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CAPITOLO 13. LA CRISI DEL RINASCIMENTO E TASSO
Innovazioni e repressioni Il secondo Cinquecento è dominato dal Rinascimento, e dal punto di vista linguistico
rappresentò il periodo in cui tutte le lingue romanze assunsero fisionomia di lingue ufficiali. La supremazia del latino era
terminata, e la diffusione della stampa comportò il bisogno di uniformare ortografia, grammatica e vocabolario. Le lingue
volgari divennero l’unico strumento, e lo attesta la compilazione di lessici (Crusca, Venezia 1612). Il risorgere della filosofia
antica e il sentimento di una coscienza libera furono alla base della Riforma, che con Lutero e Calvino spezzò in Europa
l’universalità della Chiesa. Questo rappresentò per l’Occidente la fine dell’unità religiosa, ma anche l’origine delle
principali idee dello Stato moderno, come la libertà di coscienza e la tolleranza. La traduzione della Bibbia di Lutero, poi,
costituisce oggi la base del tedesco letterario moderno. Anche la Chiesa cercò quindi di compiere – in senso conservativo
– uno sforzo, e questa la Controriforma (Concilio di Trento, 1545), avviata con l’istituzione dei Gesuiti. Questa non indebolì
però il Protestantesimo, e servì soltanto ad ammodernare la Chiesa; con le sue idee, però, mise in crisi il Rinascimento.
L’orizzonte intellettuale europeo si era allargato con la scoperta dell’America (1492), e matematici e astronomi
(Copernico) provarono che la terra non costituiva il centro dell’universo, ma solo un pianeta del sistema solare, a sua
volta uno fra tanti. Tali scoperte non furono immediatamente recepite dalle masse, ma la scoperta di nuovi continenti –
abitati da uomini con propri usi e costumi – scosse abitudini e opinioni (de Montaigne, Bruno). Fu sconvolto l’ordine del
mondo fino ad allora spiegato dalle dottrine ecclesiastiche, il che diede corso a potenti reazioni: la vera crisi del
Rinascimento, infatti, si ebbe con la Controriforma. Mancò quindi un umanesimo cristiano, che riformasse la Chiesa, e di
fronte allo scisma – luteranesimo e calvinismo – i cattolici, sotto Paolo III, risposero con la fondazione dell’ordine gesuita
e con il concilio di Trento. Da un punto di vista ideologico questo corrispose a una grave repressione (il sant’Uffizio a
Roma), da uno culturale e artistico diede origine al Barocco.
Giordano Bruno (1548-1600) Le idee luterane e calviniste non ebbero diffusione in Italia, dove mancò l’appoggio delle
masse; circolarono invece in ristretti ambienti intellettuali, a Napoli, Lucca, Siena, Ferrara, Modena, Verona e Venezia,
ma la tendenza alla repressione (eretiche, anticlericali e paganeggianti) portò ad arresti, morti e fughe. La reazione
cattolica procedeva poi direttamente e indirettamente: con l’istituzione dell’Indice dei libri proibiti (Decameron), la
fondazione di accademie sorvegliate dall’autorità pontificia e con l’apertura di una tipografia vaticana. Tra le vittime illustri
Bruno, indicato dalla critica laica ottocentesca come martire del libero pensiero; la sua vita, tuttavia, oggi è stata liberata
dagli elementi leggendari. È noto che fu dominata dalla preoccupazione di trovare un accordo con le istituzioni, in cambio
della libertà di sviluppare e manifestare le proprie idee filosofiche; un’illusione che dovette vivere tanto nei paesi cattolici
quanto in quelli riformati.
Nato a Nola, Bruno studiò a Napoli e prese gli ordini religiosi; già nel 1576, però, ebbe i primi dubbi sulla fede cristiana, e
iniziò un peregrinaggio attraverso le università d’Europa. Si definì sempre un accademico di nessuna Accademia, e
combatté per Copernico contro Tolomeo (fu il solo copernicano prima di Galilei) e contro Aristotele e la scolastica, il che
lo costrinse ad abbandonare la Francia. Bruno fu soprattutto vicino agli ambienti erasmiani, antitrinitari e razionalisti,
inegualmente diffusi in Europa, pur prendendo contatti con luterani e calvinisti; tornò comunque a Venezia chiamatovi
da Giovanni Mocenigo, che voleva da lui apprendere l’arte della memoria, ma anche per l’aspirazione a ottenere la
cattedra di matematica di Padova (1591). L’anno successivo fu però arrestato, e nonostante gli anni di processi e udienze
non rinnegò mai le proprie teorie, arrivando perfino a rifiutare il crocefisso dal patibolo, prima di essere arso vivo. In
sostanza, Bruno costruì la propria dottrina sul concetto di infinito, e fu il primo ad affermare l’infinità dell’universo,
sostenendo che la teoria copernicana non era un’ipotesi matematica bensì una teoria cosmologica ed effettiva realtà
delle cose. Una posizione tale, ovviamente, comportava una eterodossia verso il tradizionale ordine gerarchico del
mondo, il che metteva in crisi lo stesso rodine gerarchico della società. L’attribuzione all’universo dell’infinità, e quindi la
negazione della mancanza in esso di un centro, implicava l’identificazione di esso con Dio; si giungeva quindi a una sorta
di panteismo, e con la posizione bruniana la filosofia rinascimentale della natura faceva una scoperta essenziale. Se non
è quindi sempre possibile individuare in Bruno un sistema organico, è comunque evidente in lui un sentimento unitario,
il cosiddetto eroico furore con cui gli intellettuali del Rinascimento solevano affrontare i problemi, dando insieme
soluzioni e carattere estetico, atto a sviluppare tutte le implicazioni umane. Tale entusiasmo – in sostanza manifestazione
del concetto di infinito – portò Bruno alla lotta continua con le istituzioni.
Della sua produzione, in continuo aumento date le scoperte continue, si ricordano quelle in italiano, distinte in Dialoghi
metafisici (Londra, 1548; La Cena de le ceneri, De la causa, principio e uno e De l’infinito, universo e mondi) e Dialoghi
morali (Parigi, 1549; Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo pegaseo e De gli eroici furori). A questi si aggiunse
una commedia che Bruno pubblicò a Parigi nel 1582, il Candelaio. Spesso trascurata è un’opera teatrale oggi rivalutata
per il suo impasto linguistico (plebeo e raffinato insieme) e in quanto spazio teatrale allargato all’infinito, coincidente con
la stessa vita. Essa si svolge a Napoli in una notte sola, e vengono rappresentate – attraverso Bonifacio, Bartolomeo e
Manufrio – tre forme di pazzia dell’umanità: amore, alchimia e pedanteria. Mentre la goffaggine del vecchio amoroso sta
nell’inversione della sua libidine, che lo trasforma da omosessuale a etero, nell’avaro non c’è la ripresa degli schemi
plautini quanto la rappresentazione dello scienziato rinascimentale, che dalla manipolazione di una presunta polvere
miracolosa s’aspetta il principio dei tesori. Il pedante, infine, è divenuto la grottesca incarnazione dello spirito polemico
e anticonformistico di Bruno. L’opera che meglio rende l’intera figura del filosofo è però lo Spaccio, dialogo a sfondo
mitologico di contenuto morale, dove – sotto specie di purgazione del cielo dalle costellazioni – è rappresentata la
purgazione dell’anima. Bruno si augura che le bestie dello zodiaco vengano cacciate dal cielo, e sostituite dai nobili segni
delle virtù; nella prosa accesa del dialogo si avvertono poi toni che lasciano intravedere il barocco ormai prossimo, e una
commistione di stili che è la rappresentazione della commistione fra lirico e comico, quel sublime concettuale che ha
bisogno della forma negativa dell’opposto per esprimersi.
Torquato Tasso (1544-1595), con la sua Gerusalemme Liberata, è spesso stata posta a confronto con l’Orlando Furioso
di Ariosto. Un confronto che vide addirittura Galilei schierarsi con il secondo, ma che in realtà è fuorviante: Tasso nacque
undici anni dopo la morte di Ariosto, e il contesto storico e culturale in cui i due vissero fu del tutto differente. Ariosto
visse la crisi del Rinascimento, con un’eredità umanistica ancora forte, mentre Tasso si inserì nell’età della Controriforma,
in cui la pienezza concettuale e stilistica de Cinquecento va ordinandosi nella trattatistica, nella codificazione dei generi
e nei galatei; il primo aveva ancora un margine per la libertà sperimentale, il secondo subì la cristallizzazione delle
istituzioni esemplari: la Corte, simbolo di tutti i princìpi della vita politica e della cortesia mondana, e l’Accademia,
emblema delle norme del pensiero e delle discipline letterarie. Tasso divenne poi un personaggio simbolo della sventura
e della dissociazione psichica in età romantica, poi vittima della Controriforma, e addirittura oggetto di ricerche
frenologiche in età positivistica. La Gerusalemme Liberata contiene poi molti elementi che indulgono ai desideri di un
pubblico universale (suppliche di Armida a Rinaldo, inseribili in un arco che va dalle preghiere di Didone a Enea fino a
oggi), e questo mostra come la commozione ha di fatto stravolto ogni interpretazione storicamente valida. Ricostruire la
vera personalità del poeta è quindi stato uno dei maggiori obiettivi della critica moderna. Sradicato presto dalla nativa
Sorrento, il poeta cercò nell’Italia lacerata il proprio luogo; questo, la corte, era ormai puro fasto formale, minato dalla
precaria situazione storico-politica, e a Ferrara – dove visse a lungo – la decadenza era acuita dalla presenza
dell’Inquisizione, che aveva dissolto il circolo di Renata di Francia. Rimanevano feste, spettacoli e dispute, quella
cortigianìa celebrata dal Castiglione, mentre al contrario si faceva strada l’arte diplomatica della dissimulazione. Lo
scontro con la realtà, poi, generò in Tasso lo slancio della sua poesia patetica ed eroica al contempo.
Tasso fu figlio di un poeta, un Bernardo autore dei cento canti dell’Amadigi, e studiò a Salerno e a Napoli; il padre divenne
presto segretario di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, e quanto questi – ribelle – dovette fuggire, Bernardo lo
seguì a Roma, presto raggiunto da Tasso. Intanto la madre fu avvelenata, forse da alcuni parenti, e anche per questo nel
1557 padre e figlio si trasferirono nella corte di Urbino. Qui Tasso perfezionò la sua educazione, scrisse i primi
componimenti poetici e iniziò la stesura del Gierusalemme, poema epico sulla prima crociata rimasto fermo alle prime
centosedici ottave. Attorno ai vent’anni studiò diritto a Padova, poi a Venezia pubblicò i dodici canti del Rinaldo, un
poema. A Padova frequentò poi l’accademia degli Eritrei, e qui lesse dialoghi e orazioni, per dedicarsi poi alla
composizione di versi d’amore, dedicati a Lucrezia Bendidio (damigella della principessa d’Este) e Laura Peperara (figlia
di un mercante). Durante il soggiorno padovano compose e lesse i tre Discorsi dell’