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IL KAMMERSPIELFILM
Durante gli anni che videro la nascita del movimento espressionista, un’altra tendenza di rilievo si andava affermando
Kammerspiel
nel cinema tedesco: il (cinema da camera). Il nome deriva da un teatro aperto dal regista Max Reinhardt
e destinato ad allestimenti di drammi intimisti per un pubblico ristretto. 20
Linguaggi dei Media – Università Cattolica Del Sacro Cuore – Milano
Dispensa Personale di Matteo Ferrario – A.A. 2016/2017
I Kammerspielfilm concentravano la loro attenzione su ambientazioni di interni dalla ridotta scenografia, pochi
personaggi dalla psicologia ben delineata, storie ambientate nel presente e drammatiche. Una particolare sottolineatura
era data all’importanza visiva del cinema, a discapito delle didascalie quasi inesistenti.
Tra i film e gli artisti di maggior rilievo, ricordiamo “Scherben” di Lupu Pick del 1921, dove si nota con molta evidenza
la presenza del realismo e delle ambientazioni asfittiche. “La scelta di servizio” di Leni sempre dello stesso anno, dove
abbiamo vaghe ascendenze dell’espressionismo nelle scenografie che esprimono lo squallore degli ambienti e delle
situazioni. Ancora, “L’ultima risata” di Murnau del 1924, dove gli elaborati movimenti di macchina erano spesso in
funzione della delineazione psicologica dei personaggi.
LA NUOVA OGGETTIVITÀ
Come già detto, una delle principali ragioni che contribuirono al declino dell’espressionismo tedesco, fu il rapido
mutamento del clima culturale di quel periodo. Infatti molti registi, attenendosi ad un’analisi sociale più controllata,
abbandonarono l’esasperata realtà dell’espressionismo, per avvicinarsi al realismo. Si cominciò a definire questa
oggettività”:
tendenza “nuova un movimento nato nei primi anni Venti, che vedrà poi il suo declino intorno al 1933, che
coinvolge diverse arti, come la pittura, la fotografia, il teatro, la letteratura e, per l’appunto, il cinema.
Ad esempio, nella pittura, abbiamo una forte marcatura di classicismo, come si può notare dalle due opere di Schad,
rispettivamente del 1927 e del 1928: “Sonja” e “Autoritratto”. Sempre nella pittura, oltre al classicismo, molti artisti
diedero una forte importanza alla deformazione delle figure o ad alcuni particolari del dipinto. Otto Dix, nel 1921 e nel
1922, realizzò due opere, “Skat” e “Mirror” dove questa caraterristica era volontariamente messa in vista.
Simile alla deformazione della nuova oggettività, ma non uguale, era la caricatura. George Grosz, nel 1926, realizzo due
dipinti, “Eclipse of the Sun” e “Pillars of Society” dove i soggetti venivano rappresentati con un particolare del corpo
molto accentuato o addirittura totalmente assente.
Nel teatro, invece, vediamo la comparsa di Bertolt Brecht con il suo “effetto di straniamento”: si situava all’opposto
delle teorie espressioniste, mirava a suscitare sulle implicazioni ideologiche e politiche di quanto rappresentato, nello
spettatore.
Nel cinema l’attenzione della nuova oggettività era per il realismo e per l’analisi sociale. Spesso si avevano
ambientazioni urbane e si prestava molta attenzione alla rappresentazione della miseria delle classi subalterne. Ad
esempio, la strada era intesa come luogo di perdizione e di miseria, come fanno notare Grune in “La strada” (1923) e
Pabst in “L’ammaliatrice” (1925). Quest’ultimo riuscì a realizzare svariate opere di grande ingegno, come
l’introspezione psicologica in “Misteri di un’anima” e l’attenzione per i dettagli e in particolare in “Il giglio nelle
tenebre”. Inoltre ne “Il vaso di pandora” e in “Diario di una donna perduta” rappesenta in maniera perfetta quello che
era il prototipo di nuova oggettività, con una costruzione generale realista, ambientazione urbana e squallida, con temi
scabrosi.
Tutti questi stili delle avanguardie, più che generi veri e propri, come lo è appunto la nuova oggettività, ma anche il
Kammerspielfilm, circolano per l’Europa e si mescolano con altri filoni del tempo dando alla luce inedite formule
espressive. Questo risultato si può notare ne “La passione di Giovanna d’Arco” e in “Il vampiro” di Carl Th. Dreyer che
stile internazionale.
coniò il termine di Venne così chiamato non solo per la mescolanza di varie correnti stilistiche, ma
anche per le nazionalità differenti delle varie persone che parteciparono alla loro realizzazione. Ad esempio, nel primo
film citato, figuravano nel cast artisti di varie nazionalità: lo scenografo era tedesco, il direttore della fotografia era
ungherese, la protagonista Renèe Falconetti era di origini italiane, e poi, ancora, altri attori francesi.
Il film combinava le influenze del cinema d’avanguardia francese, tedesco e anche sovietico: la ricostruzione del
processo a Giovanna d’Arco si snoda attraverso un gran numero di primissimi piani, che oltre a sorprendere lo
spettatore, permette di sottolineare l’intensa interpretazione dell’attrice (il più delle volte, decentrata e schiacciata su
sfondi bianchi). Sempre nello stesso film, le finestre nella sala delle udienze richiamano le prime esperienze nel cinema
espressionista di Hermann Warm, scenografo. 21
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IL CINEMA SPERIMENTALE
D’ARTE”
IL “CINEMA
Negli anni successivi alla prima guerra mondiale, numerosi critici e intellettuali, iniziarono a fare una netta distinzione
commerciale
tra cinema e cinema “artistico”. Iniziano così a nascere le prime riviste dedicate alle nuove
sperimentazioni cinematografiche, aprono cineclub come luoghi di confronto e discussione.
Nel 1925 viene inaugurata a Parigi la “Exposition International des Arts Décoratifs et Indutriel Modernes”, primo expo
dedicato interamente al mondo cinematografico. Sempre lo stesso anno, a Londra, nasce la Film Society che si occupava
della distribuzione di vecchi film, che al tempo della loro nascita, non avevano trovato successo per mancanza di una
distribuzione efficiente o che erano stati colpiti dalla forte censura inglese.
Negli anni Trenta invece aprono tre diversi musei e archivi: il National Film Archive (Londra), il “Museum of Modern
Art” (New York) e il “Cinémathèque Francaise” a Parigi; tutti con lo scopo di raccogliere film per la restaurazione e
rendere possibile la loro messa in circolo.
DADAISMO
Il dadaismo nacque intorno al 1915 come risposta allo smarrimento e alla perdita di senso provocati dalla guerra.
Questa filone del cinema sperimentale nasce dalle provocazioni slegate e in opposizione alla produzione con il cinema
istituzionale.
L’improvvisazione, l’assurdo, il nonsense, il gioco, l’irrisione dei modelli istituzionali e la mancanza di narrazione
tradizionale furono tutti capisaldi che identificavano il genere come tale.
Vennero utilizzati anche dei materiali eterogenei, filtrati attraverso il processo di esposizione fotografica come chiodi,
spilli, molle e bottiglie.
Nasce così una definizione artistica del movimento, idealizzata secondo i suoi principi che prese il nome di arte dada: è
il contesto di fruizione a determinare il valore culturale o meno di un oggetto.
I dadaisti erano affascinati dalla tecnica del collage, dall’assemblaggio di elementi disperati in bizzarre composizioni:
basti vedere una qualsiasi delle loro opere. Iniziarono così, verso la fine degli anni Dieci, le prime esibizioni dada, che
spaziavano da mostre fotografiche a vere e proprie proiezioni di pellicole.
Man Ray, noto artista dada, viene ricordato per la sua opera ironicamente intitolata “Ritorno alle origini”, creato
combinando riprese dal vero, con frammenti di “Rayograms” (inventati dallo stesso artista, erano ottenuti sparpagliando
oggetti come chiodi e spilli direttamente sulla pellicola, esponendola brevemente alla luce o poi sviluppandola).
Il dadaismo creò anche molte critiche e fece mobilitare intellettuali che ritenevano la nuova forma espressiva fosse
scandalosa. Non tanto per l’idea di base in sé, ma soprattutto per alcune opere che vennero fatte come provocazione e
gioco, ad esempio “Mona Lisa coi baffi” di Duchamp (1919) e il finale di “Entr’acte” che si conclude con l’irriverente
scena del funerale nella quale il barcollante carro funebre era trainato da un cammello ad alta velocità.
Anche Duchamp, quindi, fece un’incursione nel cinema, realizzando pellicole come “Anèmic cinèma” nel 1926, dove
rompeva il concetto tradizionale di cinema come arte visiva, mostrando dei dischi circolari fatti roteare, alteranti da altri
che contenevano elaborati giochi di parole. Anche il titolo dell’opera, se ci si fa caso, è l’anagramma della parola
cinema.
Minato da numerosi dissensi interni, il dadaismo si disperse nel volgare qualche anno dopo e molti dei suoi membri si
ritrovarono tra le fila del gruppo surrealista.
IL SURREALISMO
Un analogo disprezzo per la tradizione estetica più ortodossa e un gusto per gli accostamenti imprevedibili, univano gli
artisti dadaisti a quelli surrealisti. Essi cercarono di tradurre in immagini o parole il linguaggio incoerente dei sogni,
senza interferenze o controlli da parte del pensiero conscio. Questa definizione di surrealismo si ispira a quella pittorica
confezionata dal Manifesto nel 1924: “Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le
parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di
qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale”.
Del surrealismo pittorico ricordiamo “La casa colonica” di Mirò del 1922 e “Tentativo impossibile” di Magritte del
1928. In entrambe le opere si possono riconoscere gli elementi appena descritti, come la disarmonia delle forme
geometriche, i paesaggi e personaggi fuori luogo, la prospettiva surreale e i colori sia accesi che spenti allo stesso
tempo.
Dal 1926 fino al 1931 si fece presto a passare dalla semplice pittura alla trasposizione cinematografica del surrealismo.
Il teorico di rifermento fu André Breton, il quale guidò la scissione dal gruppo dada.
I capisaldi del surrealismo sono il disprezzo per la tradizione estetica più ortodossa, accostamenti imprevedibili.
Influenza della nascente psicanalisi (studi sull’inconscio, soprattutto) e storie anomale e assolutamente allusive. 22
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Dispensa Personale di Matteo