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LE EPISTOLE
Sono in versi: novità assoluta a Roma.
Nelle epistole Orazio è molto incline alla descrizione di se' stesso; si descrive piuttosto basso,
precocemente invecchiato non solo nel fisico ma anche nella pensosità; è inoltre, forse, nevrastenico
e depresso; soffre di un "torpore micidiale" che gli ha bloccato la voglia stessa di vivere. Ci
racconta degli amici, delle donne, e della sua assoluta libertà (si dichiarò pronto a restituire tutto a
Mecenate, pur di rimanere libero). Tutto ciò, tuttavia, corrisponde più al "voler essere" che
all'essenza intima impenetrabile del poeta. Arriva, a volte, a dei quadri molto cupi e malinconici
della sua vita; come quello in cui auspica che venghino i giovani e che lui si ritiri per non essere da
loro deriso. E' l'Orazio piegato su se' stesso, malato di spleen, disincantato. Nonostante tutto ciò,
però, nel libro I vi è un invito a vivere al poeta Tibullo, che s'era ridotto ad essere un corpo
senz'anima. "Vivi ogni giorno come fosse l'ultimo" – gli dice Orazio – "e guarda me, il poeta grasso,
lucido, con la pelle ben curata, un vero porcello della mandra di Epicuro". Si affacciano i temi della
difesa della sua libertà, l'esaltazione della campagna e vi sono anche cenni di critica lettaria, che
saranno maggiormente sviluppati nel libro II.
Le epistole costituiscono il momento del raccoglimento interiore, rivolto alla ricerca della saggezza;
vi è anche qui un'esortazione alla filosofia vista mai come sistematica.
Le epistole letterarie del libro II
E' fatto di due lunghe epistole, la prima è dedicata ad Augusto, la seconda a Floro (qui si parla non
solo di poesia, si tratta anche di un apertura a cuore aperto al dialogo). A parte vi è l'Epistula ad
Pisones (da Quintiliano chiamata Ars poetica, poiché disquisiva su rilevanti problemi della poetica
antica).
Nella lettera ad Augusto si discute sul rapporto tra poesia/teatro e masse. Secondo Orazio si deve
andare nella direzione di un'arte elitaria; Augusto è del parere opposto.
Nella lettera a Pisone, invece, la prospettiva è radicalmente mutata. Perché? Perché, mentre in
quella il discorso è personale e particolare; qui si parla di una teoria generale; non è propaganda. Il
teatro prospettato da Orazio è comunque di esperti cultori.
L'arte per Orazio dev'essere fatta con decorum, convenientia (coerenza tra stili, linguaggi,
personaggi ecc.) e deve sia prodesse (comunicare contenuti morali) che delectare. L'artista, dotato sì
di ingenium, ma anche lavoratore e curatore, deve leggere giorno e notte i greci, lavorare di labor
limae e tenere le opere nel cassetto per nove anni prima di pubblicarle.
L'ELEGIA
L'amore ha una sua storicità; dire che è universale è ovvio e unilaterale; ciò che invece è utile dire, è
che in ogni tempo ha avuto una sua codificazione secondo diversi schemi sociali e culturali in
genere. L'età augustea, in particolare, ha avuto la codificazione dell'amore elegiaco.
Cos'è l'elegia? Nella sua storia, l'elegia ha conosciuto toni e contenuti molto differenti, pur nell'unità
della struttura metrica (distici detti proprio "elegiaci": unione di un esametro e di un pentametro
dattilico in coppia). Nasce in ambiente ionico nel secolo VII, è guerresca, politica e sociali,
moraleggiante, filosofica a seconda degli autori. A partire dal V secolo è anche lirica d'amore. In età
alessandrina abbiamo un'elegia dell'eros tormentato e doloroso, delle passioni del mito meno
conosciute; in esse il poeta parlava di miti più che di se' stesso. I latini si rifecero proprio agli
elegiaci alessandrini (come Callimaco e Filita); purtroppo di essi quasi nulla è giunto a noi, quindi
non sappiamo se il carattere personale fosse in loro già presente, probabilmente no, dato che
Quintiliano afferma che "nell'elegia gareggiamo coi Greci". Noi possiamo sottolinare l'importanza
di Catullo e del suo mondo poetico per lo sviluppo dell'elegia.
Al centro dell'elegia latina è la figura femminile: una donna dai netti connotati spirituali ma da una
presenza fisica talora molto corposa e ossessiva. Il poeta la canta perché lei stessa è il suo ingenium,
l'ispirazione esclusiva. Il componimento poetico è essenziale anche nei fini della conquista
dell'amata, dal momento che garantisce a lei fama imperitura. E' una donna idealizzata fin dal nome;
è la vita del poeta, ma anche la domina alla quale sottomettersi in un servitium, non senza una certa
voluptas nolendi. E' volubile e traditrice. E' comunque un amore che vuole durare in eterno, non è
una passione intensa ma labile come quella di un epigrammista greco. È eros che va oltre la morte.
CORNELIO GALLO
Costituisce l'anello di congiunzione tra la poesia neoterica e l'elegia augustea. Divenne il primo
praefectus Aegypti; alcuni tra i suoi atteggiamenti, specie quello di tributare onori divini ai
governanti di quella regione, lo misero in cattiva luce presso Ottaviano, che ne decretò la damnatio
memoriae, a causa della quale Virgilio sostituì il finale delle Georgiche: non più le lodi a Gallo ma
l'episodio di Aristeo.
Fu influenzato da Partenio di Ncea e da Euforione.
Amò, sotto lo pseudonimo di Licoride, una donna seducente e spregiudicata, che da schiava era
riuscita a diventare mima, idolatrata attricetta, col nome di Citeride; lei era amante di Bruto e
Antonio (due avversari!) e abbandonò il poeta per seguire un ufficiale tra le nevi delle Alpi. Lui le
dedicò quattro libri di elegie chiamati forse Amores, o forse Lycoris.
Sino a pochi anni fa non avevamo nulla di Gallo, nel 1979 fu trovato un papiro egizio.
TIBULLO
Abbiamo poche notizie sulla vita di Tibullo, che Orazio vedeva girare per la campagna ridotto come
"un corpo senz'anima". Fece parte del circolo di Messalla Corvino e a lui fu legato sempre da
profonda amicizia.
Il Corpus Tibullianum sono tre libri; i primi due di certissima attribuzione; nel primo è cantato
l'amore per Delia, nel secondo per un'altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi, come
una "vendetta" per i tradimenti di Delia. Il terzo libro parla di un'altra donna e forse è di un giovane
Tibullo. Molto probabile è che l'intero corpus sia frutto di poeti del circolo di Messalla: si nota
dall'aspirazione comune, comunque lontanissima dall'estrema ricchezza di toni dei poeti della
cerchia di Mecenate.
I temi preferiti dalla sua poesia sono la campagna e l'amore, spesso intrecciati. Tibullo ama vedere
Delia sullo sfondo della campagna, e contemplarla con tenerezza, talora con lieve dolore. E' un
amore che oscilla tra il desiderio di starle accanto e un certo vagheggiamento della morte. Nemesi,
nel secondo libro, che sarebbe dovuta essere la soluzione a Delia, è in realtà ancora peggio, obbliga
il poeta a un triste servitium. A differenza di quello con la Lesbia catulliana, l'amore di Tibullo è più
intravisto che reale, più fantasticato che vissuto realmente; quest'idea è rafforzata dalla forma
narrativa che è ondosa: gli argomenti si accavallano uno sull'altro, vengono lasciati per essere
ripresi; tutto ruota intorno al tema centrale, la composizione è quindi varia ma organica.
Il linguaggio sembra sobrio, ma è studiatissimo anche qui.
La III elegia del I libro permette di comprendere bene un esempio della composizione di Tibullo: è
a Corfù, malato, e teme di morire lontano dai suoi, lontano da Delia che ha interpellato gli oracoli;
se si salverà dovrà celebrare i Penati e i Lari. Il ricordo di queste divinità gli suggerisce la
rievocazione dell'età dell'oro; che contrappone a quella del presente, che è regno di Giove, di stragi
e morte; dello stesso Giove che dovrà salvarlo. Se invece dovesse morire, sarebbe portato negli Elisi
da Venere; ma non esistono solo gli Elisi...ecc. Delia, però, resti casa e priva di colpa; raccolta
nell'intimità della casa, tra la nutrice e l'ancella, sarà colta da lui all'improvviso, e gli verrà incontro
a piedi nudi e coi capellis scomposti; immagini tra le più alte dell'arte tibulliana. E' tutto così
incerto: non solo non è mai avvenuto, ma non si sa se avverrà. Sogna di morire tenendo la mano di
lei, come pure una vita agreste insieme a lei, o di abbandonarsi e contare nulla in una casa dove lei
domina.
La campagna di Tibullo non è solo quella di Delia e della tenerezza amorosa; è anche quella che si
contrappone, con la sua pace, al fragore delle armi. È la campagna degli dei del focolare, delle
tradizioni agresti; genuina, modesta.
Ligdamo è lo pseudonimo che il poeta si dà nel libro III; certamente non è Tibullo (Dalla data di
nascita potrebbe essere un primo Ovidio, ma lo stile è differente), ma un altro poeta del circolo di
Messalla. Certo è che, chiunque sia, ha imitato bene sia Ovidio che Tibullo.
Anche il Panegyricus Messallae, composto forse nel 31 a.C., che apre il IV libro del Corpus, non
sembra essere di Tibullo: il caratteristico divagare tibulliano qui è solo retorica scaduta.
Seguono nel IV libro altri componimenti, di cui solo gli ultimi due sono tibulliani (come resta
strano, però, che parli di amori altrui; quelli di Sulpicia e Cerinto).
PROPERZIO
Fece parte del circolo di Mecenate.
Cantò l'amore per Cinzia nel suo monobiblos (libro unico): una donna colta e mondana, elegante
amante della danza, della poesia, e anche di facili avventure amorose. I due si amarono
nevroticamente per 5 anni. Quando la donna morì, nel poeta l'amore infiammò ancora più forte; non
ci fu mai una fine.
Properzio conobbe i più importanti poeti dell'epoca: Virgilio, Ovidio, Orazio (coi quali ebbe
rapporti difficili per divergenze ideali) e Tibullo (col quale sembra ignorarsi reciprocamente).
Amore e poesia sono inscindibili in Properzio. La sua è una scelta: quella di proclamare il suo
servitium Amoris, la sua dedizione totale, implicito è l'allontanarsi dalla vita politica.
A differenza di Tibullo, Properzio ha un'immaginazione corposa, che ama le tinte intense. L'amore è
al centro del suo canto, ma un amore fatto di passione e tormento, assoluto e coinvolgente, che
supera finanche le barriere della morte. E' una presenza splendida fatta anche di carne che
ossessiona il ricordo e alimenta la gelosia di Properzio; è descritta anche una notte di passione con
somma audacia. Properzio ama fissare Cinzia in situaz