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Idrusa, donna forte e coraggiosa
Idrusa, donna forte e coraggiosa, rappresenta una delle figure femminili più famose e studiate della cultura e della tradizione letteraria salentina.
Il romanzo è suddiviso in cinque racconti reciprocamente intrecciati. Ogni racconto è narrato in prima persona dai vari protagonisti, e sono legati a varie vicende (la battaglia contro il nemico comune, la difesa della propria città e dei propri valori, ecc...)
Protagonisti:
- Il pescatore Colangelo, che con i suoi compagni, era di guardia sulle mura difensive e sacrificò la propria vita nella difesa della città;
- Il governatore di Otranto capitano Zurlo, anche lui morto nella battaglia;
- la bellissima Idrusa, vedova di un uomo non amato e che si era ucciso mentre cercava di salvare un bambino catturato da un soldato turco;
- Nachira, morto decapitato insieme agli 800 Martiri di Otranto;
- Aloise de Marco, che racconta della rinascita della città dopo la
Liberazione dai Turchi
È nota come battaglia di Otranto la battaglia che si combatté nell'omonima città salentina nel 1480, allorquando un esercito ottomano (in realtà diretto a Brindisi) attaccò la cittadina allora appartenente agli Aragonesi.
Al termine della battaglia, il 14 agosto 1480 furono decapitati sul colle della Minerva 800 otrantini che si erano rifiutati di rinnegare la religione cristiana: sono ricordati come i Beati martiri di Otranto, le cui reliquie sono custodite nella cattedrale del paese.
In seguito alla battaglia e all'invasione degli ottomani, andò distrutto il monastero di San Nicola di Casole, che ospitava allora una delle biblioteche più ricche d'Europa.
Le vicende della battaglia vennero narrate in forma di romanzo da Maria Corti, nel libro L'ora di tutti, e da Rina Durante nella versione sceneggiata Il sacco di Otranto.
Una introduzione partecipata e tenera crea intorno a noi l'invisibile
Presenza duratura nel tempo degli ottocento eroi - conosciuti come "i martiri di Otranto" - i cui resti sono conservati nella cattedrale della città salentina "in fondo all'abside, a destra".
Era il mattino di venerdì 28 luglio del 1480; il mare grosso e una leggera foschia imperversavano davanti alla Torre del Serpe. Nei paraggi si muovevano i pescatori con i visi bruciati dalla fatica e dal sole. I loro nomi erano anche tutta la loro storia: Procomio da Malcantone, Cola Mazzapinta, Nachira, Alfio da Faggiano, Antonello d'Alessandro, Antonio De Raho, e così altri: "fermi con gli occhi fissi al canale" e "Diventammo venti, trenta sugli scogli, nessuno parlava, uno stare tanto zitti insieme non c'era mai stato." C'è la sua ragione. A largo hanno visto "la cosa", ossia le galee turche che, dirette a Brindisi, sono state spinte dalle condizioni del mare e dal vento di tramontana sulle coste di Otranto.
Ed ecco la consapevolezza e la paura prenderli al cuore. Uno di essi, Procomio, alzò le braccia e gridò: "Ooh, i turchi!" Le comanda il terribile Akmed Pascià, "un uomo furioso, ignorante e crudele". L'autrice usa l'artificio di far narrare ad alcuni protagonisti, i cui nomi dànno il titolo ai vari capitoli, i fatti che direttamente li coinvolgono, permettendoci così di entrare anche nei loro pensieri, e qui, nel primo capitolo, è Colangelo, un pescatore, che racconta, e già siamo conquistati dallo stile, cesellato di quiete e di garbo, di questa narratrice che, prima di scrivere questo romanzo di esordio, era già famosa per i suoi molti studi filologici, e che si mostra avvezza a passar per le mani frasi belle quali: "dava a vedere che ci contava per mosche" oppure: "come sentono battere i timpani" o "abbiamo ciascuno tanto corpo quanto un turco" e "i L'inizio".con quei colloqui sui bastioni delle mura della città, intrattenuti di notte dai pescatori messi di guardia, e mentre si leva la nebbia e appaiono e scompaiono ombre e visioni, mi ha ricordato le prime pagine dell'"Amleto", nel rimescolio di silenzi e di paure che qui e là s'incontrano. Si avverte sin dal principio, senza alcun inutile preambolo, che si sta approssimando "L'Ora di tutti", e che stiamo vivendo quel tempo indefinito – breve o lungo, chi può misurarlo? – che è l'attesa della morte, in cui tutto può succedere e si può diventare - superato perfino il nostro stupore - eroi o vili ("a ciascun uomo nella vita capita almeno una volta un'ora in cui dare prova di sé; viene sempre per tutti."), e quello di Vincenzo, messo così all'avvio del romanzo, è il grido di una disperata ribellione alla morte in difesa della vita: "Io fossi un re, ecco,"abolirei tutte le guerre." e "Qua molti di noi hanno da morire." Colangelo dirà più avanti: "Noi non abbiamo mai ammazzato un uomo." Il raccontare della Corti è "dolce e tranquillo", e lo sguardo è sempre pronto a cogliere con tenerezza i pensieri che si muovono dentro i protagonisti, mai abbandonati a se stessi, e amorosamente accompagnati verso quel destino già presentito e ineluttabile. Il soccorso atteso dai pescatori, infatti, non arriverà mai, il re don Ferrante d'Aragona non ha i denari necessari per inviare subito una spedizione al comando del figlio don Alfonso. I pescatori lo intuiscono, lo sanno. Le loro conversazioni si vestono a poco a poco della rassegnazione propria della fatalità e i loro sono sospiri che risaltano come tarsie. La bella Idrusa ("non mi lasciava mai la volontà di essere bella"), desiderata da tutti perché la donna più attraente che sia mai.
nata ad Otranto, fa la sua comparsa una notte con la dolcezza di un raggio di luna, ma il profumo della sua seduzione pare anch'esso vinto, lei che è stata capace di ispirare a Colangelo "l'idea che volesse appropriarsi di tutto, appropriarsi del dolore e della felicità del mondo."
La morte, sebbene ancora lontana, appena intuita, è compagna della memoria. La difende e la trae dai nostri recessi e, paradossalmente, per il tramite proprio della memoria, la morte ricompone la vita. Una specie di sortilegio e di fiaba si rinnoda dai primordi dell'esistenza, con il fascino di una rivelazione, anzi di una resurrezione che pareva impossibile e dimenticata: "gli spiriti del bosco, che si fanno beffe degli uomini e, al loro passaggio, dice che si cambiano in raggi di sole." e "da un lato c'erano le cose della vita [...]; dall'altro c'erano quelle poche che stanno celate dentro le prime [...], sicché"
alla fine uniche sopravvivevano e in piccolo corteo accompagnavano l'uomo alla morte". Assunta e Idrusa nascono, così, avvolte dalla poesia, nelle morbide vesti della memoria. Il romanzo si arricchisce via via dei lenti processi dell'attesa, della "nostalgia della partenza". Quando Colangelo, che nella notte sta ritornando alle mura, si accorge che la porta della cattedrale, dove sono stati radunati le donne, i bambini, i vecchi, è rimasta socchiusa, si affaccia e chiede al frate di poter parlare con Assunta e Alfio, suo figlio. C'è tutta l'atmosfera incombente e densa di ciò che noi sappiamo accadrà, e tuttavia siamo colpiti da quella consapevolezza rarefatta di una speranza dovuta e possibile. Tutto si muove con la finalità della tragedia storica, che resta sempre, anche quando ci se ne allontani, il punto focale della narrazione. Ogni sentimento, ogni gesto, ogni combinazione dei fatti, sussistono per condurre.L'autrice ci fa assistere all'assalto dei turchi alle mura di Otranto, ci mette a contatto con le morti dei personaggi ai quali ci eravamo affezionati, poi se ne allontana per percorrere ricordi e memorie, tutti segnandoli col marchio della fatalità, al modo che noi tocchiamo con mano una specie di congiura che spesso segna, senza che ce ne avvediamo, la nostra esistenza. E emergono le tristezze, la ferocia, l'ironia di un disegno che si è formato sopra di noi a nostra insaputa, e che ci ha destinati ad essere eroi, martiri, temerari o vili (come accade ai soldati spagnoli che fuggono appena scorgono le galee dei turchi), al di là della nostra libera scelta: "Chissà se qualche sventura sovrasta questa terra." e "Così possono comportarsi uomini umili, caduti nella rete di un grande destino". Sarà così anche per Idrusa, figura magnifica ed emblematica in questa storia, in cui convergono e si disegnano,
In un capitolo che ha, specialmente nella prima e nell'ultima parte, tratti di scrittura maiuscola, i labiliconfini tra sogno, felicità e tragedia. Finchè anche la morte, nonostante sia ancora vigoroso e desiderato il legame con la vita ("è tanto lungo il tempo che deve venire dopo, lasciatecene ancora un po'") non farà più paura: "Eccocom'è fatta la morte, ma non è una cosa tanto difficile. Mi pare che si possa proprio andare." E a smitizzare la morte, e forse addirittura a sconfiggerla (o a rivelarla, chissà?), sarà proprio l'autrice che, attraverso la particolare struttura del romanzo, non fa morire mai definitivamente i suoi personaggi, che riprendono a vivere allorché sarà, in un nuovo capitolo, un altro personaggio a ricordarli. Quasi che la morte, finalmente giunta, lasciasse scoprire che dentro di sé c'è come un nido di vita, una resurrezione.Che è la risposta che l'autrice dà a quella domanda disperata di Idrusa: "ma bastava prendere un capo delfilo, tirarlo ed ecco che scivolavamo ciascuno per conto suo in un grande mare; era così dunque? A uno non restava niente?" Il libro è anche un affettuoso, partecipato omaggio alla Puglia e agli otrantini: "Che uomini questi popolani. Come farà la storia a non perderne di vista nessuno?" e anche: "Chi lo direbbe che questa razza, se capita, fa quello che ha fatto contro i turchi. Che sia una forza del sangue?" Si vedano, inoltre, nel capitolo dedicato a Idrusa, le pagine che raffigurano le donne di Otranto ("Si riposavano ed avevano umore buono e tranquillo le donne senza i mariti") intente, all'ora del vespro, ciascuna davanti al proprio uscio di casa, alle loro abitudini secolari. E altrettanto belle sono le parole messe in bocca ad un altro dei protagonisti, don Felice Ayerbo d'Aragona.splendida figura che troverà il suo maggior risalto nel capitolo dedicato a Idrusa, e l'