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La vanità di tutte le cose e l’insoddisfazione umana, la nostra tendenza verso un infinito che non comprendiamo, derivano da una
ragione semplicissima, tutta materiale più che spirituale, ossia al fatto che l’anima umana desidera sempre il piacere, ovvero la
felicità. Questo desiderio non ha limiti in quanto è parte integrante della vita umana (smettiamo di desiderare solo quando moriamo)
– né per durata, perché appunto non finisce se non con l’esistenza, né per estensione, perché sostanziale in noi.
Ora, in realtà non esiste nessun piacere che sia illimitato nel tempo, eterno, né nello spazio, quindi che sia immenso, perché la
natura delle cose vuole che tutto sia circoscritto e particolare. Tuttavia, l’uomo non aspira a un piacere particolare, ma a il piacere,
nonostante non lo concepisca, perché non ci si può creare un’idea di una cosa che l’uomo desidera come illimitata.
Venendo alle conseguenze: se un uomo desiderasse un cavallo, gli sembrerebbe di desiderarlo come un tal piacere, ma in realtà lo
pensa come astratto e, una volta ottenuto, gli resta un vuoto nell’animo poiché il suo desiderio non è appagato.
Qualora lo fosse per estensione, non lo sarebbe per durata, perché nulla è eterno; e posto anche che una qualunque cagione che gli
ha dato un piacere una volta gli resti sempre, come la ricchezza, comunque resterebbe meramente materiale, perché un’altra
proprietà delle cose è che tutto si logori, e che l’assuefazione toglie sì il dolore, ma spegne il piacere.
Se poi l’uomo riuscisse a provare un piacere eterno, il suo animo non rimarrebbe lo stesso appagato, perché il suo desiderio è anche
infinito per estensione, e pertanto desidererebbe o piaceri nuovi, o un piacere che riempisse tutta l’anima.
QUINDI IL PIACERE è UNA COSA VANISSIMA SEMPRE, come sua caratteristica particolare, al contrario del dolore e della noia,
che non hanno invece questa qualità. Il fatto è che l’anima desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; e tutti i piaceri devono
essere misti al dispiacere (piacere figlio d’affanno).
Passiamo ora alla tendenza che l’uomo ha verso l’infinito. Infatti l’uomo, al di là del desiderio del piacere, ha una grandissima facoltà
immaginativa in grado di concepire le cose come non sono, e che si occupa principalmente di immaginare il piacere. E può
immaginare questi piacere infiniti in numero, durata ed estensione; pertanto, il piacere infinito che non può trovare nella realtà, lo
trova nella sua immaginazione, dalla quale derivano la speranza, che è quindi sempre maggiore del bene, e le illusioni, tutto ciò di
cui consiste la felicità umana, insieme con l’immaginazione.
Bisogna, allora, ammettere e considerare la grande misericordia della natura, che non potendo privare l’uomo dell’amor del piacere,
necessario alla sua conservazione e sussistenza, ma non neppure fornirgli dei piaceri reali infiniti, ha voluto supplire e regalare
all’uomo sia le ILLUSIONI, di cui è stata liberalissima perché poteva anche non farlo; sia l’immensa varietà, di modo che qualora un
uomo si stancasse di un piacere potesse sempre passare ad un altro, oppure supplire con la grande varietà delle cose.
Immediata conseguenza di ciò è la superiorità degli antichi sui moderni in ordine alla felicità.
1) essendo l’immaginazione la prima fonte della felicità umana, l’uomo sarà sempre più felice tanto più che questa regnerà in lui,
come è evidente nei fanciulli. Ma l’immaginazione non può regnare senza l’ignoranza, quella tipica degli antichi. In realtà, la facoltà
immaginativa è molto più presente negli istruiti che non negli ignoranti, ma lo è solo in atto e non in potenza, operando quindi molto
più negli ignoranti. Ma questo perché la natura non ha voluto che l’uomo considerasse l’immaginazione come tale, ovvero che la
considerasse come facoltà ingannatrice, ma che invece la considerasse facoltà conoscitrice, e che concepisse, pertanto,
l’immaginazione come fatto reale. Ma ora le persone istruite, pur avendo la capacità di illudersi, la concepiscono come tale, se ne
accorgono, e la seguono più per volontà che per persuasione, al contrario degli antichi, degli ignoranti e dei fanciulli.
2) sebbene gli antichi non trovassero i piaceri infiniti, quanto meno li vedevano grandissimi; la natura non voleva che sapessimo, e
quindi l’uomo primitivo non era a conoscenza del fatto che non poteva essere soddisfatto dal piacere. Ma lui, concependo ciascun
piacere grandissimo, esteso illimitatamente, speranzoso di piaceri maggiori, conseguiva il FINE DELLA NATURA, che è quello di
vivere se non proprio appagati interamente dalla vita, almeno contenti della vita in generale.
3) Così come il desiderio del piacere, anche la speranza è infinita, ed ha la forza non di soddisfare l’uomo, ama di riempirlo di
consolazione, mantenerlo in vita. Oggi, la speranza propria dell’uomo, degli antichi, dei fanciulli e ignoranti, è praticamente assente
nell’uomo sapiente.
La pena dell’uomo nel provare un piacere è vedere subito i suoi limiti per estensione, ragion per cui:
1) i beni sono più belli da lontano e l’ignoto è più bello del noto, per effetto delle illusioni.
2) perché l’anima preferisce il bello aereo, le idee infinite, di cui abbondavano gli antichi e i loro poeti, tra cui Omero, i fanciulli,
veramente omerici, gli ignoranti. Ed è per questo che il sapere, la cognizione, ne fa strage e per noi è difficilissimo il provarne. Per