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RINASCIMENTO
Maurizio Campanelli, Maria Agata Pincelli
Dal quaderno di un ignoto studente romano è riemersa una “foto di gruppo” dei professori di
retorica dello Studium Urbis risalente all’inizio degli anni ’80, forse all’anno accademico 1480-81; si
tratta di una breve lettera, traccia per un esercizio di traduzione in latino; i professori citati sono i
seguenti: Pomponio, Filetico, Volsco, Marco, Tito Manlio e Sulpitio. La foto di gruppo è in realtà
una caricatura, che associa i nomi dei più affermati professori dello Studio ai testi sui quali nella
scuola medievale si imparavano i primi rudimenti del latino: il Doctrinale di Alessandro de Villadei, il
Dittochaeon di Prudenzio, il Liber Aesopi, il Salterio, la Ianua, la Chartula, gli epigrammi di
Prospero d’Aquitania. Nella goliardica ironia che lo caratterizza, il breve testo lascia trasparire
alcuni motivi che interessano tutta la storia degli studia humanitatis a Roma nel Quattrocento, quali
il rapporto tra l’insegnamento scolastico e quello universitario, la definizione dei programmi, i tempi
e i modi della lezione, la circolazione dei libri necessari all’insegnamento. Quando lo studente
scriveva la sua letterina, all’inizio degli anni ’80, la cultura umanistica aveva ormai vinto, almeno
sul piano teorico, la lunga battaglia contro metodi e strumenti della scuola medievale. Ma quei testi
continuavano ancora ad essere usati, sia pure sempre più marginalmente. Gaspare da Verona è il
primo professore di retorica dell’Università di Roma del cui insegnamento ci siano giunti dei
materiali significativi; la sua carriera romana era iniziata nel 1445 e terminò soltanto nel 1474, anno
della morte.
Leggere i classici a Roma fu una meta alla quale mirò un gran numero di umanisti. Roma
era la patria del latino e di tutta la cultura che in quella lingua si era espressa durante l’antichità;
Roma era la sede del pontefice e della Curia, che avevano assicurato al latino la sopravvivenza
durante i secoli bui del Medioevo e continuavano ad assicurargli un posto centrale nella vita
culturale dell’intera Europa. Lorenzo Valla insegnò nello Studio romano a partire dal 1450; del suo
magistero romano resta l’orazione inaugurale dell’anno accademico che egli recitò il 18 ottobre del
1455. In quest’orazione Valla si diffonde in un articolato elogio del latino, lingua madre di tutte le
discipline liberali. Le discipline nell’antichità hanno potuto svilupparsi e raggiungere la perfezione
grazie all’impero universale di Roma, che ha assicurato l’unità linguistica, presupposto
indispensabile di ogni progresso umano; la fine dell’impero ha quindi segnato l’inevitabile declino
delle discipline, andate in rovina con l’abbandono del latino nelle vecchie province romane d’Asia e
d’Africa; in Europa la cultura è invece stata salvata dalla sede apostolica, che ha preservato il
latino in quanto lingua sacra della religione cristiana. La Curia romana è dunque il centro non solo
spirituale, ma anche fisico dell’intera Europa, la comune patria elettiva di tutti gli uomini di cultura.
In quegli anni a Roma era ancora molto forte la contrapposizione tra il pontefice e l’antico
notabilato municipale, che aveva gestito il potere nella città durante i lunghi decenni dell’assenza
della Curia da Roma, ed ora se ne vedeva progressivamente esautorato; lo Studio, tradizionale
appannaggio della municipalità, era uno dei terreni di più forte tensione tra le due parti in conflitto.
Valla era giunto alla cattedra universitaria come uomo della Curia ed era inviso ai Riformatori dello
Studio, esponenti del ceto municipale. Il suo elogio della Curia, proiettato su un piano universale,
serviva anche alla lotta politica cittadina. Negli ultimi anni del pontificato di Sisto IV, Andrea Brenta,
altro professore di retorica che aveva nella Curia i propri referenti culturali e politici, fu chiamato a
tenere un’analoga prolusione; era l’autunno del 1482. Brenta fu meno audace del Valla e lodò una
per una le varie discipline, ma premise al tutto un elogio della lingua latina. L’esito era un appello
all’orgoglio della romanità. Le parole di Brenta mostrano che il tema stava diventando topico, ma
nel caso specifico esso serviva anche ad esorcizzare una realtà tutt’altro che serena, in cui lo
scontro politico si era trasformato in scontro militare e rischiava perciò di portare ad un’interruzione
dell’attività stessa dello Studio. Più oltre, Brenta fa anche un breve elogio di Roma, celebratissima
per gli esempi e gli insegnamenti degli antichi e dei moderni e fiorentissima negli studi di tutte le
arti liberali. Nel 1518, in pieno pontificato di Leone X, il fiorentino Zanobi Acciaiuoli, altro professore
di retorica dello Studio, scrisse e recitò un’Oratio in laudem Urbis Romae. Ogni velleità politica
della vecchia aristocrazia romana si era ormai spenta; i più si erano integrati in Curia. Nell’orazione
dell’Acciaiuoli ritorna il tema del latino come lingua comune dei dotti di ogni parte del mondo e
soprattutto come lingua materna delle arti e delle discipline liberali. L’idea di una Roma centro della
cultura europea è anche per loro un motivo di vanto. L’armonia prospettata dall’Acciaiuoli è tanto
irreale quanto significativa di una situazione politica profondamente mutata rispetto a quella che
aveva caratterizzato quasi tutto il Quattrocento. Nel 1512, verso la fine del pontificato di Giulio II,
era stato chiamato ad insegnare nello Studio romano Giovan Battista Pio, uno degli umanisti più
prestigiosi che si trovavano in quegli anni sul mercato accademico italiano. Succedeva a Pietro
Marso, un professore che si era formato alla scuola di Pomponio Leto, la più lontana dagli ambienti
pontifici, e che a Roma aveva svolto tutta la sua carriera accademica. Lo Studio era ormai
completamente nelle mani del pontefice. Le parole di esordio dell’orazione con cui inaugurò il suo
insegnamento romano ripetono i motivi della città domicilium sapientiae e del sincretismo tra la
Roma dei Cesari e quella dei Papi, confermando il cristallizzarsi di questi temi in topoi. Nella già
citata orazione inaugurale di Brenta, quello dei professori universitari è un quadro senza ombre.
Ma in altra sede lo stesso Brenta si era espresso in maniera esattamente opposta. La lettere al
cardinale napoletano Oliviero Carafa, suo patrono, dipinge lo Studio come un luogo dove regnano
insolenza, arroganza, ignoranza. In realtà la testimonianza della lettera al Carafa non è meno
letterariamente costruita di quella della prolusione. Non è neppure possibile considerarla
espressione di un sentimento privato poiché la lettera al Carafa andò in stampa in un incunabolo
senza note tipografiche intorno al 1482, lo stesso anno in cui Brenta tenne la sua orazione
inaugurale. Brenta non è l’unico a fornire un ritratto dello Studio dal volto duplice. Più
immediatamente legato a risentimenti personali è il giudizio di Martino Filetico, professore di greco
e di retorica nello Studium Urbis tra il 1468 e il 1483. Attaccato da alcuni suoi colleghi, identificabili
in alcuni membri dell’Accademia pomponiana, il Filetico, che pure aveva precedentemente
rappresentato lo Studio come una nuova scuola d’Atene, denuncia la presenza di uomini “per nulla
letterati, capaci di ogni cosa turpe e vizio”. Una lettera al Tortelli del giugno 1449 ci presenta un
Valla assai lontano dalle speculazioni sul ruolo dell’Impero e della Curia nella storia della cultura. In
quell’epoca Valla non era ancora professore nello Studio, ma teneva lezioni private in casa sua.
Dopo aver vissuto nella stessa abitazione con la madre, la sorella e il cognato, Valla si era
trasferito nel complesso edilizio dell’Università. Nella lettera al Tortelli descrive minutamente le
peripezie che la sua nuova sistemazione aveva comportato e ancora comportava. Le speranze del
Valla sono tutte riposte in Niccolò V, previa intercessione del Tortelli. L’anno successivo era
passato ad insegnare retorica nell’Università, in concorrenza col Trapezunzio e in difesa di
Quintiliano, idolo polemico del maestro greco, che fu presto indotto a cambiare aria, essendo
divenuta per lui insostenibile la convivenza col Valla.
L’istruzione universitaria nella Roma umanistica e rinascimentale era completamente
gratuita per gli studenti, né risulta che vi fossero numeri chiusi o altre forme di sbarramento
nell’accesso ai corsi. E gratuita era anche l’istruzione di base, affidata a dei maestri di grammatica
che dipendevano dallo Studio ed erano anch’essi, come i professori universitari, pagati con i
proventi della gabella vini forensis, che fu presto detta gabella Studii; ogni rione di Roma (in tutto
tredici) aveva il suo maestro di grammatica. Alla struttura pubblica si affiancavano gli insegnamenti
impartiti da maestri privati. In una realtà molto più piccola di quella odierna, il passo dalla
dimensione privata a quella pubblica e viceversa poteva essere breve. Nel 1449 Gaspare da
Verona dichiarava di aver insegnato per quattro anni nello Studio e di trovarsi momentaneamente
a riposo. In realtà Gaspare non era del tutto a riposo, ma impartiva lezioni private su classici di
base. I professori dello Studio venivano confermati di anno in anno tramite l’iscrizione nel rotulo,
una sorta di ordine degli studi pubblicato all’inizio dell’anno accademico. Ma a Roma c’erano
anche professori che tenevano corsi privati parallelamente all’insegnamento pubblico. Domizio
Calderini, ad esempio, professore nello Studio dal 1470 al 1478, teneva lezioni pubbliche e private
sullo stesso autore, forse perfino nello stesso anno accademico. Il suo non doveva essere un caso
isolato, dal momento che è possibile accostargli un’analoga notizia riguardante Pomponio Leto, il
quale teneva lezioni private nella sua celebre casa sul Quirinale. La compresenza di pubblico e
privato doveva verificarsi anche a livello dell’insegnamento inferiore, quello dei maestri rionali, che
presentava un quadro certamente ancor più fluido di quello universitario. Il fatto che i professori
universitari e maestri rionali dipendessero dalla medesima istruzione favoriva la mobilità fra i due
livelli. Nel 1481 Paolo Pompilio risulta essere maestro di grammatica nel rione Campo marzio,
l’anno successivo figura tra i professori di retorica dello Studio. Ma poteva verificarsi anche il caso
inverso. Tra le molte polemiche che caratterizzarono la vita dello Studio nel Quattrocento, una
delle più eclatanti fu quella che oppose Domizio Calderini ad Angelo Sabino. I due colleghi
pubblicarono quasi contemporaneamente di commenti a Giovenale, frutto delle loro lezioni,