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Cancogni) e un irresistibile affabulatore (Gian Carlo Fusco).
Sullo sfondo delle memorie della guerra che ancora sono parte integrante di una faticosa e
talora mostruosa quotidianità, la cronaca nera, lo sport, il cinema e i suoi divi nazionali e internazionali,
il teatro, la musica, il costume sono alcuni degli oggetti che Benedetti e la sua squadra privilegiano.
Del “Mondo” di Pannunzio sarà pure lecito non assolutizzare quel tanto di snobisticamente
èlitaire o di aristocraticamente pedagogico che c’è; si può imputare a Pannunzio piuttosto l’ambiguità e
l’illuministica astrattezza di un progetto di cambiamento della politica, dell’economia e della società,
posto sotto le grandi ali di Croce e Salvemini, che non si è realizzato. E però l’irripetibilità della formula
del “Mondo” risiede nel delicato miracoloso equilibrio che nei suoi fascicoli, di settimana in settimana
sempre identici e diversi, si produce tra parole e immagini sottratte al rapporto radente con l’attualità
(che invece è tratto identitario tipico dell’”Europeo”); nella strenua eleganza di un sistema di segni
verbali e iconici che non si sottraggono a un dialogo ininterrotto con la “periferia”, meridionale in specie.
Dal tempo della “Voce” di Prezzolini non era mai accaduto che una rivista italiana di politica,
letteratura e, come si diceva un tempo, di varia umanità fosse in grado, come “Il Mondo”, di rendere pervio e
trasmissibile nel cuore della provincia italiana un messaggio che a prima vista pare così
programmaticamente alto da rasentare l’intransitività: e di perseguire, in un movimento di diastole e sistole,
una comunicazione non episodica con una rete di lettori che del “Mondo” diventano virtuali corrispondenti.
Il paradosso delle imprese giornalistiche di Arrigo Benedetti, dall’”Europeo” all’”Espresso”,
risiede nella piena, mai scalfita certezza che il primato della letteratura non si discute: non c’è giornale
che tenga. A denunciare quella insanabile antinomia Benedetti non aveva aspettato gli anni estremi, se
allo snodo dei ’50 aveva scritto ciò che nel 1979 venne pubblicato col titolo di “Diario di campagna” (a
cura di Ottavio Cecchi, Editori Riuniti, Roma). Si rivela un Benedetti sdoppiato tra le due vocazioni; ma
il centro del ragionamento sta nella lunga nota che uno spazio bianco separa da un breve appunto del 3
gennaio 1960. In essa, Benedetti mette a fuoco il senso della bipolarità accennata lungo la traiettoria
che intercorre tra due vicende analoghe e dissimili, quella ormai chiusa dell’”Europeo”:
“Dal 20 dicembre a oggi un raccoglimento di cui non fui capace anche per ragioni di salute
quando nel 1954 lasciai “L’Europeo”. […] Anche stamani passeggiando lo fantasticavo (ndr: si
riferisce all’”Espresso”) immaginandomi un deterioramento della vita politica che rendesse sempre
più difficile per me, ed infine impossibile dirigere un giornale, per cui sarei costretto ad appartarmi
ed a lavorare come io credo di sapere. Ad un tratto, però, avendo scoperto che era vile desiderare
il peggio per mia comodità, anzi per essere costretto ad un lavoro letterario, mi sono domandato se
non fosse più onesto e più giusto ritirarmi dal giornale. Ne è venuta una curiosa scoperta: il
giornalismo che riempiva il vuoto che temevo…mi interessa meno.
È stata una curiosità febbrile che raggiunse la maggior intensità nei giorni così vivaci del
dopoguerra. Allora immaginavo possibile un giornalismo che fosse solo giornalista. Un rendiconto
oggettivo della realtà. In seguito mi parve di partecipare a qualcosa di disonesto e d’assurdo…
[…] Con “L’Espresso” ho ripetuto la stessa esperienza, approfondendola fino ad arrivare a
conclusioni pessimistiche sul giornalismo in generale e su quello italiano in particolare. […]
L’ossessione della parola può essere soddisfatta (me ne accorgo ora) solo da un personale lavoro
letterario, da una solitudine…”.
Meno di due mesi dopo, è la nota che reca la data del 29 febbraio ad assumere la
letteratura quale invariabile stella polare:
“La letteratura ha finito con l’essere per me come una deformazione segreta. Un tempo, quando
cominciai a scrivere, seppi vincere il pudore. Accettai di specchiarmi nelle mie cose stampate, sopportai
l’immagine di me riflessa negli altri, cioè nei miei pochi lettori. In seguito il pudore diventò più esigente.
Ero scontento dei risultati letterari, delle eventuali valutazioni di essi che mi parevano tanto più distratte
quanto più favorevoli. Così accettai la lunga distrazione del giornalismo di cui ora sono prigioniero.
[…] Dentro sono rimasto legato alla letteratura, fuori sono parso un uomo pratico. Ho
continuato a interpretare il mondo per immagini ma senza lasciarlo trasparire”.
Pochi mesi prima di lui era stato Enzo Forcella a tentare di convertire una personale
condizione di frustrazione e di disagio in uno strumento conoscitivo, in “Millecinquecento lettori”,
sottotitolo: “Confessioni di un giornalista politico”:
“Un giornalista politico, nel nostro paese, può contare su circa millecinquecento lettori: i
ministri e i sottosegretari (tutti), i parlamentari (parte), i dirigenti di partito, sindacalisti, alti prelati e
qualche industriale che vuole mostrarsi informato. Il resto non conta, anche se il giornale vende
trecentomila copie. […] Tutto il sistema è organizzato sul rapporto tra il giornalista politica e quel
gruppo di lettori privilegiati. Trascurando questo elemento, ci si esclude la comprensione
dell’aspetto più caratteristico del nostro giornalismo politico, forse dell’intera politica italiana: è la
atmosfera delle recite in famiglia, con protagonisti che si conoscono fin dall’infanzia, si offrono a
vicenda le battute, parlano una lingua allusiva e, anche quando si detestano, si vogliono bene. Si
recita soltanto per il proprio parere, beninteso, dal momento che non esiste pubblico pagante”.
Poi, ancora Forcella, parla del rapporto tra la realtà e la sua rappresentazione: “Quando
cominciai a fare il giornalista pensavo che il giornalismo fosse prima di ogni altra cosa informazioni,
fatti, notizie. […] Le note di servizio che raccomandano: “Tenersi ai fatti, senza commenti o
interpretazioni” sono un invito ad accettare come autentica la verità propagandistica che i politici
hanno interesse a diffondere, e rinunciare a spiegare che cosa si nasconde dietro la genericità,
l’ottimismo di maniera, i falsi furori e la interessata confusione dei comunicati ufficiali”.
Ma nel decennio, non è un “giornalista politico” in senso stretto il protagonista assoluto. A
Indro Montanelli dopo la Liberazione non è stata riservata la quarantena dell’epurazione che ha
ferito a morte Luigi Barzini e costretto Ansaldo e Vergani a non troppo dolorose strategie di
sopravvivenza prima di rioccupare le posizioni abbandonate.
Nel “Corriere” di Guglielmo Emanuel e di Mario Missiroli, Montanelli è il Numero Uno. Di
Montanelli tra guerra e immediato après-guerre mi accontento di segnalare due libri: la raccolta di
racconti “Gente qualunque” (Bompiani, Milano, 1942) e il romanzo “Qui non riposano” (Tarantola,
Milano, 1945): un repertorio dei temi sui quali ha incominciato a fondarsi, dapprima al Sud e a
Roma, ora anche al Nord, la cultura dell’antiantifascismo.
Ma la vera invenzione anche “narrativa” che assicurerà a Montanelli stabile fama consiste
nell’allestimento di un organismo testuale destinato a dar conto di una serie di fulminei corpo a
corpo con un personaggio che si condensa poi nella misura della doppia colonna di terza pagina: il
titolo, solitamente coincidente col cognome della “figura” descritta, si colloca sotto un occhiello
inconfondibile e più e più volte iterato: “Incontri”.
Montanelli mette a frutto il ricordo della tecnica compositiva dell’Ojetti di “Cose viste”,
consumata fino ai limiti del manierismo e oltre, investendoci di suo una prodigiosa attitudine alla
costruzione di ritratti “ipotetici”. “Mi è stato chiesto – disse – a proposito di aneddoti, se ne abbia
mai inventati. Forse…Ho inventato qualche battuta. Comunque erano verisimili”.
All’alba del cosiddetto “miracolo” economico e di una fase delle relazioni internazionali nella quale gli
Stati Uniti, l’Unione Sovietica e perfino la Chiesa di Roma si muovono all’insegna di una discontinuità aperta
a un futuro ancora imprevedibile, non può essere il “Corriere” di Missiroli il luogo deputato al manifestarsi dei
Segni del Tempo, o dei Tempi. Sostituendo alla guida del giornale un leggendario maestro di scetticismo,
addirittura Alfio Russo rischia di passare per un eversore: non lo è, ma è largamente in grado di guidare
un’operazione di ammodernamento alla quale si collega un passaggio di consegne che è già, in qualche
misura, nelle cose e spinge sulla scena la generazione dei quarantenni: il tomo di 900 pagine dal titolo “Italia
sotto inchiesta” (sottotitolo: “Corriere della Sera 1963/65”), che Sansoni pubblica nel 1965, è il prodotto di un
lavoro di gruppo di cui Montanelli è primis inter pares.
“Italia sotto inchiesta” rende implicitamente omaggio al principale archetipo del genere, che è
“Viaggio in Italia” di Piovene (Mondadori, Milano 1957). Il movente dell’inchiesta non è tanto l’esigenza di
dare corso a una retrospettiva tenzone con l’antico “corrierista” Piovene, divenuto collaboratore tra i
più prestigiosi della “Stampa”, quanto piuttosto quella di non lasciare campo interamente libero a
un incursore quarantenne che, partito dalla guerra partigiana e da “GL”, contende palmo a palmo il
territorio storicamente presidiato da Montanelli: Giorgio Bocca, autore di “Miracolo all’italiana”
(Edizioni Avanti!, 1962), che riporta le voci alte e fioche, esagitate e flautate che il giornalista
raccoglie nella provincia italiana, da Vigevano a Foggia, da Carpi a Forlì.
Al “Giorno” Gianni Brera è arrivato quattro anni prima di Bocca, che non tarderà a diventarne
la bandiera. Il genio di Brera rifulge solitario fino a rasentare l’autoreferenzialità grazie a una
competenza tecnica fuori dal comune nel campo dell’atletica leggera, del calcio e del ciclismo,
sostenuta da una scrittura che potrà continuare ad essere des