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VERSI MARTELLIANI
Apri, o canora Musa, i boschi di Elicona,
E la tua cetra cinga d’alloro una corona.
Non or d’Eroi tu devi, o degli Dei cantare,
Ma solo la Minestra d’ingiurie caricare.
Ora tu sei, Minestra, de’ versi miei l’oggetto,
E dir di abbominarti mi apporta un gran diletto.
Ah se potessi escluderti da tutti i regni interi;
Sì certo lo farei contento, e volentieri.
O cibo, invan gradito dal gener nostro umano!
Cibo negletto, e vile, degno d’umil villano!
Si dice, che risusciti, quando sei buona i morti;
Ma oh detto degno d’uomini invero poco accorti!
Or dunque esser bisogna morti per goder poi
Di questi beneficj, che sol si dicon tuoi?
Non v’è niente pei vivi? sì mi risponde ognuno;
Or via sù me lo mostri, se puote qualcheduno.
Ma zitto, che incomincia furioso un certo a dire;
Presto restiamo attenti, e cheti per sentire.
E dir potrete vile un cibo delicato,
Che spesso è il sol ristoro di un povero malato?
Ah questo è uno sproposito, che deve esser punito,
Acciò che mai più possa esser da alcun sentito.
È ver, ma chi desidera la Dio mercè esser sano
Deve lasciar tal cibo a un povero malsano.
Piccola seccatura vi sembra ogni mattina
Dover mangiare a mensa la cara minestrina?
Levatevi, o mortali, levatevi d’inganno,
Lasciate la minestra, che se non è di danno,
È almen di seccatura. Ora da te, mia Musa,
Sia pur la selva opaca del tuo Elicone chiusa.
Io forse da qualcuno talor sarò burlato,
Ma non m’importa bastami, d’essermi un po’ sfogato.
Inizia con l’invocazione della musa della poesia, apostrofe contro la minestra, scambio
di battute tra l’io poetante e un’altra persona che difende le proprietà di questo cibo e
il congedo finale che è nuovamente indirizzato alla musa. Tono ironico e burlesco
contro questo cibo poco gradito.
Nel 1810 lettera scritta da Leopardi ad una signora recanatese, una nobildonna,
Volumnia Roberti, scritta per l’occasione della befana. In questa lettera Leopardi finge
di essere la befana e si firma come tale. Questa vena burlesca ritorna anche con
l’inserimento di parole non troppo consone.
“Carissima Signora,
giacché mi trovo in viaggio volevo fare una visita a Voi e a tutti li Signori Ragazzi della
Vostra Conversazione, ma la Neve mi ha rotto le Tappe e non mi posso trattenere. Ho
pensato dunque di fermarmi un momento per fare la Piscia nel vostro Portone, e poi
tirare avanti il mio viaggio. Bensì vi mando certe bagatelle per codesti figlioli, acciochè
siano buoni ma ditegli che se sentirò cattive relazioni di loro, quest’altro Anno gli porterò
un po’ di Merda. Veramente io voleva destinare a ognuno il suo regalo, per esempio a
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chi un corno, a chi un altro, ma ho temuto di dimostrare parzialità, e che quello il quale
avesse li corni curti invidiasse li corni lunghi.
Ho pensato dunque di rimettere le cose alla ventura, e farete così. Dentro l’anessa
cartina trovarete tanti biglietti con altrettanti Numeri. Mettete tutti questi biglietti dentro
un Orinale, e mischiateli bene bene con le vostre mani. Poi ognuno pigli il suo biglietto,
e veda il suo numero. Poi con l’anessa chiave aprite il Baulle. Prima di tutto ci trovarete
certa cosetta da godere in comune e credo che cotesti Signori la gradiranno perché
sono un branco di ghiotti. Poi ci trovarete tutti li corni segnati col rispettivo numero.
Ognuno pigli il suo, e vada in pace. Chi non è contento del Corno che gli tocca, faccia a
baratto con li Corni delli Compagni.
Se avvanza qualche corno, lo riprenderò al mio ritorno. Un altr’Anno poi si vedrà di far di
meglio.
Voi poi signora Carissima, avvertite in tutto quest’anno di trattare bene cotesti signori,
non solo col Caffe che già si intende, ma ancora con Pasticci, Crostate, Cialde, Cialdoni,
ed altri regali, e non siate stitica, e non vi fate pregare, perché chi vuole la
conversazione deve allargare la mano, e se darete un Pasticcio per sera sarete meglio
lodata, e la vostra Conversazione si chiamerà la Conversazione del Pasticcio. Frattanto
state allegri, e andate tutti dove io vi mando, e restateci finché non torno ghiotti,
indiscreti, somari scrocconi dal primo fino all’ultimo. La Befana”
Ci sono alte testimonianze che riguardano la sua vita da bambino. Secondo la sua
diretta testimonianza nei Ricordi di infanzia e di adolescenza, viene rievocato un
ragazzo con una fantasia fervidissima, con una capacità narrativa per cui le letture che
faceva venivano rielaborate e trasformate per creare nuove storie e racconti. Il parco
del palazzo era li luogo dei giochi e dei divertimenti in cui i bambini facevano finta di
essere gli eroi antichi che venivano rielaborato dallo stesso autore.
Pag. 63 fotocopie
“Compiacente e lezioso da piccolo ma terribile nell’ira e per la rabbia ito in proverbio
Tema ritorna a pag. 67 in cui parla dei giochi che faceva da bambino con i fratelli. Era
costume ritrovarsi nel dopocena a riunirsi e a conversare e i bambini giocavano tra
loro.
Leopardi parla di come si comportava da bambino e da come fosse tutte le volte
dispiaciuto quando i giochi venivano interrotti. Questa esperienza la trasporta su un
piano generale: dispiacere che si prova da bambini quando ci interrompono i giochi
per rifarci prendere la routine. Questo dispiacere non fa parte sono dell’infanzia ma di
tutta la dimensione umana. Nell’infanzia sperimentiamo le prime prove dell’esistenza.
“Allora mi parve la vita umana (in veder troncate tante speranze ec.) come quando
essendo fanciullo io era menato a casa di qualcuno per visita ec. che coi ragazzini che
v’erano intavolava ec. cominciava ec. e quando i genitori sorgevano e mi chiamavano
ec. mi si stringeva il cuore ma bisognava partire lasciando l’opera tal quale né più né
meno a mezzo e le sedie ec. sparpagliate e i ragazzini afflitti ec. come se non ci avessi
pensato mai, così che la nostra esistenza mi parve veram. un nulla, a veder la facilità
infinita di morire”.
Minaccia della fine della speranza che ritroviamo anche in A Silvia “all’apparir del
vero tu misera cadesti”. Percezione che si ha fin da fanciulli quando i giochi vengono
interrotti.
Rievoca la confusione della stanza: le sedie vengono utilizzate per fare il cavallo.
Dei suoi giochi con i fratelli parlerà dei giochi dei soldati.
Pag. 70 i maschi assumono i connotati degli eroi classici: rifiuta di interpretare Cesare
perché era un tiranno e preferisce interpretare Pompeo.
Queste finte battaglie che vengono fatte tra ragazzi, si manifesta il desiderio di gloria
di Leopardi, di aspirazione alla fama.
“Mio desiderio sommo di gloria da piccolo manifesto in ogni cosa ec. ne’ giuochi ec.
come nel volante scacchi ec., battaglie che facevamo fra noi a imitaz. delle Omeriche
al giardino colle coccole sassi ec. a S. Leopardo coi bastoni e dandoci i nomi omerici
ovvero quelli della storia romana della guerra civile per la quale io era
interessatissimo sino ad avermi fatto obbliare Scipione che prima ec. (e se non erro ne
aveva anche sognato davvero e non da burla come Marcio che diede ad intendere ai
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soldati d’aver veduto in sogno i due vecchi Scipioni ec.) e mio discorso latino contro
Cesare recitato a babbo e riflessioni su questo mio odio pel tiranno e amore ed
entusiasmo in leggere la sua uccisione ec., altre simili rappresentazioni che noi
facevamo secondo quello che venivamo leggendo, nota ch’io sceglieva d’esser
Pompeo quantunque soccombente dando a Carlo il nome di Cesare ch’egli pure
prendeva con ripugnanza.
Le letture vengono trasferite nel gioco della guerra che venivano fatti nella tenuta S.
Leopardo (tenuta di campagna della famiglia Leopardi). Utilizzano le bacche per
giocare. I giocattoli vengono inventati dai bambini.
I ricordi vengono registrati da Prospero Biani che alla fine dell’Ottocento li mise in
appendice nell’epistolario di Leopardi.
La capacità invettiva di Leopardi entra a far parte dell’indole dei fratelli.
L’infanzia percorre due binari: da una parte ci sono i giochi con i fratelli; dall’altra ci
sono i giochi che danno frutto a delle composizioni che non sono tutte dello stesso
tenore: orazioni in latine, poesie di derivazione ossianica, altre di tradizione arcadica.
Accanto a queste ci sono poesie scherzose come quella della minestra.
Gli studi vengono condotti nella biblioteca costruita da Monaldo. Proprio nel 1810,
anno delle poesie scherzose per Paolina, Giacomo è arrivato ad essere autonomo negli
studi, ad avere dei suoi progetti, a liberarsi dalla dipendenza dall’istitutore, Don
Sanchini. Comincia lui stesso a progettare i suoi studi tanto che, nel 1812, all’età di
14 anni, iniziano 7 anni di “studio matto e disperatissimo”. Sono gli anni
dell’adolescenza in cui il suo fisico comincia a manifestare i primi disagi, che lo
rendono una persona diversa. È segnato nel fisico e per questo è un diverso sia
fisicamente che intellettualmente. La sua grandezza intellettuale comincia a
manifestarsi in questo periodo.
Nel 1813 chiede e ottiene il permesso pontificio di poter leggere i libri proibiti. Impara
il greco e l’ebraico, senza l’ausilio di nessuno e comincia un’attività filologica in cui
raggiunse uno dei punti massimi. Questa sua capacità di studio dei codici, dei testi,
divenne famosa, per cui il suo nome cominciò a circolare fuori di Recanati e raggiunse
Roma. Lo zio materno, Carlo Antici, scrisse a Monaldo proponendogli di mandare il
figlio a Roma a studiare all’accademia ecclesiastica (facoltà di teologia), di modo che
potesse incrementare la sua competenza e intraprendere una strada che lo avrebbe
portato a diventare vescovo o cardinale.
In questi anni ancora Leopardi si identifica con le idee del padre anche se germoglia in
lui il desiderio di gloria e libertà. Saranno questi suoi desideri che diventeranno i
motivi per cui prenderà le distanze dal padre e cesserà il processo di identificazione
con lui.
Per Monaldo la scuola doveva essere improntata nello spirito di emulazione e per lui la
letteratura doveva servire come ornamento e aveva un grande valore morale e una
funzione religiosa, di sostegno al credo.
Da parte del figlio la letteratura diventa una dimensione di vita, un qualcosa di
assoluto. Ben presto entra in corrispondenza con studiosi che vivono all’esterno della
cerchia recanatese. Questo farà si che il luogo dov’è nato e cresciuto, diventerà presto
stretto per lui, dal quale desidera liberarsi ed uscire.
Già nel 1810, il rapporto con il padre comincia a cambiare: il p