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Il sovrapporsi di Aspasia e Fanny è certificato da una lettera di Antonio Ranieri alla stessa Fanny,
datata 13 gennaio 1838: “Aspasia siete voi; e voi lo sapete, o almeno lo dovreste sapere…”.
In “Aspasia”, così, abbiamo la demolizione del pensiero e della realtà d’amore. Una catastrofe del
sentimento che porta il poeta a sorridere amaramente alla realtà: ma, nel profondo, c’è un desiderio di
rinascita, di recupero di se stesso, che si espliciterà successivamente nelle “sepolcrali”, e nel ritorno alla
musicalità de “La ginestra”.
Dalla lettura della prima stanza, notiamo subito una forte rottura del verso dettata dagli
enjambements, che Leopardi ricompatta perfettamente. Dopo una galleria di immagini naturali
consuetudinarie, si definisce il ritratto della protagonista. Blasucci afferma che “Aspasia” potrebbe intitolarsi
“Ad Aspasia” perché ha la tipica fisionomia epistolare, anzi, sembra quasi un congedo (cfr. seconda lettera
citata). Ad avvalorare la tesi, si veda il vocativo al v.2, così come nell’epistola al Pepoli o nella palinodia al
Capponi.
Ma mentre l’inizio dell’epistola al Pepoli era affettuosa, l’esordio qui è lapidario, è una frase scolpita
nella pietra. Il successivo squarcio di luce richiama un po’ l’esordio di “Alla sua donna” con le due
disgiuntive. La figura di Aspasia torna come un flash, un lampo, nella “soave armonia” (sintagma dantesco)
del ricordo. Le “tacenti stelle” (v.5) rimandano al “Canto notturno” e preludono alla “Ginestra”; l’”erinni”
(v.10) è indicata anche da Saffo e sta per “furia amorosa”.
Con il ricordo della città di Firenze, ci si introduce nell’appartamento fiorentino di Fanny. Leopardi
presta – dice il Sangirardi - molta attenzione ai sensi, quindi alla concretezza e alla materialità (oltre che alla
carica erotica di Aspasia). C’è la grande descriptio del ricordo passato. E nel salotto, spunta l’unica notazione
di colore dedicata ad un personaggio, ovvero quel “del color vestita / della bruna viola” (vv.16-17), che è un
attributo fortemente settecentesco. Quello di Leopardi è un recupero del classicismo settecentesco in chiave
dissonante, una ricontestualizzazione.
Si diceva dell’impronta sensistica della donna. Fanny, infatti, era considerata una donna che non
frequentava solo il proprio marito. Ed è quindi dipinta come una grande “allettatrice” che non si cura delle
conseguenze di ciò. Basti pensare alla valenza lasciva che Leopardi attribuisce ai baci ai figli (vv.21-23). Al
v.32 l’”ululando” è richiamo alla belva ferita dell’immagine, virgiliana e petrarchesca dello strale.
Ai vv.33 e seguenti, la “beltà”, affiancata dai “musicali accordi”, viene paragonata ad un “raggio
divino”. Sugli effetti della bellezza e della musica, illuminante è il passo dello “Zibaldone” datato 24
settembre 1821: “La musica anche la meno espressiva, anche la più semplice ec, produce a prima giunta
nell’animo un ricreamento, l’innalza, o l’intenerisce…”.
Dal v.48, parte una stangata fortissima contro le donne: Leopardi effettua una ripresa del tema
misogino. Sembra inizialmente una ode pariniana dedicata alla bellezza dello stile, invece poco dopo parte
l’attacco. Leopardi si accosta così a molti temi tradizionali in maniera eterodossa, spiazza il lettore sempre
con nuovi rovesciamenti. La donna quindi non pensa alle conseguenze della sua beltà e dei suoi giochi di
sguardo. E l’idealizzazione che ne fa l’uomo è ingannevole: una volta entrata in contrasto con la realtà, “or
quell’Aspasia è morta che tanto amai” (vv. 70-71), “pur quell’ardore che da te nacque è spento” (v.77).
“Palinodia al marchese Gino Capponi”
È stata definita come un sermone in endecasillabi sciolti. Composta nel 1835 a Napoli, è una epistola
(l’unica presente nei “Canti” insieme a quella al Pepoli). L’edizione Starita si pone come discrimine tra i due
momenti del periodo napoletano (nel primo si ha il rifiuto dell’illusione, nel secondo, con “Il tramonto della
luna” e “La ginestra”, la definitiva resa all’ineluttabile). Di questo testo ci manca l’autografo; pertanto ci
basiamo su N35 o sull’edizione a stampa postillata.
Gino Capponi (1792-1876) è un uomo politico (senatore nel 1860), pedagogista (“Frammento
sull’educazione”, 1845), storico (“Storia della repubblica di Firenze”, 1875) e co-fondatore con Viesseux
dell’”Antologia” del 1821 e dell’”Archivio storico italiano”. Leopardi lo conosce nel 1827 a causa della sua
frequentazione del gabinetto Viesseux. Pare che Capponi sia stato l’unico a votare le “Operette morali” in
qualità di giurato di un concorso letterario, pur essendo uno dei maggiori esponenti della borghesia cattolica
fiorentina.
I personaggi influenti fiorentini, nel 1827, hanno accolto generosamente Leopardi, organizzando
anche una sottoscrizione per aiutarlo nel soggiorno; lui, nella “Palinodia”, li “ringrazia” parlando male di tutti
loro. Capponi gli risponderà poi in prosa, dicendo di essere stato stuzzicato da argomenti interessanti, ma di
voler comunque mantenere segrete le coordinate del suo diverso sistema, pur ammettendo l’ammissibilità di
alcune parti del testo leopardiano.
Leopardi arriva a Napoli nel 1833 con Ranieri dopo l’ultimo soggiorno fiorentino del 1832.
Se in “Aspasia” denuncia la bellezza come fonte delle pene dell’amore, nella “Palinodia” denuncia le
illusioni e i facili ottimismi proposti dalla società contemporanea con tono satirico, qualità che la trasforma in
un unicum nei “Canti” (ne “Al conte Carlo Pepoli” la satira non raggiunge queste vette; in “Aspasia” appare
in qualche apostrofe). Qualcosa di simile, invece, vi è all’esterno dei “Canti”: “I nuovi credenti”, scritto dopo
l’uscita della Starita e non inserita nell’edizione postuma del 1845 per volontà dello stesso autore, in cui vi
sono precisi riferimenti a personaggi contemporanei; i “Paralipomeni”; il “Dialogo di Tristano e di un
amico”, scritto a Firenze nel 1832 e comparso nell’edizione seconda delle “Operette” di Firenze (1834).
“Palinodia” e “Dialogo” andavano, peraltro, a chiudere l’una i “Canti” (1835) e l’altra le “Operette morali”
(1834). In effetti si trattava di due testi analoghi per via del ricorso alla satira e alla finta palinodia (che è la
ritrattazione di idee precedentemente espresse) e per il disaccordo con la felicità delle grande massa,
sostenuta anche dalla chiesa e dall’aristocrazia.
Alcuni ritengono che sotto le spoglie dell’amico di Tristano si celi il Capponi stesso: la finta palinodia
funge da introduzione, ma lascia presto spazio al rafforzamento delle idee di partenza. Nel mirino non c’è
solo il facile ottimismo della società contemporanea, ma la denuncia dell’infelicità, non personale, semmai di
tutta l’umanità. Un tratto differenziante è però nel finale delle due opere: il “Dialogo” apre cautamente alla
speranza (“Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro con tutta l’anima ogni
miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente il buon volere…”); nella
“Palinodia” invece la finzione prosegue, sarcastica, fino al termine (vv.275-278: “Ridi, o tenera prole: a te
serbato / è di cotanto favellare il futuro; / Veder gioia regnar, cittadi e ville, / Vecchiezza e gioventù del par
contente”).
Nella “Palinodia”, va specificato, c’è un’alternanza tra il discorso di sincerità e il discorso di
simulazione, con grande preponderanza del secondo; la sincerità è usata direttamente e scopertamente, la
simulazione tramite procedimenti antifrastici e il linguaggio eroicomico (ovvero, l’eroico-comico, l’eroico
dei finti eroi), di suggestione pariniana.
Il canto inizia con un verso petrarchesco (“Il sempre sospirar nulla rileva”), che segnala la forte
volontà leopardiana di esibire le citazioni letterarie. Al v.1, “errai” è incipit pariniano, ne “La notte”, e del
Della Casa, nelle “Rime”, che aveva errato nella poesia amorosa.
A livello lessicale, si segnalano subito novità e caratteristiche importanti: l’”insulsa” del v.3 è hapax
nei “Canti”; il linguaggio del tragico e dell’eroico viene recuperato, sì, ma anche desublimato grazie
all’accostamento di termini comuni e non poetici. Si veda, ad esempio, il “crepitanti pasticcini” del v.15, che
vede l’unione di un termine omerico e di uno non certo poetico. Ma si ponga attenzione anche alla “beata
prole” dei vv.5-6, avvilita ad “umana specie” al v.13.
La descrizione del caffè prepara all’immagine successiva, configurandosi come un richiamo
all’omologazione e alla spersonalizzazione anche attraverso l’uso del lessico militare (“al grido / militar, di
gelati e di bevande / ordinator”, vv.15-17) e l’uso di indicazioni cardinali reali ma riferite alla colonizzazione,
che preparano il discorso sulle guerre coloniali. In chiusura di strofa, l’Apollo che cerca di afferrare Dafne
viene demitizzato e rappresenta l’umanità che rincorre la felicità e la bellezza raffigurata dalla moda effimera
del boa.
Nella seconda strofa inizia il richiamo dell’età dell’oro; ogni giornale è vario per lingua e
formattazione, ma in realtà propugnano tutti gli stessi ideali ottimistici. Anzi, sono proprio le Gazzette ad
annunciare la nuova età dell’oro. Fra gli elementi che uniranno i popoli, l’”universale amore”, le macchine a
vapore, ma anche il “cholèra”. Il tutto secondo un’idea di progresso inarrestabile, “poiché di meglio in
meglio / senza fin vola e volerà mai sempre / di Sem, di Cam e di Giapeto il seme” (vv.52-54).
Nella terza strofa si incrina, in parte, la finta palinodia. Dalla simulazione, si passa ad un sincero
discorso critico sulla situazione attuale. Gli uomini valorosi saranno “afflitti e vinti” (v.73), in quanto la
natura (che compare per la prima volta nella “Palinodia”) da sempre e sempre li inabiss