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Arcadis hìnc sedes èt inhòspita tècta tyrànni
17
ingrediòr, traherènt cum sèra crepùscula nòctem.
(sarebbe lungo raccontare quanta arroganza ho ritrovato
ovunque: la stessa infamia erano inferiori del vero.
Avevo attraversato il Menalo, orrendo per nascondigli delle fiere
e insieme con Cillene le pinete del gelido Liceo:
18 19
qui entro nel palazzo inospitale [=nelle sedi e i tetti ] del tiranno arcade,
quando ormai il crepuscolo si stava tramutando in notte [=quando i tardi crepuscoli trascinavano
la notte])
16 Plurale maiestatis.
17 Anastrofe.
18 Enallage, perché ovviamente non è il palazzo ma il tiranno ad essere inospitale.
19 Endiadi.
Giove gira per il mondo e scopre che gli atti di hybris sono molto numerosi; il culmine dell’hybris
si ha in Arcadia. La scelleratezza dell’Arcadia, quando Giove l’attraversa, è sottolineata anche dai
suoni cupi dei suoni dei versi: c’è una predominanza di suoni cupi (vocali chiuse, la o e la u), forte
presenza delle r (latebris horrenda ferarum).
Licaone viene subito presentato come un tiranno: il tiranno ha una connotazione negativa,
poiché denota colui che governa senza diritto. Inoltre è anche inospitale: non ci sono quindi fin da
subito dubbi sul personaggio che ci troviamo di fronte. Inoltre l’atmosfera è crepuscolare, come
ben si addice all’apparizione di un uomo lupo.
220 signa dedì venìsse deùm, vulgùsque precàri
coeperat: ìnridèt primò pia vòta Lycàon,
mox ait “èxperiàr deus hìc discrìmine àperto
an sit mòrtalìs: nec erìt dubitàbile vèrum.”
(diedi un segno che stava arrivando un dio, e il popolo cominciò
a pregare: ma per primo Licaone ebbe l’ardire di irridere i pii voti
e subito disse: “sperimenterò con una prova certa se questo sia dio
o piuttosto un mortale: e la verità non sarà dubitabile”)
Qui c’è un esempio della cosiddetta teoxenìa, ossia di ospitalità divina: è un tipico elemento delle
narrazioni folkloriche sugli dei. Si tratta di un dio che chiede ospitalità a un uomo, e può farlo o
presentandosi come divinità a tutti gli effetti o sotto mentite spoglie. Per comprendere meglio il
carattere negativo dell’episodio qui narrato, bisogna confrontarlo con un exemplum positivo: il più
famoso è certamente quello di Filemone e Bauci, presente nelle stesse Metamorfosi (VIII libro).
Filemone e Bauci furono gli unici ad ospitare Giove fra quelli della loro città, arrivando ad offrire al
dio la loro unica oca; per ricompensarli Giove concede loro di morire insieme, e dopo la loro morte
trasforma la loro casa in un tempio e loro stessi in alberi avvinghiati, e inondò invece la città empia.
Licaone si dimostrerà estremamente inospitale. A differenza che per Filemone e Bauci, qui Giove
si presenta subito come divinità. Il primo elemento di hybris di Licaone è quello di irridere i pii voti,
di prendersi gioco della divinità; ma non si limita a questo: vuole addirittura mettere alla prova lui
stesso il dio. Ma la cosa forse più interessante è che si oppone la razionalità alla pietas: l’uomo
che, davanti a uno che dice di essere un dio, vuole delle prove. Il lessico con cui si esprime
Licaone è effettivamente un lessico razionale: experiar, vuole cioè avere una verità sperimentale,
come anche nec erìt dubitabile verum. Si mostra l’arroganza di chi crede di poter dominare e
comprendere tutto con la ragione: la razionalità quindi è in realtà hybris, mentre l’ignoranza
(Filemone e Bauci) è virtù. L’hybris di Licaone è quindi da una parte l’irrisione, dall’altra l’arroganza
della ragione.
nocte gravèm somnò necopìna pèrdere mòrte
225 comparat: haèc illì placet èxperièntia vèri;
nec contèntus eò, missì de gènte Molòssa
obsidis ùniùs iugulùm mucròne resòlvit
atqu(e) ita sèminecès partìm fervèntibus àrtus
mollit aquìs, partìm subiècto tòrruit ìgni.
(di notte si prepara a distruggermi mentre sono gravato dal sonno
con una morte inaspettata: questa esperienza della verità gli piace;
non contento di questo, taglia con un pugnale la gola
di un prigioniero mandato dalla popolazione dei molossi
e, mezzo morto, lo fa a pezzi e in parte
lo fa bollire, in parte lo fa alla piastra)
Oltre gli altri elementi di hybris, aggiunge quello più grave di tutti: uccide un prigioniero. Questo è
così grave perché gli ostaggi non sono quello che intendiamo noi oggi: gli ostaggi venivano ospitati
nel paese rivale come garanzia per rispettare un trattato fra due paesi in conflitto. L’ostaggio non
era quindi un prigioniero ma un ospite, che veniva trattato bene. Uccidere un ostaggio che era
stato scambiato da una popolazione nemica ma con la quale era stato stipulato un trattato di pace,
significa venir meno ancora una volta alla legge dell’ospitalità e alla parola data. Quindi Licaone
commette una doppia trasgressione dell’ospitalità: nei confronti di Giove e nei confronti del
molosso. Inoltre lo cucina e lo propone in pasto a Giove.
Fa questo per mettere alla prova il dio. In questo è simile al mito di Prometeo, mitico inventore
del sacrificio, che durante un banchetto mise alla prova Giove sacrificando un animale e
dividendone in due parti i resti: da una parte mise le carni buone, dall’altra le ossa però ricoperte
da grasso lucente; chiese poi a Zeus quale volesse, ed egli prese quella più bella accorgendosi
che sotto erano solo ossi. Ma ancora più simile è il terribile mito di Tantalo, che imbandì le carni del
suo stesso figlio. Tutti questi miti forse rimandano a riti realmente accaduti di sacrifici umani, anche
infanticidi, che avvenivano nel monte Liceo, proprio nella zona da cui proviene Licaone.
Giove però questa volta comprende l’inganno e subito punisce Licaone:
230 quod sìmul ìnposuìt mensìs, ego vìndice flàmma
in dominò dignòs evèrti tècta penàtes;
territus ìpse fugìt nactùsque silèntia rùris
exululàt frustràque loquì conàtur: ab ìpso
colligit òs rabièm solitaèque cupìdine caèdis
235 vertitur ìn pecudès et nùnc quoque sànguine gàudet.
(non appena lo portò in tavola, io vendicandomi attraverso la fiamma,
feci crollare sul padrone di casa la dimora degni penati.
Spaventato, fugge e, dopo aver raggiunto il silenzio della campagna,
ulula e invano prova a parlare: la sua gola
raccoglie la rabbia e si volge contro le greggi per la brama
della consueta strage, e ancor oggi gioisce del sangue)
È molto interessante vedere come la metamorfosi sia una sorte di metafora: deve cioè esserci un
legame fra le caratteristiche di chi si trasforma e la cosa in cui si trasforma: Licaone si trasforma in
lupo, non poteva trasformarsi ad esempio in pecora. La rabbia e la brama di fare strage
accomunano entrambi: infatti Ovidio dice solitae, cioè la brama della solita strage; dice anche nunc
quoque, per esprimere una gioia per il sangue che dura ancor oggi, come c’era anche prima.
236 in villòs abeùnt vestès, in crùra lacèrti:
fit lupus èt veterìs servàt vestìgia fòrmae;
20
canitiès ead(em) èst, eadèm violèntia vùltus,
239 id(em) oculì lucènt, eàdem feritàtis ìmag(o e)st.
(le vesti si trasformano in pelo, le braccia in zampe:
diventa lupo e mantiene le sembianze dell’antico aspetto;
il colorito bianco del pelo è il medesimo, la stessa è la violenza del volto,
20 Sinalefe, “m caduca”.
uguali gli occhi che rilucono, medesimo l’aspetto della violenza)
Viene descritta la trasformazione in lupo. È una trasformazione che è stata definita
“isomorfismo”: il simile cioè si trasforma in qualcosa di simile; le braccia diventano zampe anteriori,
i vestiti diventano pelo ecc. (ad esempio un orecchio non può diventare una zampa).
Viene sottolineato che mantiene le sembianze dell’antica figura, a indicare come la metamorfosi
trasformi comunque in qualcosa di simile all’uomo: Licaone aveva già dentro di sé qualcosa di
simile al lupo. Sottolinea la continuità fra l’uomo e il lupo ripetendo quattro volte il pronome idem.
Attraverso tutti questi elementi, si nota bene come in questa prima metamorfosi vengano molto
più sottolineati i caratteri di analogia che non quelli di differenza, come vengano marcati con più
insistenza i caratteri che rimangono uguali che non quelli di differenza. Probabilmente non è un
caso: Ovidio forse ha bisogno di rendere più “accettabile “ la prima metamorfosi; prima di lui infatti
nessuno aveva mai tentato un poema che avesse per oggetto la metamorfosi. La prima
trasformazione in questo senso è accettabile perché il lupo era già presente nella sua natura.
Inoltre il lupo come sinonimo di malvagità per l’uomo era un detto molto diffuso: basti pensare al
famoso detto homo homini lupus; quindi immaginare un uomo malvagio che diventi un lupo era già
più facile da accettare che non ad esempio rispetto a una povera Dafne che si trasforma in una
pianta.
240 occidit ùna domùs, sed nòn domus ùna perìre
digna fuìt: qua tèrra patèt, fera règnat Erìnys.
in facinùs iuràsse putès! dent òcius òmnes,
quas meruère patì, (sic stàt sentèntia) poènas.'
(perì una sola stirpe, ma non soltanto una stirpe era stata degna
di morire: per quanto si estende la terra, regna la terribile Erinni.
Avresti potuto pensare che congiurassero delitti! Presto tutti scontino
la pena che hanno meritato di soffrire, questa è la decisione’)
Il v. 240 è orchestrato in maniera magistrale intorno a una struttura chiastica: il verbo all’inizio,
poi una domus, poi domus una e infine il verbo, e entrambi i verbi legati all’idea del morire.
Giove conclude il discorso dicendo che egli ha punito un solo uomo, ma non uno solo, fra quelli
dell’età del ferro, avrebbe meritato la rovina.
Le Erinni sono le divinità punitrici de