevano aperto al barocco. Mutarono quindi produzione e fruizione,
soprattutto nell’ambito delle corti, dove professionisti e pubblico smisero di mescolarsi, e il madrigale polifonico – con la
sua natura intrinsecamente dialogante e paritaria – smise di essere soddisfacente. Lo soppiantò la cantata, termine
inizialmente indicante qualsiasi composizione cantata per una o due voci. Il termine comparì per la prima volta nelle
Cantade et arie di Grandi, che ebbe rapporti con Monteverdi a Venezia, dove appunto fu pubblicata la sua raccolta prima
del 1620 (seconda edizione). Le tre cantate si distinguono dalle altre composizioni per il maggior grado di libertà formale:
nelle arie, infatti, la stessa musica viene riproposta senza cambiamenti in tutte le strofe, mentre nelle cantate solo il basso
è ripetuto identico, mentre la melodia varia a ogni strofa (cantata su basso strofico). Il desiderio di classificare la musica
è un’esigenza moderna; ben presto, le cantate si articolarono in strutture complesse, e la distinzione fu tra sole tre sezioni:
stile recitativo, stile arioso e arie. Per semplificare, si può immaginare la cantata come un contenitore di dimensioni
mutevoli a seconda della committenza, ma in ogni caso essa era eseguita da un solo cantante (o due, come nel duetto da
camera), accompagnato dal basso continuo ed eventualmente altri due strumenti (solitamente violini). Il testo poetico
riguardava argomenti amorosi o sacri, e nella seconda metà del Seicento assunse sempre più il carattere di monologo
cantato, generalmente da un personaggio arcadico, convenzionale o letterario. La cantata assumeva così contenuto
teatrale, e ogni aria rappresentava una certa situazione psicologica, costringendo la musica a ricorrere alla più ampia
tavolozza espressiva possibile. In mancanza di azione si doveva fare ancor più affidamento sulle capacità dei cantanti, e il
solista passava dalla narratività dei recitativi al prorompere delle passioni. In breve, la cantata riepilogava le caratteristiche
della musica barocca: monodia con basso continuo, tendenza alla rappresentatività e volontà di muovere gli affetti. Culla
della cantata Roma: qui, in mancanza di una corte laica, la curia cardinalizia e il suo monarca – il papa – ne divennero il
centro. Lo stesso ruolo imponeva la promozione della sola musica sacra, ma l’eleggibilità del “sovrano” faceva sì che le
famiglie aristocratiche si contendessero il soglio pontificio, che portava fama e potere (nepotismo). I casati in lotta
(Colonna, Borghese, Barberini) consideravano quindi la musica indispensabile, e mantenevano nel proprio palazzo un
gruppo di musicisti. La concorrenza rese la Roma del Seicento terreno fertile per le sperimentazioni e l’accoglienza di
tipologie musicali sempre nuove, così i compositori migravano da un palazzo all’altro sulla base delle disponibilità
economiche dei signori, per arrotondare le entrate. Questi dovevano quindi essere versatili, in grado di produrre musiche
per usi e circostanze diverse. La cantata divenne uno dei generi più richiesti, facendo la fortuna di Rossi, Marazzoli e
Scarlatti. Questo accadde perché il minuscolo organico necessario per la cantata non ne rendeva dispendiosa
l’esecuzione, affidata spesso ai musicisti di palazzo; in secondo luogo lo stile raffinato rispondeva alle nuove esigenze
estetiche; infine, i testi erano spesso composti da mecenati di corte, il che rendeva l’ascolto particolarmente piacevole. Il
vivo scambio culturale era piuttosto insolito per l’epoca, ancor più considerando la bassa dignità intellettuale allora
attribuita ai musicisti. Nei primi decenni del Settecento, comunque, l’interesse si spostò verso il teatro d’opera, i cui
meccanismi impresariali minavano il rapporto mecenatistico. Il patriziato romano smise di assumere musicisti, tendendo
invece a recarsi nei teatro d’opera; status symbol divenne così così presenziare alle stagioni operistiche, e l’unico spazio
per le cantate rimase quello celebrativo: pezzi d’occasione, spesso con ampi organici, eseguiti non più in camera ma in
occasioni pubbliche e solenni. La sonata barocca
Frescobaldi aveva fatto sì che la musica strumentale entrasse nella tradizione scritta, appropriandosi della finalità
seicentesca del muovere gli affetti, e a tale scopo aveva iniziato a gestire personalmente le risorse dello stile musicale
idiomatico. La canzone da sonar cinquecentesca non era però svincolata dalla musica vocale, in quanto discendente dalla
chanson vocale parigina, ma agli inizi del Seicento – nella stessa area veneziana, quella di diffusione della canzone – iniziò
ad apparire il termine sonata, inizialmente sinonimico della canzone da sonar: anche la sonata, in effetti, adottava talvolta
una forma in più sezioni metricamente contrastanti, e in vari casi il ritmo dattilico. Nel 1600-1630, però, più del 90% dei
compositori di canzoni strumentali consisteva in organisti, mentre gli autori di sonate erano quasi sempre professionisti
di altri strumenti. Essendo l’organo polifonico, l’organista aveva solitamente un’educazione musicale completa, mentre i
violinisti conoscevano in maniera specifica soltanto il proprio strumento, e nutrivano scarso interesse per composizione
e polifonia. Un genere polifonico e vocale come la canzone da sonar non li coinvolgeva; al contrario, la sonata ne accolse
le esigenze. Nella prima fase la sonata impegnava diversi esecutori, che poi diminuirono: nel XVII secolo l’uso comune
divenne quello della sonata a tre, con tre parti strumentali impiegate: due strumenti monodici (violini, ma anche flauti) e
basso continuo, dunque con un numero di esecutori variabili (il basso può essere realizzato da un solo strumentista o da
molti); ma altra tipologia frequente era quella della sonata a due, dove lo strumento monodico sostenuto dal basso
continuo è uno. I primi esempi di questi due generi sono dovuti al milanese Giovanni Paolo Cima, e se Lombardia e Veneto
sono considerate culla della sonata, a metà Seicento furono Modena e Bologna a produrre un vasto repertorio.
Arcangelo Corelli (1653-1713), istruitosi musicalmente a Bologna, si trasferì a Roma a vent’anni. Divenne presto uno
dei massimi violinisti della città, e prestò servizio presso i tre maggiori mecenati: Cristina di Svezia e i cardinali Benedetto
Pamphilj e Pietro Ottoboni. Dal 1684 iniziò a servire regolarmente Benedetto, che lo assunse nel 1687. La forza della sua
produzione fu una delle cause per cui la predilezione dei contemporanei si spostò dalla sonata a tre verso quella a due:
da Corelli a Torelli, infatti, la scrittura per strumento solista si fece sempre più virtuosa, e tale repertorio divenne uno dei
trampolini dei grandi compositori-violinisti, fra cui Vivaldi. A fine secolo la destinazione d’uso divenne un criterio per la
differenziazione del repertorio della sonata: sia la sonata a tre che quella a due poteva essere “da chiesa” o “da camera”,
e le diverse possibilità influenzavano lo stil