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SENECA E LA POESIA
G. Mazzoli
1. Principi teorici della citazione
Per cogliere la ragione teoretica delle citazioni letterarie senecane conviene risalire
all’esame d’una questione di metodologia filosofica: i rapporti da decreti e precetti. Al dibattito
dell’argomento Seneca dedica due Epp. contigue, 94 e 95, in cui il filosofo discute, definisce e
rimposta continuamente il medesimo tema. Per Seneca, l’institutio, cioè la filosofia contemplativa,
l’insegnamento filosofico teorico, precede per decreta; l’admonitio, cioè la filosofia activa,
l’esortazione pratica, si vale dei praecepta. Seneca dunque distingue l’etica in due parti
fondamentali: la prima è quella che riguarda i principi morali di più generale portata, la seconda è
quella “che porge a ciascuno i consigli adatti al suo caso particolare e non mira a dare all’uomo
una formazione morale complessiva”, ma si limita a fornirgli indicazioni e rimedi utili, pur se di
valore ristretto e specifico. I decreti espongono i principi teorici e universali della filosofia etica; i
precetti esprimono i consigli pratici e particolari. Nella prima delle due epistole sono due le tesi
contrastanti. Una accorda preferenza assoluta alla parenetica, trascurando l’institutio come del
tutto priva di utilità (sottintendiamo il disaccordo di Seneca). L’altra, l’esatto contrario, è da lui
ascritta ad Aristione di Chio. Costui sostiene la scarsa importanza e la superficiale efficacia della
parenetica, in quanto chi conosce perfettamente la teoria generale sa anche applicarla da solo ai
vari casi della pratica. E c’è pure una terza posizione, intermedia tra le due, quella di Cleante: il
quale ritiene utile anche la parte precettiva, ma solo se sostenuta da una adeguata conoscenza
dell’altra. Seneca accorda il proprio appoggio alla saggia via di mezzo, la tesi di Cleante. Egli
riconosce l’importanza d’una base etica teorica. I precetti da soli non possono vivere. L’esistenza
stessa di concetti filosofici di difficile comprensione, privi dell’evidenza necessaria ai precepta e
bisognosi di spiegazioni razionali, indica la necessità dei decreti. Gli esempi morali specifici
concretizzano e imprimono nell’animo le complesse astrazioni teoriche dei decreti, conferendo loro
la vita e l’attualità di cui hanno bisogno per assolvere i propri compiti di educazione spirituale.
2. Genesi della citazione letteraria
La stretta simbiosi tra decreta e praecepta non ha valore per Seneca soltanto come metodo
filosofico ma anche come criterio stilistico. È interessante l’esame di due Epp., anch’esse contigue
ma brevissime, 38 e 39. Nella prima Seneca sottolinea l’importanza dello scambio epistolare con
Lucilio, affermando anzi utile intensificarlo. Esalta il valore della lettera filosofica, capace di
penetrare assai più a fondo negli spiriti rispetto ai pubblici dibattiti, fragorosi e poco spontanei.
Passa poi a spiegare i motivi che conferiscono efficacia a questo genere di scritti: e ci ritroviamo
davanti all’elogio dei praecepta. E assimila l’azione di questi precetti a quella dei semi: sia i semi
che i precetti, da una condizione iniziale di esiguità, finiscono col liberare forze e conseguenze
macroscopiche. Concisi germi di verità morale gettati nel terreno fertile dell’animo, i precetti
producono grandi frutti di virtù. All’inizio della seconda lettera Seneca sembra anticipare la
distinzione tra institutio e admonitio, tra decreti e precetti. Rileva la differenza che intercorre tra una
ratio ordinaria di composizione filosofica, cioè l’esposizione ampia e profonda, e il sistema del
commentarium o breviarium, detto summarium: tutti sinonimi per indicare il compendio di filosofia,
quel genere di trattatelli elementari di cui stigmatizza l’uso sempre più frequente tra i romani. Di
queste due rationes, la prima è quella necessaria per chi voglia giungere alla sapientia, la seconda
non sarebbe da sola sufficiente a procurarla e perciò la presuppone già conseguita; la prima
insegna realmente, la seconda funge da semplice supporto mnemonico. I concetti devono essere
in rapporto l’uno con l’altro. Seneca è pronto ad accordare il suo consenso ai precetti, di cui
conosce la proficuità; tuttavia desidera che siano non collezionati come cose morte e senza nesso
logico, ma coerentizzati nel contesto dei decreti. La materia del precetto filosofico, innestata nel
corpo dell’opera letteraria, acquista una precisa funzione stilistica, oltre che morale, e si
caratterizza come sententia. Carattere principale della sentenza in prosa sembra essere per
Seneca l’evidenza con cui esprime in precetto etico, conferendogli efficacia. Presentando con
sobria chiarezza buoni esempi morali, suscita nei lettori viva volontà d’imitarli. Seneca ne fa largo
uso negli scritti filosofici. E accanto alle proprie ne attinge esempi da ogni fonte, preferibilmente
stoica. Dunque Seneca appare disposto, ogni qualvolta incontri nelle opere altrui concetti adatti
alle esigenze della sua argomentazione, a trapiantarli nelle sue pagine, volutamente
trascurandone la provenienza. Quando una sentenza esprime concetti universalmente accettati sul
piano etico, merita di essere esaltata e citata, senza criteri discriminanti e senza che l’eventuale
bassezza del contesto da cui è attinta ne pregiudichi il valore assoluto.
3. La citazione poetica
Trasfuso nella struttura metrica, il contenuto dei precetti consegue per Seneca il massimo
di concentrazione espressiva e di efficacia morale. Quei medesimi elevati precetti che lasciano
freddo l’uditorio, non appena siano sottoposti a leggi ritmiche e vengano costretti entro precisi
schemi metrici, si imprimono come se scagliati da un braccio ben testo. Particolarmente per animi
non ancora dirozzati, grande è l’ausilio delle sentenze poetiche. Nei carmina Seneca scopre
presenti in elevato numero versi esprimenti concetti dell’etica stoica e valori ai quali sembra
assegnare anzitutto una funzione morale. In queste sentenze poetiche, che vanno direttamente al
vivo del fondo spirituale, Seneca doveva vedere il trionfo del bello etico. Nell’attingere dai poeti
prediletti la vasta serie di citazioni che costella le sue pagine, Seneca accanto al preponderante
fine morale sembra proporsi un altro intento: rivolgersi e dare impulso all’ingegno dei lettori,
facilitando loro la comprensione delle idee e conquistando il loro gusto. Questi concisi frammenti di
poesia si colorano di un’altra funzione: quella stilistica. Seneca, inoltre, sembra sempre apprezzare
la poesia più come strumento di progresso etico che come mezzo di puro svago e distensione;
proprio in questo continuo sforzo edificante si rivela il suo fondamentale moralismo. Perché le
citazioni poetiche meritino l’attenzione del filosofo conviene che le loro due funzioni principali –
stimolo morale e alleggerimento stilistico – si accompagnino e si sorreggano l’una con l’altra. Egli
sembra esaltare il valore dalla poesia filosofica vera e propria, cioè dei carmi composti
personalmente dai filosofi: gli unici che sappiano respingere le vuote lusinghe formali e si
ripropongono di assoggettare alle severe leggi metriche solo i concetti salutari ed essenziali. Basti
pensare, a tal proposto, alle tragedie senecane: nella loro trama la componente gnomica domina
su quella poetica; nei loro versi la sentenza trae da ogni occasione lo spunto per emergere e
brillare di luce etica. I personaggi portano sulle spalle il fardello del simbolo morale e la loro vita
individuale e umanità ne restano spesso oppresse. Nei caratteri, intrecci, dialoghi, si concretizzano
i precetti dello stoicismo. Ma il carmen etico sentenzioso non è certo originale di Seneca: egli
stesso, subito dopo averla formulata, la riconduce a Cleante, il secondo scolarca della Stoa.
POETI LATINI DEL PERIODO IMPERIALE: VIRGILIO
L’apprezzamento di Seneca per la poesia virgiliana è altissimo e palese: l’intera sua opera,
infatti, fiorisce di un patrimonio di allusioni, reminiscenze e tonalità virgiliane. Delle citazioni dirette
si hanno statistiche abbastanza precise. Dal punto di vista filologico, sono state oggetto di studio
soprattutto le varianti che le citazioni di Seneca presentano rispetto alla tradizione diretta: varianti
da imputare principalmente a interferenze o sviste mnemoniche. Che Seneca citasse Virgilio a
memoria è opinione quasi generale e attendibile. Ma sarebbe semplicistico spiegare tutte le sue
varianti come lapsus accidentali. Non sono infrequenti i casi in cui esse sono intenzionali, motivate
da ragioni di grammatica, di stile o di contenuto. Sul conto di Virgilio, Seneca si pronuncia
frequentemente, con un entusiasmo che non conosce ombre. Infatti l’attributo che più spesso
accompagna il nome del poeta nella sua opera è noster: attributo da assumere soprattutto come
orgogliosa constatazione della romanità del poeta. Questo giudizio compendia i tre punti essenziali
in cui si articola la posizione critica senecana di fronte a Virgilio: 1) la sublime ispirazione
conferisce ai versi più alti del Mantovano un carattere oracolare e rende il poeta assimilabile a un
vates
, a un profeta ; 2) il suo carmen eccelle quanto a valore salutare ; 3) Virgilio è senza riserve il
maximus tra i poeti
. Il passo virgiliano in cui Seneca sente la più alta voce poetica è nel terzo libro
delle Georgiche, in cui vi sono versi altamente commossi, che cantano e profetizzano la perenne
tragedia del destino umano. Soprattutto la mesta sentenza iniziale, che ricorda a quale esiguo
frammento della vita si riducano i giorni della felicità: è appunto il carmen pronunciato nel De
brevitate vita, dal maximus vates; inoltre nell’Epistola 108, Seneca esorta con fervore a penetrarne
il profondo significato oracolare. L’universale salutarità della poesia virgiliana è poi schiettamente
riconosciuta nella Consolatio ad Polybium. Come si spiega il debito di gratitudine contratto
dall’umanità nei confronti di Virgilio? Illuminante è in proposito l’Epistola 108: il celeberrimo
emistichio delle Georgiche, “fugit inreparabile tempus”, viene qui assunto come campione da
sottoporre a due ben diversi metodi di “lettura”, quello filologico-grammaticale e quello filosofico.
Per la prima volta Virgilio viene preso in esame come un vero classico, del tutto idoneo ad
affiancare o addirittura a soppiantare i due più rinomati poeti del passato, Omero ed Ennio. Per
classico intendiamo un autore ritenuto degno, in base a definiti criteri di portata universale,
d’essere assunto come oggetto d’accurata analisi e studio devoto. Delle due, Seneca considera
con freddezza e avversione quella grammaticale; rifiuta una critica attenta ai soli valor