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LA SATIRA SOTTO IL PRINCIPATO: PERSIO E GIOVENALE

Anche se Persio scrive sotto Nerone e Giovenale nel periodo tra Nerva e Traiano, la loro produzione

presenta tratti molto simili: dichiarano di ricollegarsi alla tradizione satirica di Lucilio e Orazio, ma questo

genere conosce una trasformazione piuttosto marcata: le satire di età precedente trovavano i loro

destinatari in una cerchia ristretta di amici, mentre queste si rivolgono a un pubblico generico. Non c’è più

complicità tra scrittore e lettore, che insieme sorridono della piccolezza umana con atteggiamento bonario

e comprensività: ora il poeta si pone su un piano più alto, da cui può criticare i vizi utilizzando la forma

dell’invettiva e del moralismo arcigno.

Persio (Volterra 34 d.C. – Roma 62 d.C.)

Originario di Volterra, si trasferì presto a Roma dove venne educato dal filosofo stoico Anneo Cornuto, che

lo mise in contatto con gli ambienti dell’opposizione senatoria al regime dove divenne amico di Lucano.

Non scrisse molto e non pubblicò nulla in vita (il biografo Valerio Probo dice “scriptavit et raro et tarde”), le

sue satire vennero pubblicate postume dall’amico Cesio Basso.

Dopo un prologo (o forse un epilogo) in coliambi, il verso dell’invettiva, seguono sei satire in esametri:

- I: vezzi deplorevoli della poesia contemporanea

- II: religiosità formale di chi chiede agli dei solo di procacciar loro denaro

- III: tentativo di convincere un ragazzo dissipato ad intraprendere il cammino della filosofia

- IV: necessità del nosce te ipsum

- V: il tema della libertà nell’etica stoica

- VI: deplora il vizio dell’avarizia additando come modello il saggio stoico

Persio considera la sua poesia ispirata dall’esigenza etica di smascherare e combattere i vizi: si pone come

maestro arrabbiato e spesso volgare, che non riesce ad instaurare con il lettore quel rapporto di parità che

aveva instaurato Orazio. Non riesce neppure a farsi ascoltare, viene deriso e preso in giro: il discorso è

destituito a priori di qualsiasi efficacia didascalica e finisce di deprimersi in irosa monotonia. Perso però il

legame con il destinatario del messaggio, è come se il discorso satirico si ripiegasse su se stesso, divenendo

una sorta di monologo confessionale, un esercizio filosofico per sé solo.

Nei choliambi iniziali si definisce semipaganus, “semirustico”, forse riferendosi alla sua ostilità verso la vana

ricercatezza formale della poesia del tempo. Presenta quindi un’esigenza prettamente realistica, ricorrendo

con frequenza al campo lessicale del corpo e del sesso. Tale scelta comporta l’utilizzo di un linguaggio

ordinario e comune, ma lo stile non è assolutamente semplice perché l’immagine della malattia morale

descritta produce nessi contorti e quasi inesplicabili.

Giovenale (Aquino 60?-Roma 127?)

Le notizie sulla sua vita sono poche e incerte. Probabilmente si dedicò alla scrittura in età avanzata. Visse

nella disagiata condizione di cliente, privo di autonomia economica. La sua produzione poetica è costituita

da sedici satire in esametri, in cui deplora i vizi, si scaglia contro gli omosessuali e l’immoralità delle donne,

critica il degrado della letteratura e degli studi, attacca i ricchi, i cacciatori di eredità e gli imbroglioni.

Giovenale dice di essere stato spinto alla satira dall’indignazione (“si natura negat, facit indignatio

versum”): non ritiene che la sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini e si limita a

denunciarlo senza vane pretese di riscatto. Rifiuta così di uniformarsi alla tradizione satirica precedente, più

razionalistica e riflessiva, ma rifiuta anche la morale filosofica del restare indifferenti di fronte al mondo

delle cose concrete ed esteriori: non si può restare indifferenti e apatici di fronte al dilagare del vizio.

Presenta una radicale avversione al suo tempo e idealizza nostalgicamente il passato, un buon tempo

antico governato da una sana moralità agricola.

L’indignatio che caratterizza la satira di Giovenale popola la realtà di mostri, di cose terrificanti, per

descrivere le quali dovrà adottare caratteri grandiosi simili a epica e tragedia: viene bandito il ridiculum e si

cerca il sublime, facendo ricordo a solenni movenze epico-tragiche soprattutto in corrispondenza dei

contenuti più bassi e volgari. La sua espressione è icastica, pregnante e sentenziosa.

EPICA DI ETA’ FLAVIA

Stazio (Napoli 40?-96?)

E’ autore di due poemi epici in esametri: la Tebaide in dodici libri e l’Achilleide rimasto incompiuto. E’

andato perduto un poema storico sulle gesta di Domiziano, il De Bello Germanico. Scrisse anche versi su

commissione, raccolti nelle Silvae.

Il titolo Silvae allude alla natura occasionale e miscellanea della raccolta. I committenti delle varie poesie si

rispecchiano in molte di esse, e fanno emergere i valori che guidano questo sistema sociale: il ripiegamento

su se stessi (passioni per le arti, consumi di lusso, affetti familiari) e l’ideologia del pubblico servizio inserito

nelle strutture del potere imperiale. Ci sono carmi descrittivi che mimano l’artificiosa architettura delle ville

e dei giardini, dove tutto è trasformato in spettacolo.

Per quanto riguarda la Tebaide, Stazio dichiara di avere come modello l’Eneide, che la sua opera dovrà

“seguire a distanza”: anche quest’opera è in 12 libri, di cui i primi 6 raccontano il viaggio di Polinice verso

Tebe e gli altri 6 della guerra con il fratello Eteocle. I modelli dell’opera sono variegati: le imprese dei sette

contro Tebe erano state variamente narrate nelle tragedie, la scelta formale rimanda ai modelli epici e lo

stile narrativo e la metrica sono mediati da Ovidio. Stazio cerca di salvare l’apparato divino dell’epica,

rendendolo però più moderno enfatizzando il ruolo del fato: le divinità tradizionali appaiono svuotate e

appiattite, mentre sono decisamente più vitali le personificazioni di divinità astratte (es. la Furia). La storia è

dominata da una ferrea necessità universale e le figure umane sono schiacciate dalle leggi del cosmo,

apparendo appiattite anch’esse.

Valerio Flacco (92?)

Scrisse gli Argonautica, poema epico incompiuto di cui abbiamo sette libri e parte dell’ottavo, che

corrispondono a circa ¾ del racconto sviluppato da Apollonio Rodio. Narra la spedizione di Giasone alla

ricerca del vello d’oro, il viaggio fino alla Colchide, l’amore per Medea e la conquista del vello. Pur

ispirandosi al modello di Apollonio Rodio, mira a una riscrittura in gran parte autonoma: ci sono

abbreviamenti, aggiunte e importanti modifiche nella psicologia dei protagonisti (la Medea è

“contaminata” con la Didone di Virgilio). Ha una viva consapevolezza che la letteratura è tutto il linguaggio

che si è via via sedimentato fino a quel momento, è una poesia riflessa e rielaborata da praticamente tutti i

modelli precedenti. E’ molto raffinato nel particolare e nel dettaglio descrittivo, ma fallisce spesso nella

creazione di strutture narrative più articolate. Tende ad esasperare la propensione Virgiliana allo stile

soggettivo, a rendere situazioni e avvenimenti dal punto di vista dei vari personaggi, ricercando forse

troppo spesso il patetico.

Silio Italico (26?-101)

Fu un importante uomo politico dei suoi tempi, console sotto Nerone e poi proconsole d’Asia sotto

Vespasiano. Ritiratosi a vita privata, si dedicò al poema storico Punica.

Sono il più lungo epos storico latino a noi giunto (17 libri) e raccontano la seconda guerra punica dalla

spedizione di Annibale in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. C’è una linea annalistica che lo ricollega

direttamente a Livio, che segue abbastanza fedelmente. L’argomento delle guerre puniche era già stato

trattato da Nevio e Ennio, ma l’impulso fondamentale per l’opera venne dall’Eneide: Plinio il Giovane ci

racconta una passione museologica quasi maniacale di Silio Italico per Virgilio. La guerra di Annibale è

presentata come una diretta continuazione di Virgilio: è originata dalla maledizione di Didone contro Enea e

i suoi discendenti: Giunone continua ad avversare i Romani e a proteggere Cartagine, assecondando

Annibale fino alla battaglia di Canne. La volontà di Giove è quella di imporre ai Romani una dura prova: non

corrono il rischio di estinguersi, ma devono fornire prove di essere degni di aspirare al dominio su altri

popoli. PLINIO IL VECCHIO (Como 23?-Pompei 79) E IL SAPERE

SPECIALISTICO

Da giovane prestò servizio militare in Germania, e il suo interesse per questioni belliche si riflette nel

trattatello perduto De iaculatione equestri e nell’opera storica Bella Germaniae. Dopo la morte di Claudio si

ritirò a vita privata per avversione nei confronti di Nerone. In questo periodo si dedicò all’oratoria, come

testimoniato dalle opere perdute Studiosus (una manuale di retorica) e Dubius sermo (un trattato che si

occupava di oscillazioni dell’uso linguistico). Con l’ascesa di Vespasiano ricoprì diversi incarichi importanti

(prefetto della flotta stanziata in Campania) e si dedica a due opere importanti: A fine Aufidi Bassi, una

storia di Roma negli anni 50-70 che si riattaccava alla conclusione di uno storico Aufidio Basso, per noi

perduta, e la Naturalis Historia. Muore travolto dall’eruzione vesuviana, per recare soccorso ai cittadini in

pericolo.

In tutta la cultura romana della prima età imperiale si nota uno sforzo di sistemazione del sapere, dovuto

anche alla grande espansione dei ceti tecnici e professionali. Nello stesso tempo la curiosità scientifica si

afferma anche come forma di intrattenimento e di consumo culturale, come testimoniato dai

paradossografi, autori che raccolgono aneddoti e piccole curiosità scientifiche spesso raccolte di prima

mano. E’ il caso di Licinio Muciano, comandante che soggiornò a lungo nelle province orientali e ne fece

reportage illustrando conchiglie, fontane prodigiose e elefanti ammaestrati. Questo tipo di opere però non

contengono in sé alcun principio sistematico, a differenza dell’opera di Plinio.

La Naturalis historia è un’opera in 37 libri, che trattano cosmologia, geografia, antropologia, zoologia,

botanica, medicina, metallurgia, mineralogia e storia dell’arte. La concezione filosofica di Plinio è vicina allo

stoicismo, in quanto pone se stesso in un’ottica di “spirito di servizio” all’umanità componendo

quest’opera. Stilisticamente è considerato il peggior scrittore latino, ma l’ampiezza del lavoro non era

compatibile con pretese di cura formale. Inoltre lo stile frammentario e affastellato che domina interi libri

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Dettagli
Publisher
A.A. 2013-2014
15 pagine
2 download
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/04 Lingua e letteratura latina

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher atychifobia di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura latina e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Udine o del prof Delvigo Maria.