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INQUIETA RELIGIOSITÀ E GLI NNI ACRI
La conversione manzoniana non fu l’effetto di un’illuminazione
immediata, ma un punto d’arrivo di una ricerca che mirava a ritrovare
valori unitari e universali, al di là del culto della virtù individuale e
delle delusioni causate dal razionalismo illuministico. Manzoni non
abbandona la sua formazione illuministica per sposare in pieno un
cattolicesimo irrazionale e romantico, ma cerca il raggiungimento di
una razionalità più ampia e universale. Si tratta di un cattolicesimo
problematico e mosso da un tentativo di sposare le forme concrete e
frammentarie della realtà storica con il “dover essere” dei principi
basilari del Cristianesimo: Manzoni, sulla scia dei giansenisti, evita le
facili scorciatoie e le mediazioni tra essere e dover essere, ed è
convinto dell’idea che la fusione tra le due entità possa darsi solo nel
regno divino. A questa posizione intellettuale si sposa bene la
definizione data dal De Sanctis, che parla di un calato nel
«ideale
reale», ovvero di una ricerca rivolta a far vivere l’ideal cristiano nella
storia. In realtà in questa tensione spirituale convivono anche tutte le
resistenze e le censure personali del Manzoni, quasi una spinta
interiore che fa comprendere come l’autore utilizzasse la religione
anche per difendersi dagli aspetti distruttivi della sua personalità.
Primo esempio della poesia all’indomani della conversione sono gli
Inni Sacri, che abbandonando di colpo i modi della poesia neoclassica.
Il progetto è quello di dodici componimenti che celebrino le festività
fondamentali della liturgia cattolica, col proposito di rifarsi ai modelli
della poesia cristiana medievale. Manzoni ne compone quattro tra il
1812 e il 1815 (La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale e La Passione) e
a partire dal 1817 iniziò la composizione de La Pentecoste, unico
ulteriore inno portato a termine. Manzoni esprime in questi
componimenti un suo bisogno di aderire a una comunicazione corale e
solidale, che si rinnova nel circolo chiuso delle ricorrenze cattoliche che
ritornano, quasi un segno eterno della mutevolezza della storia. In
questo senso gli inni ripropongono la rievocazione dell’evento mistico
accaduto una volta eppure perpetuamente rinnovato. Il tono
democratico si concentra sulla riflessione sugli umili e gli oppressi, tutti
accomunati dalla suprema dignità della persona umana. Questa poesia
è caratterizzata da una fisicità seppure simbolizzata e da una vigorosa
conflittualità: in essa si addensano figure concrete mentre il ritmo
vorrebbe addensare il tutto in un’unità simbolica. Gli inni vorrebbero
imporsi con energia e vigore ma spesso si riducono a elementi
schematici e a materiali linguistici stridenti: se da un lato alcune scelte
di inedita asprezza colpiscono nel segno, dall’altro sussistono alcuni
schemi melodrammatici ancora tradizionali. Siamo comunque lontani
dagli schemi petrarcheschi e armonici: Manzoni sembra partorire il
proprio linguaggio proprio da un ostinato sforzo di volontà e gli Inni
Sacri rappresentano una lirica finalmente nuova, oggettiva e corale.
L’inno più riuscito è sicuramente La Risurrezione, in strofe di ottonari,
dal ritmo incalzante e che esprime la gioia del rinascere nella vita.
L’ultimo inno sacro ha una difficile gestazione in tre redazioni
diverse, l’ultima delle quali è datata ottobre 1822. Ne La Pentecoste
composta di diciotto strofe di otto settenari piani e sdruccioli, si
attenua l’asperità dei precedenti inni e si avverte una forte eco
dell’innografia cristiana. La lirica è come trascinata da una forza
vivificante dello Spirito, distendendosi in un ritmo dolcemente
liturgico capace di fondere in un perfetto equilibrio i segni della realtà
umana, naturale e divina. Il Natale del 1833, composto in occasione
dell’anniversario della morte di Enrichetta tra il 1834 e il 1835 in
ottonari e settenari, fa emergere frammenti dolorosi di angoscia e
fede, in cui il poeta tormentato dalla morte della moglie si confronta
con un Dio terribile. Il frammento dell’inno Ognissanti in quartine di
ottonari tocca invece il tema della santità solitaria, priva di
comunicazione con il mondo: un vasto movimento simbolico tende a
cercare qualcosa di segreto e inafferrabile, come se Manzoni andasse
ormai oltre l’equilibrio razionale della sua ideologia religiosa.
3. L A SCRITTURA TRAGICA
L’interesse per la tragedia si legò in Manzoni al più largo interesse
del Romanticismo per i generi drammatici e all’approfondita lettura di
Shakespeare ad opera dei nuovi drammaturghi, innanzitutto Goethe e
Schiller. Dopo il 1815 Manzoni elaborò una sua idea di tragedia storica
di ampio respiro, che rifiutava le consuete unità aristoteliche di tempo,
spazio e azione, e mirava a suscitare nel pubblico meno
immedesimazione con le passioni dei personaggi che una complessa
coscienza critica capace di distinguere tra il bene e il male. In particolar
modo nella Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité des temps et de lieu dans
la tragédie, Manzoni si oppone alla tragedia classica incentrata sui
desideri (che compressi nell’unità di luogo e tempo diventano
eccessivi) e intende la propria tragedia storica come messa in luce dei
patimenti e dei dolori che suscitano impressioni che avvicinano alla
virtù: gli eroi tragici devono essere, secondo il realismo cristiano, degli
innocenti – ovvero non degli aristocratici idealizzati – la cui sofferenza
mostra i limiti della nostra esistenza terrena e la necessità
dell’espiazione, della speranza e della rassegnazione alla volontà
divina. Manzoni controbatte le accuse mossegli da un critico francese
opponendogli le teorie romantiche allora in voga: le regole di unità di
luogo sono assurde perché impediscono la ricostruzione della verità
storica, che deve essere oggettiva e incondizionata.
La mancanza di precedenti nella tradizione italiana dà conto della
difficoltà di stesura del Conte di Carmagnola, iniziato nel 1816 e dato alle
stampe dopo varie stesure solo nel 1820. In cinque atti di endecasillabi,
Manzoni mette in scena la vicenda del condottiero quattrocentesco
Francesco Bussone, vincitore della battaglia di Maclodio ma accusato di
tradimento e condannato a morte dal governo della repubblica di
Venezia. Manzoni accetta la tesi errata dell’innocenza del Conte e,
dopo varie ricerche storiche, ne fa portatore di un ideal virtuoso di
contro al machiavellismo degli uomini politici veneziani. L’azione
procede per stazioni separate dal momento in cui il Senato affida il
comando delle truppe al Carmagnola, fino al sospetto che la
liberazione dei prigionieri da parte del Conte sia frutto di tradimento.
Se lo scontro tra il personaggio e il potere machiavellico è abbastanza
schematico, il linguaggio invece ricerca una nuova carica comunicativa
sebbene ancora intrisa di classicismo. Il punto più alto di tutta la
tragedia è sicuramente S’ode a destra uno squillo di tromba, il coro della
battaglia di Maclodio in strofe di endecasillabi, collocato tra l’atto II e
il III, come un cantuccio che il poeta riserva a se stesso. Esso ha una
funzione essenzialmente straniante, che introduce un punto di vista
estraneo all’eroe e ai personaggi, come a mostrare la profonda
irrazionalità della virtù militare stessa: la guerra non è l’esito
inevitabile di uno scontro che vede gli italiani uccidersi tra di loro,
schiavi di poteri stranieri. Ma questo orizzonte nazionale si allarga
anche a una condanna generale alla violenza della guerra, a una
umanità immersa nella lotta per la sopraffazione.
Nel novembre del 1820 Manzoni mise mano all’Adelchi, una tragedia
incentrata sulla caduta del dominio longobardo in Italia in seguito alla
discesa dei Franchi di Carlo Magno, chiamati dal papa: siamo nel 772
d.C. e quegli eventi destavano molto interesse nella cultura
contemporanea, oltre a suggerire confronti con avvenimenti recenti che
avevano visto la Lombardia preda dello scontro tra Francesi e
Austriaci. Rispetto alla precedente tragedia, l’Adelchi ha una struttura
più aperta e decentrata: non procede per stazioni successive ma per
tensioni e punti di vista contrapposti, dove ai dati storici si
sovrappongono i contrastanti elementi morali e patetici. Proprio per
queste contraddizioni Manzoni ricorre all’endecasillabo sciolto piano e
scorrevole, che riduce al minimo le fratture e le difficoltà sintattiche. Il
I atto si apre con il ritorno di Ermengarda, figlia del re longobardo
Desiderio e sorella di Adelchi, ripudiata come sposa da Carlo Magno;
il II atto invece si svolge sul campo dei Franchi in Val di Susa, che
tentano di sfondare il passaggio delle Alpi; nell’atto III i Franchi
riescono grazie ai traditori ad assaltare di sorpresa le truppe
longobarde (alla fine dell’atto il coro Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti
in dodecasillabi mostra l’immutata oppressione delle genti, pur anche
nel passaggio dal dominio longobardo a quello franco); l’atto IV inizia
con il delirio e l’avvicinarsi della morte di Ermengarda; l’ultimo e V
atto invece si svolge nel palazzo di Verona dove Adelchi tenta
un’estrema resistenza e si conclude con l’incontro tra l’Adelchi
prigioniero, Desiderio e il nemico Carlo Magno.
Nella tragedia il candore di Ermengarda e Adelchi, non responsabili
delle ingiustizie commesse dalla propria stirpe e condannati alla
sconfitta proprio perché puri, si scontra con lo spregiudicato realismo
politico e i compromessi del potere, incarnati dalla figura di Carlo
Magno. Il dramma dei due protagonisti positivi sta tutto nel loro
rifiuto dei rapporti di potere: precisamente, Ermengarda è una vittima
remissiva e una sposa ripudiata che vive nei ricordi felici e si proietta
nella pace cristiana che può venire solo con la morte, l’oblio e
l’annullamento. Il coro Sparsa le trecce morbide accompagna in settenari
sdruccioli, piani e tronchi la morte di Ermengarda con un grande
respiro sinfonico: la sventura» colloca il personaggio tra gli
«provvida
oppressi e lo riscatta dalla colpa non sua di appartenere alla stirpe
degli oppressori. Anche Adelchi vorrebbe collocarsi al di fuori dello
spazio teatrale, apparendo come eroe tragico più tradizionale la cui
virtù eroica non può mai dispiegarsi come vorrebbe e lo costringe ad
adattarsi ai voleri del padre Desiderio: anche per Adelchi la morte è
l’unico spazio possibile per l’universalità umana, il ritrovamento
dell’essenza più pro