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L’incontro fra Pietro Germi e il produttore Luigi Rovere porta alla realizzazione di tre film: In nome

della legge (1949), che inaugura una fase nuova e importante del cinema di Germi segnando la sua

maturazione nella capacità di imprimere al racconto il ritmo incalzante e l’impatto visivo di una

rappresentazione fortemente partecipata ed emozionale, Il cammino della speranza (1950) e Il

brigante di Tacca del Lupo, film con forti riferimenti al cinema di John Ford che traghetta una

rappresentazione della lotta contro il brigantaggio dai toni cronistici e antiretorici sullo sfondo della

società meridionale.

Il rapporto con Rovere si chiude all’uscita di quest’ultimo film.

Il viaggio nei generi

Il mercato è dominato dal film comico e dal melodramma, e anche la Lux si adegua, producendo

L’imperatore di Capri (1949) che Luigi Comencini accetta di dirigere. Il passaggio dal comico al

melodramma avviene con Persiane chiuse (1951). Finita la fase di apprendistato tecnico il regista

può ora avventurarsi nel progetto di Pane, amore e fantasia (1953), film campione d’incassi della

stagione.

Il rapporto con la cronaca, lo spunto di attualità, lo scatto dell’indignazione sono i tratti distintivi del

cinema di Luigi Zampa (Anni facili, Anni difficili, Processo alla città, L’arte di arrangiarsi).

Mario Soldati, eclettico iperattivo

L’iperattivismo i Mario Soldati gli fa girare nel periodo una decina di film per le più diverse società

e dei più svariati generi.

La televisione all’orizzonte

La disponibilità di Soldati può anche essere l’espressione dell’allegra dissipazione di uno

straordinario talento letterario che, costretto a lavorare per il cinema, scopre masochisticamente di

non riuscire mai a toccare il fondo. Ma nella carnevalizzazione del ruolo dell’autore si avverte la

lungimirante prefigurazione del cambiamento epocale implicito nell’imminente avvento della

televisione italiana, che debutta il 3 gennaio 1954.

Il palinsesto della prima televisione nazionale non solo si alimenta di cinema ricorrendo ai cicli di

film, destinati a moltiplicarsi nella proliferazione selvaggia dei decenni successivi, ma assorbe

spunti, suggestioni, interferenze del film a episodi, dell’adattamento letterario al fatto di cronaca,

fermandosi solo davanti all’irriducibilità dei generi forti, dal peplum al western, nei confronti dei

quali scattano meccanismi di rimozione e censura.

La lente smisurata

Sempre più ci si accorge, col successo del cinema d’autore nazionale, dell’importanza rivestita dagli

sceneggiatori. Il problema di questo ruolo è però quello di essere perennemente sospeso tra il polo

del semplice collaboratore di un progetto di cui ignora l’esito ultimo, a quello di un co-autore,

capace di reggere le fila dell’intera lavorazione.

La situazione non cambia se nel ruolo di sceneggiatore si trova uno scrittore, come ad esempio

Vitaliano Brancati, che nella ventina di film realizzati da solo o in collaborazione, raramente è

riuscito a far affiorare il suo contributo personale.

Viaggio nel ventennio

Anni difficili, uno dei primi e amari viaggi a ritroso nel ventennio, suscita all’epoca un grande

polverone e rischia persino di essere sommerso dalle polemiche se non trovasse paradossalmente

due difensori d’eccezione in Giulio Andreotti e Palmiro Togliatti.

Gli umori beffardi

Negli altri film in cui prosegue la felice collaborazione fra Brancati e Zampa, da Anni facili (1953) a

L’arte di arrangiarsi (1954), si impone la ricognizione del malcostume dilagante ai vari livelli della

vita sociale, della corruzione e del clientelismo.

La componente tragica

Nei decenni successivi alla morte dello scrittore alcuni dei suoi romanzi più noti sono arrivati sullo

schermo in trasposizioni spesso molto libere (Il bell’Antonio). Sarebbe assurdo vedere o rivedere

con i libri in mano questi e altri film d’ispirazione letteraria, per verificare la corrispondenza tra

romanzo e film con il criterio del questo c’è/questo non c’è.

Il più brancatiano

Se invece l’avvio letterario è visto come suggestione ideale, fonte immaginativa, spunto creativo, le

tracce brancatiane possono essere ricercate anche, se non soprattutto, in film dove il nome dello

scrittore non appare neppure nei titoli di testa. Il più brancatiano è allora Divorzio all’italiana

(1961) di Germi, in cui la Sicilia “frontiera sociale” cede il passo alla Sicilia “frontiera passionale”

e il regista è convinto che nell’isola tutti i difetti, le remore, gli errori della società italiana si

ingigantiscano e si esasperino. L’illusionismo voyeuristico

Antonio Leonviola, con Rita da Cascia (1943), si segnala, nel clima del dopoguerra contrassegnato

dal neorealismo, come autore visionario attratto dal luccichio della finzione. In tutti i suoi film

successivi, fra cui si ricorda l’ultimo I giovani tigri (1967), vi è l’ulteriore conferma che i contenuti

narrativi passino in seconda linea nei confronti del linguaggio filmico e della sperimentazione

espressiva. Immagine di un’immagine

La Lux Film si viene imponendo tra anteguerra e dopoguerra nel panorama cinematografico

nazionale, grazie al lavoro di illuminati produttori come Dino De Laurentiis, Carlo Ponti e Luigi

Rovere.

Bilancio di una stagione

Il lussuoso quaderno con cui nel 1949 la Lux festeggia i quindici anni di attività, è anche occasione

per mettere in mostra, insieme al catalogo dei film in uscita, le opere dei più grandi cartellonisti

italiani del dopoguerra, capaci di mediare facilmente il rapporto fra cinema e pubblico, suggerendo

con le proprie interpretazioni grafiche altrettanti percorsi attraverso cui lo spettatore poteva entrare

in contatto con l’immaginario cinematografico.

Fra essi si ricordano, oltre al pittore Renato Guttuso, Carlo Longhi, Averardo Ciriello, Dante

Manno, Manfredo Acerbo, Giorgio Olivetti ed Enrico De Seta.

Strappalacrime

Negli anni Cinquanta i dibattiti sul cinema popolare sono accesissimi. Perché milioni di spettatori

premiano questi film con incassi record mentre i critici li bollano come filmacci?

Il fantasma del neorealismo è ancora il mito di riferimento di gran parte della critica, che attribuisce

all’autore l’aureola del mandato pedagogico-sociale, fuori del quale ci sono soltanto basse

speculazioni commerciali e bieche corruzioni di gusto.

Non importa che il mondo stia cambiando e il cinema non sia più quello di dieci ani prima.

L’ingenuità di Matarazzo

La bestia nera del dibattito è Raffaello Matarazzo (Catene, Tormento, I figli di nessuno, Chi è senza

peccato…). Lo stesso regista respinge l’accusa di facile sentimentalismo: non sono forse i suoi gli

argomenti che più interesserebbero la gente?

L’ingenuità di Matarazzo è la stessa dello scrittore popolare che partecipa alla vita dei propri

personaggi e si commuove soffrendo con loro.

Se sono stati sottolineati più volte i limiti mediologici di una querelle che si ostina a ignorare i

sommovimenti in corso nello scenario dell’industria culturale di massa, forse non si è insistito

abbastanza sulla diffidenza nei confronti dell’universo melodrammatico che squaderna davanti ai

nostri occhi lo spettacolo dell’iperbole, mettendo in scena le emozioni nell’assolutezza di

contrapposizioni basilari come tenebra e luce, salvezza e dannazione.

Niente declamazioni, niente perdoni

Sin dal primissimo dopoguerra il melò italiano aveva rivendicato la propria legittimità nell’ambito

del cinema spettacolare in cui la continuità prevale sulla frattura, contrapponendosi ai film-

manifesto del neorealismo in cui la frattura avrebbe invece dovuto imporsi sulla continuità.

Il richiamo all’attualità

Con Il canto della vita Carmine Gallone si affanna ad aggiornare la ricetta del dramma larmoyant e

il tentativo è condiviso da altri registi infaticabili del cinema popolare come Bianchi, Coletti,

Alessandrini, Bonnard e Bragaglia. Il filone suscita le rimostranze di un critico come l’autorevole

Mario Gromo, che vi riconosce la fragilità della produzione commerciale pronta a scivolare nel

conformismo delle formule.

Il film-opera

Dopo Avanti a lui tremava tutta Roma (1946), con Rigoletto Gallone si assicura il primo posto nella

classifica della stagione. Il singolare campione d’incasso inaugura la fioritura del film operistico,

che tiene banco per un decennio con diciotto cineopere, di cui sette firmate proprio da Gallone.

L’intero repertorio classico dell’opera lirica italiana passa dal palcoscenico allo schermo, dando vita

a uno dei primi generi cinematografici postbellici, in grado di raggiungere il pubblico più

“profondo”, che mostra di apprezzare sia le semplici trasposizioni delle opere liriche consacrate ce

le rielaborazioni attente agli specifici della drammaturgia cinematografica.

Il successo del cinema operistico attraverso l’affermazione trionfale del melò per concludere la sua

parabola entro lo stesso decennio. Saltano agli occhi le differenze di fondo tra melodramma cantato

e melò, tra film opera e dramma larmoyant, ma anche le affinità che si rifanno al grande modello

del melodramma musicale ottocentesco, considerato da più parti come un momento decisivo nella

formazione dell’immaginario nazionale, uno dei contrassegni più riconoscibili della nostra identità

collettiva.

I rapporti con il romanzo popolare

Il melò italiano era venuto cercando la propria strada anche nel territorio del romanzo popolare e

della letteratura di consumo.

Il saccheggio della letteratura ottocentesca era iniziato già negli anni precedenti, con film in

costume o film ambientati nell’hic et nunc neorealista.

Il film-canzone

Il richiamo alla musica non riguarda soltanto il melodramma ma anche la canzone, soprattutto

quella napoletana, che vanta sia una tradizione particolarmente forte, sia una struttura narrativa in

grado di evocare in forma condensata un intero dramma in miniatura. Il film-canzone è l’altro

ricchissimo filone che corre parallelo alle fortune del melò, con cui interferisce dando vita a una

vasta gamma di contaminazioni e di sovrapposizioni.

‘O sole mio (1946), il film che fa da battistrada, è anche uno degli esempi più interessanti non solo

per l’intreccio tra tema resistenziale e tema canoro, ma anche per la contaminazione tra approccio

neorealista e drammaturgia della sceneggiata. Il successo del film inaugura la lunga fioritura del

cinema canzonettistico, che conta una miriade di titoli.

La Romana film

La Romana film dei fratelli Misiano è una piccola roccaforte del cinema

Dettagli
Publisher
A.A. 2014-2015
14 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/05 Discipline dello spettacolo

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher viola_fr di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia della critica dello spettacolo e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Porro Marzio.