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LEONARDO BRUNI
4 detto Leonardo Aretino. Non è sicuramente documentata la data della sua nascita, avvenuta comunque in Arezzo, ove la famiglia del padre
Francesco doveva godere di un discreto stato di fortuna e partecipare alla vita pubblica; un'antica tradizione, suffragata dalle indicazioni di alcuni
contemporanei e riproposta da H. Baron, pone tale data nel 1370. Non abbiamo alcuna sicura informazione sui primi studi del B., certo compiuti nella
città natale. Ancora giovanissimo probabilmente si trasferì (forse in seguito alle sventure politiche del padre, imprigionato nel 1384, dopo la conquista
di Arezzo da parte delle milizie francesi del de Coucy) a Firenze, dove studiò retorica con G. Malpaghini e forse iniziò anche gli studi di diritto,
preparandosi a una futura carriera di notaio o di cancelliere. Certo il B. godé presto dell'affettuosa amicizia del maggiore rappresentante della prima
generazione umanistica fiorentina, il cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati, che, allora, non era soltanto l'eloquente difensore di Firenze dalle
mire espansionistiche dei Visconti, ma il maestro e la guida di alcuni giovani intellettuali come Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini, Iacopo di Angelo
da Scarperia, Roberto de' Rossi, Palla Strozzi, decisi a continuare i nuovi atteggiamenti culturali indicati dal Petrarca, dal Boccaccio e dallo stesso
Coluccio.
Il rapporto di amicizia che unì il giovane letterato all'anziano e celebre maestro fu decisivo per i futuri orientamenti del B.: non si chiariscono certi
tratti peculiari dell'umanesimo bruniano, se non si ricorda che la sua formazione si compì in un ambiente intellettuale che aveva decisamente ripudiato
Leonardo Bruni traduce gli Economica di Aristotele, testo che ebbe una grande fortuna in
tutto il ‘400 e che tratta della conduzione della casa e della famiglia da parte della donna
mentre l’uomo è assente. Nasce ad Arezzo nel 1370, a Firenze entra in contatto con Salutati,
assiste alle lezioni di greco di Crisolora e compie delle traduzioni. Scrive il testo Laudatio
Florentino urbis, dove paragona Firenze ad Atene. Nel 1402 viene chiamato presso la curia
pontificia a Roma, si scontra con Iacopo Angeli da Scarperia perché entrambi come prova
d’assunzione dovevano scrivere una lettera al duca di Inghilterra, e Bruni anche se più
giovane risultò più capace.
le antiche tradizioni scolastiche e posto lo studio dei classici al centro di un nuovo modello di educazione umana, sotto la guida di un dotto che
considerava dovere essenziale dell'uomo di cultura l'impegno consapevole e meditato al servizio dei propri concittadini e della comune libertà. E
invero sempre, nel corso della sua lunga vita, pur tra vicende personali e politiche non sempre coerenti e lineari, egli restò sostanzialmente fedele
all'insegnamento del Salutati, accentuando anzi il carattere "civile" della propria vocazione umanistica. Tale carattere appare già delineato, sia pur con
limitata consapevolezza critica, nel primo scritto del B. pervenutoci, il Carmen de adventu imperatoris, che il Baron ha datato al 1397-98. Alla notizia
che l'imperatore Venceslao si prepara a scendere in Italia per riaffermare la propria sovranità, il giovane umanista risponde con un appello alla
tradizione e alla gloria romana del tutto astratto e utopistico. Ma, pur nella sua elegante misura letteraria, il Carmen resta il documento di un
umanistico fervore classicheggiante, ancora lontano da quella sicura meditazione politica che il B. più maturo saprà svolgere nello studio della storia e
della vita costituzionale e politica di Firenze. Né è improbabile che a spingere il B. verso tali temi e ideali abbia contribuito in quegli anni anche
l'amicizia con il Niccoli, il più tenace e deciso sostenitore di una cultura tutta foggiata sugli "exempla" e sui modelli antichi.
Il giovane aretino aveva intanto la possibilità di ampliare e maturare la sua formazione intellettuale attraverso il diretto contatto con le testimonianze
della civiltà greca: nel 1397, per opera del Salutati, giungeva a insegnare il greco nello Studio fiorentino M. Crisolora, e subito raccoglieva intorno a
sé i rappresentanti della giovane generazione umanistica. Tra i discepoli del dotto bizantino fu anche il B., il quale non esitò ad abbandonare lo studio
del diritto per dedicarsi interamente alle "litterae antiquae".
Purtroppo, non possediamo altri elementi per ricostruire più esattamente l'attività e gli studi del B. tra gli ultimissimi anni del sec. XIV e il 1405, né vi
sono testimonianze che permettano di indicare con certezza i suoi rapporti con le tendenze più radicali del nuovo classicismo umanista o di fissare
sicuramente la datazione delle sue opere giovanili, che sono pure documenti importantissimi dei suoi studi, delle sue predilezioni intellettuali, dei suoi
atteggiamenti morali e politici. Incerti sono infatti i rapporti cronologici che intercorrono tra i due Dialogi ad Petrum Paulum Istrum, dedicati cioè a P.
P. Vergerio, e la Laudatio fiorentinae urbis (già citata nel secondo Dialogus): per il Luiso e il Sabbadini ambedue i Dialogi sarebbero stati composti
nel 1401, e la Laudatio nel 1400-1401; il Baron, invece, data il primo Dialogus al 1401 e il secondo al 1405-1406, ponendo nel periodo intermedio la
stesura della Laudatio. Sicché il B., per il Baron, avrebbe esordito nel 1401 con il primo Dialogus, atteggiato secondo l'intransigente classicismo del
Niccoli e ispirato a una sostanziale indifferenza nei confronti dei risvolti politici della polemica sulla grandezza di Dante, Petrarca e Boccaccio;
sarebbe poi passato ad esaltare nella Repubblica fiorentina il fermo baluardo della "pax" e della "libertas"; avrebbe infine sviluppato l'idea della
funzione culturale e civile di Firenze, celebrando nei tre massimi poeti del secolo passato gli annunziatori del rinnovamento umanistico. A tali
conclusioni è stato obiettato che il carattere letterario dei due Dialogi, legati a un genere retorico (i discorsi pro e contro), molto diffuso nell'ambiente
umanistico fiorentino, rende discutibile una netta cesura temporale tra essi. Sta di fatto che alcuni dati filologici, sottolineati dal Baron, indicano un
preciso rapporto tra la stesura dell'opera e gli sviluppi della complessa situazione intellettuale e politica della nuova generazione umanistica fiorentina.
E resta accertato che la Laudatio e i Dialogi non sono soltanto documenti letterari essenziali per comprendere le idee allora correnti nel maggior
centro umanistico italiano, ma anche testimonianza delle prime origini di alcuni temi destinati a dominare a lungo l'intera storia della cultura
umanistica.
Non a caso, infatti, il motivo centrale della Laudatio è proprio la ripresa di un argomento che il Salutati aveva spesso adoperato nelle lettere scritte in
nome della Repubblica, durante i periodi più duri della guerra milanese; l'esaltazione di Firenze come unica valida difesa delle "libertà" cittadine, anzi
esempio perfetto di città-stato naturalmente avversa a ogni disegno egemonico e predestinata, sia alla sua tradizione storica sia dalla stessa situazione
geografica, a costituire la salvaguardia dell'equilibrio italiano e di quei principî di autonomia e indipendenza sui quali si fonda la prosperità delle
"civili repubbliche". Appunto per questo il B. insiste sul parallelo tra Firenze e l'antica Atene e prende come modello il Panathenaicus di Elio Aristide,
di cui si giova per celebrare il primato intellettuale di una città che unisce il culto delle lettere a quello della libertà. Non basta: la Laudatio sottolinea
energicamente il carattere cittadino dello Stato fiorentino, che lo rende così simile alla polis greca e, insieme, descrive la città toscana come una città
ideale, costruita secondo un progetto razionale, entro una prospettiva geometrica che comprende e definisce la sua stessa funzione storica. Firenze è il
"cuore" di un'intera regione che da esso trae i suoi impulsi vitali e il proprio ordine civile. Al punto focale di questa prospettiva, che fa gravitare su
Firenze tutto un vasto e "naturale" dominio, sta il palazzo dei Signori, presidio di una convivenza umana retta dalla norma divina della legge; in esso
le magistrature continuano la virtù originaria della Roma repubblicana, di cui Firenze può giustamente considerarsi l'erede. Tutta la storia di Firenze è
esaltata dal B. sotto il segno della "libertas reipublicae", di un antico e perenne odio contro ogni dispotismo. Delineando un tema destinato a grande
fortuna non solo nella tradizione umanistica, ma in un costante filone della riflessione politica europea tra Quattrocento e Settecento, egli contrappone
insomma all'idealizzazione della monarchia cesariana, svolta da taluni umanisti settentrionali, l'apologia della città prudente e benefica, del piccolo
Stato indipendente. Sicché la vittoria fiorentina nella dura prova delle ultime guerre è vista dal B. come il frutto del libero sistema costituzionale che
Firenze ha saputo crearsi, con logica e armoniosa coerenza, per sviluppare e rafforzare la sua naturale vocazione alla libertà. È inutile insistere sul
carattere apologetico della Laudatio o sulla stretta connessione operata dal B. tra gli ideali filologici, letterari e storici del nascente umanesimo e la
difesa di una tradizione repubblicana individuata nella Roma di Bruto e di Catone e nella sua "discendenza" fiorentina. Più giova osservare come una
simile prospettiva sia assai diversa da quella dominante nel primo dei Dialogi ad Petrum Paulum Istrum, considerato da taluni studiosi come la più
drastica espressione della rivolta umanistica contro il recente passato e il manifesto di un classicismo intransigente e consequenziale. In effetti, già nel
Proemium il B. dichiara di volere presentare un quadro veritiero delle dispute che allora appassionavano i giovani amici e discepoli di Coluccio e di
proporsi di "conservare il più fedelmente possibile il carattere di ogniuno dei protagonisti", e in particolare, di quel N. Niccoli al quale viene affidato
il compito di polemizzare a fondo contro ogni forma, aspetto e tradizione della cultura preumanistica. Non a caso, infatti, il Niccoli apre il suo
discorso con la lode incondizionata dei filosofi, dei poeti, dei grammatici e dei retori classici, e con la conseguente contrapposizione tra l'età antica,
madre di tutte le scienze veramente umane e nobili, e la barbarie della cultura contemporanea. Nelle scuole domina un gergo orrido e barbarico; vi si
leggono solo quei libri, attribuiti ad Aristotele, che sono invece il frutto di una generale corruzione e corruttela storica e linguistica; e, ignorando il
nome degli altri sapienti antichi, si suole chiamare "filosofo" il solo Aristotele la cui autorità è accettata come quella di un oracolo. Eppure (è qui
annunziato un tema che diverr&agrav