vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
TEMPO:
Non vi sono riferimenti a fatti storici o date specifiche, ma vi sono accenni in alcuni punti al 1820-21 e al 1837; i moti del 1820 e del 1848, quindi, fanno da sfondo alla vicenda e sono citati più volte dall'autore all'interno del racconto. Ci sono inoltre accenni a vicende politiche quali la rivolta palermitana e la Costituzione di Francesco Duca di Calabria nel 1812 nell'Italia Meridionale.
RIASSUNTO:
Scritta da Giovanni Verga nel 1889, la vicenda è ambientata a Vizzini, una località della provincia di Catania, nel periodo compreso tra il 1819 e il 1848. Protagonista è Gesualdo Motta, un uomo del popolo, umile lavoratore, tenace ed accorto che dedica la vita al lavoro per accumulare terre, denari e ricchezze. La fortuna raggiunta lentamente è stata veramente sudata e meritata, anche se non cambia il carattere di Mastro Don Gesualdo che rimane onesto e generoso, sempre pronto ad aiutare parenti ed amici. Per aumentare ulteriormente il suo potere,
Gesualdo sposa Bianca Trao, ragazza di nobile famiglia indecadenza. Purtroppo il matrimonio si rivela un cattivo affare per l'uomo. Tutti gli sono contro: i familiari, benché da lui aiutati, lo ritengono un traditore perché li ha abbandonato per un mondo diverso; i parenti nobili lo disprezzano. Anche Bianca, che ha accettato il matrimonio solo per salvare l'onore macchiato dopo i suoi amori con il baronetto, suo cugino, Ninì Rubiera, non riuscirà mai a vincere un'istintiva freddezza nei confronti del marito. Anche la figlia Isabella, in realtà nata dalla relazione di Bianca con Ninì, risulta essere molto ostile al padre. La ragazza, infatti, innamorata del cugino Corrado La Gurna, poeta e spiantato, è ostacolata dal padre nel suo amore e finirà per cedere al suo volere sposando il Duca di Leyra, un uomo spietato, che non la amerà mai, ma dissiperà tutta la dote della ragazza in ricevimenti. Dopo la partenza
di Isabella per Palermo, parenti, amici, vicini, tutti si accaniscono a gettar fango sulle ricchezze di Gesualdo. La moglie, Bianca, muore poco dopo consumata da un male inesorabile, la tisi, e dalla lontananza dalla figlia. Don Gesualdo rimane solo, sofferente e torturato da atroci dolori di stomaco. Il genero, che lo detesta e lo disprezza, ma che vuole a tutti i costi venire in possesso dell'eredità, lo costringe a seguirlo a Palermo. Morirà di cancro qualche tempo dopo nell'indifferenza generale, solo e abbandonato, accompagnato nelle ultime ore dalle parole malevole di un servitore, unico testimone della sua agonia.
Fantasticheria: Composta attorno al febbraio 1878, questa "novella" (ma il termine in questo caso è in realtà una lunga lettera improprio) nella quale l'autore rievoca i pochi giorni che un'elegante signora avrebbe trascorso con lui ad Aci Trezza, e da ciò trae spunto per riflettere sulla vita.
Sui "valori" di questo villaggio di poveri pescatori e paragonarli e contrapporli a quelli del mondoborghese e cittadino cui la visitatrice appartiene. Leonardo Sciascia pensa che «questa donna non è mai esistita» è si chiede se non sia «possibile dire che ha fatto di lei la custode e il simbolo del ricordo, che in lei ha oggettivato la memoria».
Il titolo - Fantasticheria - d'altra parte è da intendersi come abbandono alla rievocazione di come lirico vagheggiamento figure umane e situazioni care all'autore, di quel mondo che troverà Malavoglia compiuta espressione nei .
Per i problemi che in queste pagine vengono affrontati - contrapposizione tra mondo borghese e mondo povero, genesi dei valori morali del mondo povero, criteri da seguire per un'eventuale rappresentazione di tale mondo - siamo di fronte alla Verga «più vera e profonda dichiarazione di poetica che abbia mai fatto».
(Sciascia).Malavoglia
Il testo è illuminante per comprendere la genesi dei e i problemi che la Verga rappresentazione del loro mondo poneva a è abbozzato poi con sufficiente chiarezza quella tecnica che si definisce "l'artificio della regressione". Un argomento sul quale riteniamo utile soffermarci è quello dell'ambivalenza dello scrittore nei riguardi del mondo della "povera gente". Il suo atteggiamento infatti è duplice.
All'ipotetica destinataria di queste pagine - una raffinata signora interessata al povero mondo di Aci Trezza, animata da una disposizione paternalistica, ma sostanzialmente incapace di comprenderelo - il dichiara che a "quei poveri diavoli" basta poco "perché trovino fra quelle loro casupole sgangherate e pittoresche" tutto ciò che il bel mondo cui ella appartiene si affanna a cercare nelle metropoli e nei luoghi alla moda.
Il mondo dei poveri diavoli è presentato
quindi come alternativa positiva alla dissipazione mondano-borghese. Il concetto è ripetuto nella conclusione (rr. 172-174): le "irrequietudini del pensiero vagabondo" si potrebbero placare "nella pace serena dei sentimenti miti" che quel mondo si tramanda da una generazione all'altra. L'autore fa una rassegna precisa di questi sentimenti (rr. 167-171): il "tenace attaccamento" al luogo che è toccato in sorte; la "rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti"; la "religione della famiglia che si riverbera sul mestiere, sulla casa e sui sassi che la circondano". E al giudizio spregiativo dell'interlocutrice- "l'ideale dell'ostrica!" -, obietta che si tratta invece di "cose serissime e rispettabilissime". Ma questo mondo di sentimenti perenni, questo universo della continuità nell'immobilità può tragicamente incrinarsi; anche al suo interno.possono insinuarsi ed esistere con effetti devastanti l'inquietudine, la brama di cambiamento, il rifiuto dei modelli tradizionali. Anche in un mondo del genere c'è posto allora per il dramma: "allorquando uno di quei piccoli, o più debole o più incauto, o più egoista degli altri" si stacca e si avventura nel mondo, è destinato ad essere travolto (rr. 183-186). Queste due posizioni chiariscono a sufficienza, ci sembra, le oscillazioni e le ambivalenze di Verga di fronte al mondo che proprio al tempo di queste pagine si accingeva a rappresentare o già stava rappresentando. Risulta evidente, infatti, che quel mondo gli appariva ora come Eden da contrapporre alla "società delle Banche e delle Imprese Industriali", intatta monade, luogo deputato dei valori immutabili, ora invece come terreno su cui potessero scatenarsi le forze capaci di distruggere la pace serena dei sentimenti miti, semplici. Malavoglia è
chiaro - e I , nei quali c'è posto per lo zio Crocifisso e per don Silvestro è perPiedipapera, oltre che per padron 'Ntoni, sono lì a provarlo - che sul vagheggiamento populistico-romantico di un'integrità della campagna prevalse l'altra prospettiva, quella "dettata invecedall'approfondimento di una oggettiva visione della vita materialisticamente fondata, secondo laquale la società arcaico-rurale non può che essere regolata, dalle stesse leggi naturali che sipossono rintracciare anche nella vita borghese e cittaina" (Luperini). MalavogliaE tuttavia i segni di questa duplicità o oscillazione sono visibili: se il mondi dei èVergadominato dall'inesorabile meccanismo della pura economicità, non rinunzia alvagheggiamento del mondo dell'autenticità, dei sentimenti miti e semplici, all'idoleggiamento diuna mitizzata società patriarcale: padron 'Ntoni, (nel complesso),la Longa, Mena, Alessi, laNunziata, la cugina Anna ne sono incarnazioni.
Jeli è un ragazzo indipendente cresciuto portando a pascolare le bestie, mentre don Alfonso è "cresciuto nel cotone", cioè proviene da una famiglia agiata. Inizialmente i due ragazzi passano la maggior parte del loro tempo insieme, sono ragazzi e la differenza sociale non influisce sul loro rapporto. Successivamente, col passare del tempo, i due si limitano a salutarsi e la differenza sociale comincia a pesare sempre di più: entrambi dimenticano i momenti e le avventure passate insieme da ragazzi.
Mara è la ragazza per la quale Jeli perde la testa. È la figlia di Massaro Agrippino e della gnà Lia. Viene descritta come una ragazza bellissima con gli occhi neri come stelle che ama vestirsi di rosso. Il suo rapporto con Jeli è di stretta amicizia, tanto che alcuni a Tebidi dicevano che si sarebbero sposati. La prima parte della novella si conclude proprio con la
sua partenza da Tebidi.Attraverso l'episodio della morte di uno dei puledri che aveva in custodia, e al suo conseguentelicenziamento, Jeli fa esperienza della violenza e della logica economica. Senza lavoro e senza unposto dove passare la notte Jeli vede sbattersi la porta della casa di Mara in faccia, come se fosse unpezzente. Attraverso ciò fa esperienza del disinteresse della gente nei suoi confronti edell'abbandono. Jeli si vede escluso dal divertimento della festa quando tutti si divertono cantando eballando mentre lui sta fuori ad osservarli. Jeli si vede escluso dall'affetto di Mara quando questapasseggia e chiacchiera con il figlio di massaro Neri e non si cura minimamente di Jeli che laosserva baciarsi con l'altro ragazzo. Il motivo economico è un elemento fondamentale anche nellegame tra Mara e Jeli. Quest'ultimo pensa di non poter pretendere di sposare Mara a causa dellanon irrilevante differenza sociale esistente fra i due.PaneLa vicenda si apre e si chiude con un racconto. All'interno di questa cornice prendono corpo le storie dei tre fratelli: Santo (e la moglie Nena la Rossa), Lucia (e Brasi) e Carmenio (e la madre moribonda). Santo decide di sposare la bella Nena, detta la Rossa. È un amore contadino che sembra dapprima inaridirsi, ma che, negli anni, trova nella solidarietà coniugale e nell'amore per i figli la propria ragion d'essere. Lucia, delusa in amore, va a servizio da un contadino arricchito, don Venerando, che la insidia. Il giovane cuoco Brasi fa però capire a Lucia che egli potrebbe sposarla solo se la ragazza cedesse al vecchio in cambio di una cospicua dote. La ragazza, dapprima restia, si libererà infine dal bisogno ma a prezzo del proprio onore di contadina. Carmenio, giovane pecoraio ammalato di malaria, viene assunto da don Venerando per badare a una mandria. Una notte si trova a vegliare, del tutto impotente, la madre moribonda. Di fronte alCadavere di quest'ultima, Nena la Rossa assolve la cognata Lucia che si è finalmente assicurata le venti onze della dote.