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Essendo i placiti dei documenti ufficiali, possiamo essere certi della datazione di questi documenti,
che
risalgono agli anni tra il 960 e il 963.
I giudici che amministravano la giustizia e che quindi dovevano decidere sulla proprietà di queste
terre
erano i giudici del Principato di Benevento e Napoli, di una zona cioè in cui era ancora molto forte
l’impronta Longobarda. Questi giudici si trovano a dover mettere in pratica una legge che era stata
emanata dal re longobardo Astolfo nel 754 che prendeva le mosse da delle situazioni,
probabilmente
assai frequenti, di contrasto per la rivendicazione di proprietà terriere e da parte di signori
longobardi e
da parte di amministrazioni religiose (monasteri, conventi, ecc.).
I Longobardi scesero in Italia nel 568, regnarono per due secoli finché non furono sottomessi dai
Franchi. Pipino, re dei Franchi e padre di Carlo Magno, venne chiamato dal papa, che era in
contrasto
con i Longobardi, e prima sottomise Astolfo, poi il suo successore Desiderio; infine Carlo Magno,
nel
763, sconfigge definitivamente Desiderio assumendo egli stesso il titolo di Rex Longobardorum.
I Longobardi erano un popolo germanico che scese in Italia senza aver conoscenza della lingua
latina né
degli usi latini, ma che molto presto si rese conto che per avere un effettivo dominio sul territorio
italiano
doveva venire a patti con la Chiesa (ma mantenere i patti con la Chiesa non fu mai semplice, tant’è
vero
che alla fine il papa chiese aiuto ai Franchi per liberarsi delle aggressioni dei Longobardi) e —
cosa
molto importante — doveva avere la conoscenza del latino e anche dell’amministrazione latina.
Così, le
leggi di cui facero uso i Longobardi erano basate sul diritto romano in cui si innestavano però
norme del
diritto longobardo. Una di queste leggi era quella promulgata da Astolfo che stabiliva in sostanza
che un
longobardo possessore di una proprietà terriera che gli veniva contestata da un’amministrazione
religiosa, dimostrando di aver posseduto quella proprietà terriera per trent’anni poteva conservarla
e
poteva quindi considerarla di sua proprietà. Nel corrispettivo, la legge stabiliva anche che qualora
fosse
stata un’amministrazione religiosa ad avere una terra rivendicata da un longobardo, dimostrando di
averla posseduta per trent’anni, anch’essa poteva considerare il terreno di sua proprietà. Questa
legge
emessa da Astolfo faceva, in pratica, uso di un elemento giuridico del diritto romano, che è
l’usucapione.
Per questa norma, se si è in possesso (ma non proprietari) di un bene per più di trent’anni senza
che
nessuno lo reclami, si diventa anche proprietari di quel bene di cui si è venuti in possesso, anche
senza
mai acquistarlo.
Nel momento in cui l’abbazia di Montecassino va in giudizio per rivendicare il possesso di alcune
terre,
possesso che veniva rivendicato anche da dei signori discendenti dei longobardi, la
preoccupazione
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dell’abbazia è quella di produrre dei testimoni che possano affermare che le terre rivendicate
anche dai
signori longobardi erano state per trent’anni sono state possedute dall’abbazia di Montecassino —
ed è
questo il nucleo della testimonianza giurata che verrà resa.
Dobbiamo considerare una cosa molto importante dal punto di vista storico-linguistico, e cioè che
questi
Placiti campani o capuani o cassinensi, sono considerati la prima attestazione scritta di un volgare
di area
italiana. Non possiamo usare l’espressione di « volgare italiano », perché a quest’altezza
cronologica non
c’è un solo volgare unificato, come poteva essere il castigliano o il francese, ma un volgare di area
italiana (nel caso specifico, di area meridionale) nettamente differenziato dal latino. Una situazione
del
genere, oltretutto testimoniata in una forma analoga, è proprio quella dei Giuramenti di Strasburgo,
dove
abbiamo il primo esempio di volgare francese, assieme a quello tedesco (che però da un punto di
vista
linguistico non c’interessa), all’interno di un testo latino, da cui si differenzia decisamente.
Nei placiti troviamo ugualmente, in un giudizio di tribunale scritto in latino, delle formule in volgare.
Ci
troviamo di fronte a due situazioni originate dalla stessa necessità: in un momento in cui la lingua
ufficiale è ancora il latino e gli strumenti sono ancora redatti in latino, quando si presentavano
situazioni
che richiedevano la percezione precisa da parte di tutti, anche di coloro che il latino non lo
conoscevano, s’iniziava a ricorrere al volgare. Ad un certo momento, si comincia a ricorrere al
volgare
quando i termini delle questioni devono essere chiari anche a chi il latino non lo capisce.
La differenza tra il Giuramento di Strasburgo e i Placiti campani è cronologica: i Giuramenti sono
dell’842, i Placiti sono del 960-63, a centoventi anni di distanza. Come mai in area italiana
l’esigenza di
esprimersi in volgare, insieme al latino, è venuta fuori più di un secolo dopo? Perché in Italia non
c’erano le condizioni culturali e politiche che c’erano nella Francia successiva alla riforma di Carlo
Magno. La riforma di Carlo Magno aveva fatto sì che il latino venisse riportato alla sua norma
classica,
creando un distacco tra il latino classico e il volgare imbarbarito. Proprio perché il latino classico
non
veniva più compreso dal volgo; infatti, già nell’813, anno che precede la morte di Carlo Magno
(avvenuta nell’814), il Concilio di Tours — considerato il concilio delle lingue romanze — delibera
all’unanimità che il vescovo insegni in volgare, affinché sia compreso da tutti, e quindi invita a
tradurre
(transferre) dalla « romanam linguam » (il latino) o in « rusticam » (volgare) o in « teudiscum »
(tedesco) le omelie, quindi nelle uniche due lingue parlate nei territori di Carlo Magno. I Giuramenti
di
Strasburgo mettono in evidenza proprio questa necessità.
La stessa cosa succede in Italia, ma 120 anni dopo, perché in area italiana non era venuta meno
la
competenza, almeno passiva, da parte del volgo, di percepire il latino. L’Italia è storicamente il
luogo di
irradiazione della lingua latina e c’è la Chiesa, quindi ci sono delle condizioni particolari che non ci
sono in altre parti dell’Europa. Qui il latino, meglio protetto, si è mantenuto e anche chi non parlava
latino era quanto meno in grado di capirlo. Questo ha rallentato il procedimento di differenziazione
tra
latino e volgare. D’altronde, non c’era stata una realtà politica unificante, anche a livello linguistico,
come era successo in Francia. L’Italia era ancora un mosaico di realtà politiche diverse: al nord
c’erano i
Franchi, che erano subentrati ai Longobardi; lungo l’Adriatico e nel meridione c’erano i Bizantini;
c’era
la Chiesa; c’era una persistenza di Longobardi nel meridione. Era una situazione in cui non c’era
alcuna
unificazione linguistica e nessuna politica culturale unitaria come c’era stata per la Francia. Questo
fatto,
insieme a quello che in Italia bene o male il latino si capiva, ha fatto sì che la necessità
dell’inserimento
del volgare nei testi latini si verificasse assai più tardi che in Francia.
Nei Placiti le formule di giuramento, circa il possesso dei terreni dell’abbazia di Monte Cassino,
sono
espresse dai testimoni che, nel caso specifico, sono due monaci (uno è monaco, l’altro è diacono e
monaco), quindi persone che il latino lo conoscevano. Come mai, allora, recitano la loro
testimonianza
in volgare e in volgare viene trascritta dal segretario del giudice? Perché evidentemente non
dovevano
essere solo le due parti a conoscenza del giudizio, ma anche il pubblico. Non è, infatti, neanche
certo
che i due monaci abbiano reso la loro testimonianza in volgare, perché probabilmente era più
consono
per loro parlare in latino, ma per queste situazioni giudiziarie esistevano delle formule latine su cui
era
modellata l’espressione in volgare.
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Il testo
Et tunc fecimus eos separari [ab] imbicem: predictum Teodemundum diaconum fecimus duci in
partem
unam, et memoratum Garipertum clericum et notarium duci in parte alia; predictum Mari clericum
et
monachum ante nos stare fecimus, quem monuimus de timore Domini, ut quod de causa ipsa
veraciter
sciret indicaret nobis. Ille autem, tenens in manum predicta abbrebiatura, que memorato
Rodelgrimo
hostenserat, et cum alia manu tetigit eam, et testifìcando dixit: « Sao ko kelle terre, per kelle fini
que ki
contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti ». Deinde ante nos benire fecimus
predictum
Teodemundum diaconum et monachum, quem similiter monuimus de timore Domini, ut quicquid
de
causa ista veraciter sciret diceret ipsos. Ille autem, tenens in manum predicta abbrebiatura, et cum
alia
manu tangens eam, et testificando dixit: « Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta
anni le
possette parte sancti Benedicti ».
Allora li facemmo separare l’uno dall’altro, e facemmo allontanare da una parte il predetto
Teodemondo
diacono, e allontanare da un’altra parte il menzionato Gariberto chierico e notaio, e facemmo
restare
innanzi a noi il predetto Mari chierico e monaco e lo ammonimmo che sotto il timor di Dio ci
precisasse
quel che della questione sapesse in verità. Egli, tenendo in una mano la predetta memoria
prodotta dal
sopra menzionato Rodelgrimo, e toccandola con l’altra mano, rese la seguente testimonianza: «
So che
quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso
l’amministrazione
patrimoniale di San Benedetto ». Poscia facemmo venire innanzi a noi il predetto Teodemondo
diacono
e monaco, e similmente lo ammonimmo che sotto il timor di Dio dicesse tutto quel che della
questione
sapesse in verità. Ed egli, tenendo in mano la predetta memoria, e toccandola con l’altra mano,
rese la
seguente testimonianza: « So che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni
le ha
tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto ».
L’inizio è proprio la descrizione della situazione che si sta svolgendo nell’ “aula del tribunale” di
Capua,
diremmo noi, redatta dal giudice Arechisi (invece il giudice di Sessa Aurunca si chiama Maraldo,
men