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CORTES
Il documento più importante nel quale ci imbattiamo dopo il Giornale di Colombo è “las cartas de
relaciòn” del conquistatore del Messico Hernan Cortès, il solo dei grandi capitani d’oltremare che
riferisca immediatamente al re ciò che gli accade mentre penetra, combatte, distrugge un impero.
Cortés scrive come Colombo le sue lettere, o “relaciones” direttamente al monarca: per l’esattezza
cinque, sulle fasi più importanti della campagna messicana fino alla conquista definitiva dell’impero
di Montezuma, fra il 1519 e il 1526. E perciò, come Colombo (tranne che nella prima lettera,
firmata da tutto il “regimento” di Vera Cruz), usa la prima persone, un “yo” pieno di significato
storico mediatore. L’ “io” di Colombo era quello del primo testimone vivente, che scopre e segnala
le nuove terre a nome della regina, ma anche in certo modo per la cultura di tutti gli uomini. L’ “io”
di Cortés è la mediazione del potere affermato: lo si ostenta a nome del re, ma da parte di chi
conquista, vince e possiede in persona propria. E perciò le cinque “cartas” non hanno
l’immediatezza informativa del giornale di bordo. Fra le imprese e le lettere, Cortés trova il tempo
di fare una scelta linguistica; in lui la semplicità espositiva, la rapidità del disegno, sono il frutto di
un atteggiamento intellettuale, non solo di una pratica urgenza. E se Colombo rassomigliava ad
uno straordinario giornalista, Cortés è già in qualche modo uno storico.
In effetti, le “cartas de relaciòn” non sono solo il rendiconto di una campagna di guerra. Toccano
fino in fondo una materia che Colombo aveva appena sfiorato: quella del primo scontro prolungato
tra una cultura dell’Occidente europeo, sia pure espressa da un esiguo drappello di soldati, e una
comunità umana remota e,in parte, indecifrabile. Sul racconto delle imprese guerresche aleggia un
certo gusto dell’esorbitante. Cortés conta sul sentimento dell’iperbole cavalleresca che è nei suoi
lettori; egli conosce bene l’efficacia del modulo dei pochi armati che escono indenni e vittoriosi da
duelli con eserciti interi e lo combina al suo stile classico e sobrio. Per legittimare l’incredibile cita
spesso Dio, la bandiera, il re. Con impassibile unità di stile ci racconta la distruzione di interi
villaggi inermi e la laboriosa animazione di un mercato locale; l’episodio di un perdono concesso
ad alcuni guerrieri e quello in cui, ad altri, fa tagliare entrambe le mani. Fa apparire la conquista
“così com’è” proprio perché assimila e livella tutti i contrasti, trattenendo le emozioni sul piano
innocente della meraviglia estetica per il nuovo.
LAS CASAS
L’emozione è forte quando, dopo aver letto Cortés, ci imbattiamo quasi negli stessi anni in una
voce che arriva dal versante opposto, pur se muove dai medesimi centri di potere e dalla stessa
cultura in cui s’è formato Cortés: quella del domenicano Bartolomé de Las Casas, predicatore di
tendenza evangelista. Le sue opere, la grande “Historia de las Indias” e la sua continuazione, la
Apologética historia de las Indias (scritta durante un quarantennio, fra il 1527 e la morte) e
soprattutto la famosa Brevìsima relaciòn de la destruyciòn de las Indias (edita nel 1552),
rappresentano l’altra faccia della medaglia: il punto di vista del religioso e del vescovo illuminato,
che condanna il genocidio dei conquistatori e gli abusi delle “encomiendas” e si fa ideologo delle
popolazioni soggette, rovesciando clamorosamente la logica della”civiltà superiore”. Con Las
Casas entra, nella storiografia delle Indie, l’osservazione lenta e sistematica, il senso della ricerca
che procede per gradi e si arricchisce formando l’interesse di tutta una vita. Colombo e Cortés
contavano unicamente, pur se in modi diversi, su un linguaggio di fatti, e di cose; Las Casas
costruisce attorno ai fatti e alle cose avvertimenti, valutazioni e riflessioni teoriche. Attorno alla
cronaca della conquista nasce ora il problema di una forma letteraria precisa. Nelle “cartas” e
“relaciones” il problema non si poneva neppure; se c’era, in esse, un qualche abbozzo di schema
interno, un tentativo di disegno più controllato, consisteva praticamente nella durata stessa degli
eventi. Las Casas, invece (e come lui Fernàndez de Oviedo) fonda prima il disegno narrativo, o
didattico, e poi vi cala dentro la sequenza dei fatti. Nasce, da queste pagine, la “leyenda negra”
della dominazione spagnola in America.
(insieme alla leyenda negra, con altri storiografi come Oviedo, si crea il mito del buon selvaggio,
che poi ritroveremo anche nella letteratura del 600, nel teatro, nel romanzo).
E ormai è chiaro: non si tratta dell’atteggiamento isolato di un frate fanatico. È una scintilla che
scoppi all’interno di un ampio e generale dibattito, durante il quale l’imperialismo carlista, sostenuto
da agguerriti “cesariani” entra in conflitto aperto coi principi dell’etica erasmiana. Sono in gioco il
diritto di guerra e di conquista, la personalità giuridica, in senso cristiano, degli indios, la liceità del
potere che si esercita su di essi da parte degli spagnoli. La disputa si allarga già nei primi
cinquant’anni del secolo. La “quaestio de Indiis” diventa uno dei nodi della spiritualità “riformata”
dell’età imperiale. Senza di essa, riuscirebbero incomprensibili molte iniziative del potere centrale e
dei futuri colonizzatori: dalla promulgazione delle “Leyes Nuevas” concesse da Carlo V per una
migliore regolamentazione dei diritti degli indios, ai criteri di gestione delle comunità gesuitiche;
dall’alternarsi di violenza e di tolleranza nell’incontro fra le due razze, al peso dell’evangelismo nei
processi di assimilazione e di “mestizaje”, che saranno infinitamente più rapidi e spontanei che
nelle colonie inglesi e francesi del Nordamerica. Vediamo che la nuova storiografia, salvo contate
eccezioni, si muove nel senso opposto, delle legittimità del dominio spagnolo e di un diritto fondato
sulla “superiorità” della razza.
CABEZA DE VACA
I viaggi si susseguono ormai ininterrotti; la conoscenza dei territori e dei loro abitanti comincia ad
uscire dalla fase della conquista guerreggiata per entrare in quella del contatto individuale, talora
dell’avventura romanzesca. L’ “adelantado” Alvar Nunez Cabeza de Vaca ne dà un esempio
affascinante quando naufraga durante una delle sue spedizioni e si perde con pochi uomini nella
zona del Mississippi (1527-34). La cronaca-memoria che ne deriva (e che si stamperà nel 1552)
col titolo significativo di Naufragios, sembra il modello vissuto di un romanzo settecentesco; storia,
ormai, di protagonisti solitari della propria avventura, emarginati dai segni della civiltà europea e
per la prima volta in balia di una natura sconosciuta e dei suoi favolosi abitanti.
L’importanza dei Naufragios sta anche nel fatto che al valore-base di tutte le cronache – il
confronto con l’altra cultura- viene a mancare qui, la mediazione di un qualsiasi organismo o
istituto protettivo. Questo tramite si rompe nel momento in cui egli rimane isolato, con un pugno di
uomini, in una costa della Florida. Egli conserva un tenacissimo zelo da esploratore europeo e
annota scrupolosamente tutti i giorni e le notti della propria esperienza.
E non basta. Tornato dall’avventura dei Naufragios e nominato governatore di Rio de la Plata
decide all’improvviso di raggiungere la sua sede con un lungo e rischioso itinerario per via di terra,
attraverso zone inesplorate del Brasile e del Paraguay.. questa volta sarà il suo segretario, Pero
Fernàndez, a raccontare i particolari della nuova spedizione (Comentarios, 1552). Ma la firma
dell’autore ha poca importanza: ciò che conta è la nascita di una mentalità nuova a ridosso della
conquista; l’affermarsi di una cultura esplorativa per cui la realtà sconosciuta comincia ad aver
valore “in se stessa”, e non solo in quanto spazio di terra che può essere assimilato e gestito dalla
“civiltà superiore”. Il viaggiatore e la sua vocazione all’ignoto valgono più dell’occasionale cronista.
La seconda parte di letteratura dell’esperienza vissuta va da dopo il ’30 fino al ’54-’55. Le opere
che appartengono a questa categoria non hanno in comune fra loro né gli schemi narrativi né, in
senso più ampio, l’appartenenza ad una scuola o ad una tradizione omogenea. Se per i
conquistatori lo schema della cronaca rappresentava, bene o male, oltre che un’impalcatura
esterna, un solido paradigma di scrittura, queste prose oscillano con grande libertà tra racconto e
teatro, fra modulo romanzesco e divagazione saggistica.
Con essi restiamo, sì, nell’ambito dell’esperienza vissuta, ma torniamo dalla storiografia alla
letteratura d’invenzione: ad autori, cioè, per i quali non è altrettanto immediata e vincolante la
necessità di scrivere, e che dunque sono spinti a farlo unicamente da una scelta personale e da
una particolare vocazione alla denuncia della verità.
Sarà come intraprendere, in sostanza, un diverso tipo di viaggio: per contrade e costumi della
società urbana della Spagna cinquecentesca invece che nel favoloso “ultramar”. E con alcune
differenze.
Anzitutto, in queste opere c’è una lingua mediatrice più raffinata e un mordente polemico più
scoperto appunto perché nasce in condizioni di scelta individuale, mentre nei cronisti d’America, la
forza del documento relegava in secondo piano ogni problema di coscienza letteraria e di
responsabilità di stile. Il cammino verso la realtà della vita nascosta passa, negli autori del Viaje,
del Lazarillo, per lunghi e fruttuosi contatti con la cultura libresca: clericale, rinascimentale, magari
di stampo classico, spesso erasmista. E si condensa in un atteggiamento di protesta sociale senza
residui moralistici, affidato alla cruda abilità del racconto piuttosto che al fervore della condanna
teorica come nei primi seguaci di Erasmo.
Diciamo “picaro” parlando del Lazarillo, con qualche approssimazione. La parola, infatti
(probabilmente da verbo “picar”), benché attestata variamente durante il Cinquecento
nell’accezione di “scaltro”, “furfante” e simili, non compare nel romanzo di cui discorriamo: verrà
usata per la prima volta, a designare un eroe del genere