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MA…
1. Bisogna fare attenzione a non dare troppi stimoli, ma adeguarli alle caratteristiche del
bambino, al suo stato in un determinato momento. Questo significa che spesso è arbitrario e
artificioso dare un codice di condotta e che non c’è un buon modo di essere genitori, ma
bisogna anche affidarsi all’esperienza e al buon senso che si basa in parte sulla spontaneità e
in parte sulla capacità di trasmissione intergenerazionale che viene spesso compromessa
dall’isolamento della famiglia dalla cerchia parentale più allargata. Altre volte, il sapere dei
nonni, viene svalutato dall’accumulo di nuove conoscenze che sono spesso in rottura con la
tradizione.
Di fronte alle grida dei propri figli, i genitori si sentono giudicati e fanno di tutto per
tranquillizzarli senza sapere che tante stimolazioni diverse contribuiscono spesso
all’eccitazione e accrescono la confusione del bambino, che si esprime appunto piangendo.
2. È vero che il narcisismo del bambino porta a sperimentare sicurezza, ma è comunque
necessario imporre un limite a questa illusione di onnipotenza verso la fine dei primi 6 mesi
di vita e deve continuare per i primi 2-3 anni, in particolare al momento del pieno sviluppo
motorio. Bisogna far capire al bambino che l’oggetto desiderato non è sempre là dove lo
vorrebbe e non arriva subito appena richiesto: l’esperienza dello scarto, della differenze e
dell’attesa è indispensabile. L’obiettivo dell’educazione, infatti è quello di ex-ducere,
portare il bambino fuori da sé per insegnargli che gli oggetti del mondo non sono
unicamente al suo servizio.
A partire dagli anni ’70 le manifestazioni di autorità hanno iniziato ad avere una cattiva
fama e i genitori erano sempre più restii nel dover imporre dei limiti ai propri figli. In quegli
anni si confondeva il principio di autorità con i suoi eccessi che erano sì nocivi per lo
sviluppo del bambino. In questa resistenza ad usare l’autorità c’è anche una posta in gioco
affettiva, farsi voler bene dal proprio figli senza che questo preferisca l’altro genitore. È
necessario differenziarsi dalle persone senza cadere nel conflitto due contro uno e assumersi,
quando è necessario, il rischio di una perdita temporanea di amore da parte del bambino.
Per molti genitori, questa esperienza sembra particolarmente difficile, in particolare quando
non sono sicuri della loro relazioni di coppia e sembrano più preoccupati di salvaguardare la
continuità della relazione filiale che di aver fiducia in una relazione coniugale dal futuro
incerto.
IL PREZZO DELLA PERFEZIONE: UN’INFANZIA RUBATA?
Bambino re:
-ricco di competenze affettive e cognitive
-vulnerabile di fronte agli eccessi di autorità
-fulcro della famiglia ------------〉 corrisponde un bambino ideale
-desiderato e atteso dai genitori
-fonte di appagamento per i bisogni affettivi dell’adulto.
Questa idealizzazione si paga a caro prezzo: quello di una minaccia sulla condizione del bambino
in quanto soggetto ancora incompiuto, imperfetto, la cui imperfezione è il principale marchio
umano. Infatti, come si constata nelle richieste sociali di oggi, se il bambino non è più guadato
come un adulto in divenire, diventa un prodotto che deve corrispondere alla lista ella spesa a carico.
La conseguenza immediata è che il bambino si istituisce come un soggetto a pieno titolo. I diritti del
bambino lo proteggono non solo da tutti i soprusi di cui sono vittime, ma gli garantiscono anche il
diritto all’infanzia.
Un bambino, infatti, non è niente da solo, mentre è tutto per ciò che può diventare appoggiandosi a
ciò che gli sta intorno, a una storia che gli conferisce senso.
Cap. 5 – L’AUTORITà DEL LEGAME SOCIALE
L’autorità sociale è costitutiva del rapporto tra gli essere umani e deriva dall’autorità dei genitori.
Cacciare l’elefante
Gli esseri umani sono animali sociale e dalla loro socievolezza hanno ricavato a potere; proprio
questo fatto li differenzia dagli animali. Infatti, l’uomo da solo è particolarmente vulnerabile,
soprattutto se paragonato agli animali.
La tecnica dello stare in gruppo per difendesi e cacciare che gli ha garantito la sopravvivenza, ha
richiesto la comunione dei mezzi, la specializzazione e la gerarchizzazione dei ruoli, il
coordinamento e la capacità di comunicazione. Nella caccia, la dipendenza dal gruppo doveva
essere massima e il successo dell’impresa e la sopravvivenza di tutti, dipendevano dalla stretta
obbedienza a regola stabilite.
PUNTARE IL DITO
Il linguaggio è apparso nell’ Homo sapiens, ma affonda le radici nell’ Homo erectus.
Comunicare non vuol dire semplicemente rispondere a dei segnali, ma si trattar di prevedere in
anticipo delle azioni e di scambiare delle intenzioni e ciò implica di poter condividere delle idee.
Secondo Sperber, tale capacità avrebbe addirittura preceduto quella di decodificazione di un
qualsiasi codice comunicativo e si è formata passando per 3 differenti step.
1. L’osservatore, deduce dal comportamento di un individuo, un’esperienza negativa e
pericolosa per lui. Avviene quindi una condivisione di pensiero, uno scambio di
informazione, ma non una vera e propria intenzione di informazione.
2. L’individuo si assicura di essere osservato e quindi c’è intenzione di informazione che può
essere sincera o ingannevole. La vera natura dell’informazione dipenderà dal legame di
relazione che esiste tra i due individui.
3. L’individuo desidera comunicare all’osservatore il suo stato mentale e farglielo condividere.
Attira quindi l’attenzione dell’altro, incrocia il suo sguardo e manda un segno simbolico.
C’è un intenzione comunicativa, ossia la capacità meta rappresentativa della comunicazione
stessa.
àl’attenzione congiunta e l’attenzione condivisa sono proprie della specie umana. Nell’attenzione
congiunta i protagonisti guardano insieme uno stesso oggetto e si assicurano di questa comunanza
di interesse; nell’attenzione condivisa, invece, incominciano attirando reciprocamente l’attenzione
dell’altro e poi si concentrano su un oggetto di attenzione comune.
La condivisione di sguardi è particolarmente importante nelle interazioni tra una madre e suo figlio:
è il processo dell’attribuzione di intenzione.
LA TEORIA DELLA MENTE
Verso i 10-12 mesi, il gesto accompagna la condivisione di attenzione.
• Verso i 12-18 mesi, il bambino non si limita più a tendere la mano, ma attira l’attenzione
• della madre anche guardandola e attraverso un abbozzo di frase. L’obiettivo di questo
comportamento non è più quello di ottenere l’oggetto, ma semplicemente di condividerlo
con lei.
Oggi sappiamo che il puntare il dito è un preliminare indispensabile all’apparizione del linguaggio
comunicativo, ossia all’uso del linguaggio da parte di un individuo per comunicare con un altro.
La teoria della mente sostiene che gli uomini sono in grado di interpretare delle azioni realizzate
dagli umani attribuendo loro delle intenzioni, ossia hanno delle rappresentazioni interne di ci che
l’altro pensa, grazie a un lavoro deduttivo e a partire da situazioni sperimentali.
A partire dai 4 anni, i bambini sono capaci di inferire l’ipotesi di una falsa credenza negli
• altri.
Il concetto di falsa credenza è alla base della teoria della mente: se A può attribuire a B una
credenza che lui, A, sa essere falsa, mentre invece B, tenuto conto della propria esperienza,
crede che sia vera, allora si può affermare che A costruisce un modello, una
rappresentazione del pensiero di B diversa dalla sua e perciò attribuisce a B una “teoria della
mente”. In un certo senso il vero non permette di differenziarsi, mentre la credenza, poiché
può rivelarsi falsa, autorizza la differenziazione tra gli individui e apre la via al processo di
identificazione individuale. È la base del processo inferenziale della comunicazione umane:
il destinatario di un atto di comunicazione cerca prima di tutto di inferire l’intenzione
comunicativa di chi ha emesso il messaggio e dà un senso al messaggio in funzione di ciò
che suppone riguardo a questa intenzione comunicativa: come abbiamo già detto,
comunicare non vuol dire soltanto decodificare, ma soprattutto inferire.
DAL PUNTARE IL DITO ALLO SCAMBIO
Il gesto del puntare il dito costituisce il legame tra la teoria della mente e il linguaggio in quanto
vettore privilegiato della comunicazione umana; questo gesto dimostra la dimensione
intersoggettiva della comunicazione, perché subito dopo i 2 partner si interpellano reciprocamente.
Nel gesto definito “protoimperativo” il bambino punta semplicemente la mano in direzione
dell’oggetto, ma questo gesto è interpretato dalla madre come una domanda a cui lei deve
rispondere sempre con delle parole e a volte con un comportamento, dando l’oggetto al bimbo.
Nel gesto “protodichiarativo” il bambino attira intenzionalmente l’intenzione della madre, con
uno sguardo condiviso o con un vocalizzo o una parola che ha il valore di richiamo, e lei gli
risponde con delle frasi.
Qualsiasi linguaggio, in una situazione di scambio tra due parlanti, è anzitutto la risposta a una
domanda, a un’intenzione preliminare di comunicazione e questa dimostra l’inserimento di ciascun
individuo in un legame sociale che è necessario alla sopravvivenza di tutti i membri del gruppo.
Questa condivisione di attenzione è specifica degli esseri umani e compare molto presto..
Nel corso del primo anno, la condivisione di attenzione è abituale e verso la fine del primo anno, lo
scambio di sguardi diventa per il bambino una guida preziosa. Il viso della madre è la prima
maschera di autorità che regola il comportamento del figlio.
Perché questo scambio possa organizzarsi in modo soddisfacente, sembrano necessarie diverse
condizioni: una vicinanza relativa, una ripetizione sufficiente di questo tipo di sequenza, una
coerenza nel contenuto. Infine, questo scambio deve essere coerente affinché il bambino ne ricavi
un senso coerente. Ad esempio, se la madre dice no, ma il volto è aperto e permissivo, ossia dice di
sì, il bambino si fa guidare dal senso preliminare e implicito della comunicazione, perché
l’espressione del volto passa sopra la proibizione formale. Ma grazie a questa contraddizione, la
madre insegna al figlio le distorsioni, le furbizie e le incertezze della comunicazione, ma è bene che
lo faccia solo dopo avergli dato la base di certezza necessaria per svi