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III: GLI ANNI DELL’ESORIDIO DAGLI SCENARI ALLE COMMEDIE REGOLARI
Il racconto dell’esordio teatrale avviene sulla scia dell’esaltazione drammatica: nel 1733, infatti, a venticinque
anni Carlo compone la tragedia per musica Amalasunta che, secondo la sua stessa testimonianza, viene
bruciata in uno scatto d’orgoglio di fronte alle critiche dei lettori accademici, al cui giudizio si era sottoposto in
un pellegrinaggio d’iniziazione, da Venezia a Milano. Nello stesso periodo in cui Carlo si dichiara deluso per
le incongruenze del sistema professionale e le incomprensioni da parte dell’accademia, ha modo di
confrontarsi con una teatralità meno sofisticata, quanto diffusa nel mondo quotidiano; infatti, entra in contatto
con il complesso fenomeno della ciarlataneria, collaborando con il geniale Buonafede Vitali. Non si sa con
precisione se l’incontro abbia avuto luogo nella città lombarda, oppure, più probabilmente, l’anno prima, nel
1732, a Venezia; il resoconto goldoniano mostra una dubbia sicurezza nel collocare l’evento. Vitali ha alle
sue dipendenza una “compagnia completa di commedianti, che montavano in banco con esso lui, e si
frammischiava egli nelle loro burlette”. Vi fanno parte attori eccellenti, quali il Pantalone Francesco Rubini e
Gaetano Casali, detto Silvio; per costoro Goldoni scrive uno dei suoi primi intermezzi per musica. Il
gondoliere veneziano ossia gli sdegni amorosi, basandosi anche sulle abilità canore dei comici.
La collaborazione che il giovane avvocato instaura con gli attori di Vitali dà i suoi frutti su tutti i fronti; ma,
prima di tutto, può dare prova della sua abilità poetica, attraverso alcuni interludi musicali di stampo
popolare, a partire dal duetto sul tema del contrasto d’amore, certamente pubblicato per la prima volta a
Milano con il titolo I sdegni amorosi tra Bettina putta de campiello e Buleghin barcariol venezian in lengua
veneziana. Un altro esperimento teatrale collegabile, più o meno direttamente, al rapporto con il gruppo
dell’Anonimo è costituita dall’intermezzo per musica La birba, di certo messa in scena il 24 novembre 1734,
nel Teatro San Samuele, dalla compagnia di Giuseppe Imer.
Carlo Goldoni incontra il Truffaldino Antonio Sacchi nel 1738, quando costui è scritturato dal Teatro di San
Samuele nella compagnia Imer, insieme alla sorella Adriana, Smeraldina, e alla moglie Antonia, la seconda
donna, in arte Beatrice. Affascinato dalla loro bravura, prepara alcuni scenari all’improvviso: Cento e quattro
accidenti in una notte e Le trentadue disgrazie di Arlecchino. Sono intrecci congegnati in modo da
moltiplicare le situazioni ridicole e il gioco degli equivoci, sono storie utili a mettere in risalto le loro doti
inventive. Nel 1742 poi, il gruppetto dei Sacchi lascia bruscamente il teatro, violando le clausole del contratto
che li lega alla famiglia Grimani; anche se non si conoscono le ragioni di tale repentina partenza, vanno in
Russia, dove permangono soltanto un anno.
Un fatto merita di essere ricordato: nel 1745, mentre si trova a Pisa per esercitare la professione di
avvocato, Goldoni ricevette una richiesta di collaborazione da parte del bravo Truffaldino, che era tornato a
recitare al San Samuele. E’ in tale occasione che il poeta prepara Il servitore di due padroni. Quando nel
1753 Goldoni decide di stampare la commedia dopo averne completato le parti mancanti, ribadisce come,
nel vedere la commedia recitata da altri Zanni, non abbia riscontrato più la fine prontezza di spirito e la
sorprendete naturalezza di Sacchi, nonostante la sua abitudine ad eccedere nell’uso di parole sconce e lazzi
sporchi.
Dietro le quinte dei teatri settecenteschi, nei quali i comici ripropongono senza tregua le trame delle loro
favole paradossali, oppure nelle stanza delle locande dove sostano, si perfeziona l’apprendistato dei nuovi
attori. E’ un lavoro silenzioso e costante, che non si scorge dall’esterno perché rientra nell’ambito della
quotidianità dell’arte; se ne possono cogliere i segni soltanto quando un vecchio commediante consegna la
maschera o passa il proprio ruolo al suo successore. L’abitudine a collaborare si lega alla necessità di
affinare le tecniche d’improvvisazione, di adattare la recitazione ai differenti pubblici a cui lo spettacolo è
destinato.
Anche l’apprendistato può essere considerato un viaggio che ogni bravo attore compie, fin dal suo ingresso
nella compagnia, allo scopo di sviluppare un’ampia gamma di virtù sceniche; se da un lato occorre
specializzarsi in un ruolo fisso, dall’altro è necessario dare al proprio carattere un’impronta personale, saper
parlare un linguaggio immediatamente riconoscibile dal pubblico. Alle spalle di Antonio Sacchi s’avverte non
solo l’insegnamento paterno, ma anche la genialità dello zio, il napoletano Gennaro Sacco. E’ certo però che
fin dagli esordi la carriera di Antonio è contrassegnata da una particolare capacità mimico-acrobatica.
Sacchi, come la maggior parte degli attori settecenteschi, ambisce ad affermarsi sui palcoscenici di Venezia.
La città lagunare ha da tempo sperimentato una formula efficace di gestione teatrale, un meccanismo basato
sulla vendita dei palchi e sul pagamento di un ingresso per assistere agli spettacoli. Il palcoscenico
veneziano offre lungo tutto il XVIII secolo un confronto serrato fra tradizione e innovazione. Antonio Sacchi
appartiene interamente al mondo del recitare all’improvviso, al punto che nessuno dei tre grandi poeti comici
del Settecento lagunare, Goldoni, Pietro Chiari e Carlo Gozzi, con i quali Truffaldino collabora in tempi
diversi, riuscì a piegarlo alle loro regole; ciascuno di essi, comunque, dovette riconoscere in lui le qualità
della migliore scuola rappresentativa.
Anche l’abate bresciano Pietro Chiari assume l’impegno di scrivere commedie per i teatri dei Grimani, per il
San Samuele e il San Giovanni Grisostomo, ha modo di verificare l’eccezionale natura istrionica di Sacchi; le
parti a lui destinate debbono restare necessariamente sotto forma di indicazione didascalica. Oltre l’involucro
della sicurezza scenica, Antonio Sacchi dispone di una sapienza pratica, in cui si mescolano spunti rubati
dai libri; non mancano neppure i riferimenti alla cultura classica, alla poesia, e alla filosofia, ai pensieri di
Seneca, Cicerone e Montaigne. Il suo segreto consiste, forse, nel sapere amalgamare gli spunti colti con il
linguaggio quotidiano, i modelli letterari con il parlato diretto. La misura di un tale procedimento creativo, che
si realizza direttamente sulla scena dinanzi agli occhi del pubblico, è data da un bisogno di mobilità che
spinse da un luogo all’altro, fino alla conclusione della sua vita; in linea con tanta irrequietezza.
Il Truffaldino, stanco forse delle chiassose polemiche lagunari accetta nel 1753 l’invito di recarsi a Lisbona a
servizio del re del Portogallo, senza badare, neppure stavolta, ai vincoli contrattuali. Radunata la compagnia
s’imbarca per questa nuova meta; decisione presa dopo aver valutato la situazione teatrale veneziana, che
proprio in questi anni registra una sostenuta concorrenza fra le compagnie comiche, tutte di buon livello.
Eppure l’immagine di un nucleo di piccoli attori che recitano testi goldoniani assume un significato ambiguo:
da un lato, i loro giochi teatrali divengono un pretesto per far conoscere il commediografo veneziano in terra
portoghese, dall’altro però, rivelano come Sacchi agisca a suo piacimento sui testi poetici fino alla
mistificazione. E considerando la forza riformistica del lavoro di Goldoni, una simile scelta sembra ribadire la
supremazia assoluta dell’attore-protagonista, che dispone a suo piacimento di un bagaglio scenico più o
meno illimitato.
Una volta a Venezia la compagni di Antonio Sacchi torna a trionfare al Teatro di San Samuele; il rientro del
Truffaldino è salutato con eccessivo entusiasmo dal conte Carlo Gozzi, che gli rivolge un omaggio poetico
con la Tartana degli influssi per l’anno bisestile 1756.
Durante la fase di collaborazione con la compagnia di Giuseppe Imer, a partire dal 1738, Goldoni sperimenta
alcuni soluzioni sceniche originali, collocandosi a metà strada fra il professionismo dei comici e
l’elaborazione di una commedia cittadina veneziana diffusa e apprezzata in ambito lagunare. Dal punto di
vista tematico e, ancor di più, sul terreno linguistico si mette alla prova la tenuta del tradizionale schema dei
ruoli fissi; trattandosi di una produzione rivolta all’ambito veneto, una delle figure su cui si addensa
l’attenzione è quella di Pantalone. La perdita di slancio della commedia dell’arte ha raggelato la maschera
del mercante veneziano nell’immagine di un vecchio avaro e ridicolo, sempre pronto a correre dietro le
giovani donzelle, sospinto più da un impulso a dominare che da sollecitazioni erotiche.
Nelle annotazioni autobiografiche Carlo evidenzia l’attenzione che pone nel studiare i tratti distintivi di
ciascun attore. Nelle Prefazioni Pasquali offre un resoconto dettagliato degli individui presenti nella
compagnia; nel 1739, quando fa il suo ingresso nel gruppo Francesco Bruna, detto Golinetti, Goldoni non
esita a rivelare il suo entusiasmo per tale acquisto.
Sulla base di una trama narrativa di ambientazione cittadina, l’occhio del poeta comico dapprima scopre le
doti di un interprete, poi le affina, fissando le coordinate di sviluppo in una successione di comportamenti
teatrali.
La trilogia di commedie per Golinetti, vale a dire Momolo cortesan, Momolo sulla Brenta e Il mercante fallito,
subirà una profonda trasformazione a molti anni di distanza, non sono nel titolo Momolo cortesan diventa
L’uomo di mondo, Momolo sul Brenta diventa Il prodigo e Il mercante fallito diventa La bancarotta, ma
soprattutto nella vicenda e nei tratti dei personaggi. L’autore dichiara la necessità di eliminare e ripulire sulla
pagina le intemperanze orali e le tirate d’attore.
Il commediografo veneziano prende le distanze dalle esagerazioni di rappresentazioni rivolte a spettatori di
varia estrazione, non sempre disposti a cogliere lo slancio di un esperimento drammatico e più propensi ad
essere blanditi da una recitazione allusiva. Intanto, sulla pagine stempera l’impegno espressivo che, a
partire dalla coppia Sacchi-Golinetti, si era tradotto in un buon successo sul palcoscenico del San Samuele;
nello stesso tempo, lo scrittore, sembra rifiutare i modelli precedenti, tacciandoli di contenere le immoralità
da cui, invece, si preoccupa di restare immune.
Entro la cornice di un’accesa venezianità, segnata dall’elemento acqueo, dal labirinto urbano e dalla
presenza di figure caratteristiche, il giovane mercante Momolo fa il suo ingresso sulla poppa di un
“battelletto”.
Pantalone rivela, fin dalle prime battute, un t