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EFFETTI DEL PLURALISMO CULTURALE:
L’aumento del pluralismo culturale ha determinato un’imponente crescita dell’individualità, tanto che si è parlato in
maniera provocatoria di “fine del sociale”. La socializzazione (attraverso Tv e internet) è oggi sempre più un processo
individuale, dove il singolo è isolato nella scelta dei modelli culturali, senza più la mediazione del suo gruppo sociale
di appartenenza. Questa tesi ci avverte che ci troviamo di fronte ad un possibile radicale cambiamento rispetto al
sociale tradizionale, vivendo in una fase che vede in forte calo l’interazione faccia a faccia.
Una disponibilità illimitata di informazioni e culture può produrre nell’individuo effetti patologici, un fenomeno di
narcisismo che vede un “io smisurato”, sempre più in grado di alimentare la propria diversità rispetto agli altri che
fatica a rapportarsi con essi e incapace di essere soddisfatto dal proprio mondo sociale (amici, famiglia).
La moltiplicazione di letture/punti di vista della realtà fra loro contrastanti, provenienti dai diversi canali di
informazione, producono nell’individuo la consapevolezza della non-oggettività/non-assolutezza dei vari aspetti del
mondo, gettandolo nel panico e producendo in lui un “indebolimento del senso della realtà”. Viene quindi a mancare
una necessaria sicurezza nell’interpretazione degli avvenimenti mentre le informazioni che il singolo riceve gli
appaiono come mere rappresentazioni finalizzate a ingannare le masse.
Accresce la capacità del cambiamento sociale grazie alla rapidità della trasmissione delle informazioni che genera
una maggiore contingenza degli attori sociali (sindacati, partiti) che rispetto al passato (es. PCI, DC) hanno oggi molta
meno stabilità (=> “frammentazione della rappresentanza”).
I gruppi presenti nella sfera pubblica non sono più espressione di disuguaglianze sociali (= diversa distribuzione delle
risorse economiche) ma di differenze sociali. Oggi è il particolare punto di vista che un individuo ha sulla realtà a
determinare la sua adesione ad un certo gruppo (es. pacifisti, ecologisti, etc.). L’appartenenza ad un gruppo non è
più determinata esternamente (es. classe operaia VS borghesia) ma si basa su una scelta autonoma.
Presentazione ricerca empirica di Maurizio Barbagli “Immigrazione e criminalità in Italia” del 1998.
Storicamente c’è sempre stato un nesso tra immigrazione e allarme sociale, sensazione di “pericolo”; ciò si spiega col fatto
che l’immigrato è il portatore di una cultura e di modi di valutare sé stesso e gli altri differenti da quelli che prevalgono nella
società oggetto della migrazione. Questo determina una crisi nell’identità degli autoctoni.
E’ sempre stata diffusa una visione del fenomeno migratorio come causa diretta di criminalità e devianza; questo ha fatto sì
che esso venisse spesso considerato un evento sociale pericoloso.
Nell’Ottocento l’immigrazione spesso avveniva in maniera forzata: i detenuti erano mandati dall’Inghilterra negli USA
e in Australia; questo particolare fenomeno ha in passato rafforzato l’idea che vi fosse un nesso di causalità diretta
tra immigrazione e criminalità.
Vi era inoltre la convinzione che la criminalità dipendesse da fattori genetici e che etnie particolari fossero
caratterizzate da una maggiore propensione al crimine (=> tratto ereditario caratteristico di certe popolazioni).
Un’altra tesi sosteneva invece che fossero i caratteri dell’esperienza che l’immigrato si trova a subire a generare una
tendenza alla devianza.
Nei fatti è sempre esistita una correlazione tra immigrazione e criminalità, tuttavia il fatto che esiste una correlazione empirica
fra questi due fenomeni non significa che uno sia la diretta causa dell’altro: possono esserci anche altre variabili coinvolte.
Il sociologo Marzio Barbagli prende in esame uno studio condotto negli anni ’30 negli Stati Uniti che mostra che la criminalità è
principalmente legata ad alcune variabili:
• il sesso: la propensione al crimine è maggiore negli individui maschi;
• l’età: la tendenza alla devianza è più elevata nella fascia d’età compresa fra i 18 e i 30 anni;
• la distribuzione sul territorio: i reati si verificano soprattutto nelle grandi città (NON in campagna);
Alla luce di ciò appare lampante il fatto che gli immigrati sono consistentemente più presenti in queste tre categorie.
Questo dimostra che l’ipotizzato rapporto di causa-effetto tra immigrazione e criminalità nasconde in realtà un’altra verità:
sono soprattutto queste variabili i fattori causali ad essere strettamente associati alla devianza e non tanto l’immigrazione in
sé. Eliminando l’effetto delle variabili, si dimostrò che, a parità di sesso, età e collocazione sul territorio, gli immigrati avevano
tassi di devianza molto minori rispetto ai nativi. Sempre all’interno di quello studio si evidenziava che tassi più elevati di
criminalità si registravano negli immigrati di seconda generazione (=> comunque più bassi rispetto a quelli dei nativi, ma
superiori a quelli dei loro genitori).
Negli anni ’70, quello che fino a quel momento sembrava un risultato consolidato della sociologia, venne ribaltato da nuove
ricerche che mostrarono un drastico aumento della quota dei reati commessi dagli stranieri; tutt’oggi in diversi Paesi (Italia
compresa) anche a parità di età, sesso e collocazione sul territorio il tasso di criminalità degli stranieri risulta superiore a
quello dei nativi.
E’importante però notare che questa tendenza si è realizzata in concomitanza con una nuova variabile: l’avvio di politiche
restrittive nei confronti del fenomeno migratorio e la chiusura dei confini dei Paesi Occidentali in seguito alla crisi economica
del ’73 che impennò i tassi di disoccupazione facendo crollare la domanda di manodopera straniera.
Riassumendo le statistiche emerge che:
Agli inizi del ‘900: il tasso di criminalità era maggiore fra gli autoctoni rispetto agli immigrati;
Negli anni ’30: il tasso di criminalità è minore nella prima generazione di immigrati, e maggiore nella seconda, ma
comunque inferiore rispetto alla comunità autoctona;
A partire dagli anni ’70: le ricerche registrano un forte aumento del tasso di criminalità negli immigrati, e avviene il
superamento del numero di reati commessi dagli autoctoni.
Il tentativo di frenare l’immigrazione da parte della politica è stato però la causa di un effetto perverso: il drastico aumento
del fenomeno dell’immigrazione irregolare, clandestina. L’impossibilità di spostarsi dal proprio Paese di origine in maniera
legale, fa sì che la maggior propensione ad emigrare venga da parte di persone disposte a violare la legge più facilmente di
altre, inoltre, il fatto di essere un immigrato illegale non facilita di certo l’inserimento nella società (trovare un lavoro, una
casa, delle relazioni sociali).
Barbagli individua poi altri due fenomeni, a partire dagli anni ’70:
- anche gli immigrati regolari cominciano a delinquere più spesso degli autoctoni;
- sono soprattutto gli immigrati di seconda generazione a commettere più spesso reati;
Negli anni ’90 in Italia la quota degli stranieri sul totale dei condannati è continuamente cresciuta, particolarmente
nelle grandi città del Centro-Nord, dove questa quota raggiunge livelli molto elevati.
Per spiegare ciò Barbagli lega il maggior numero di condanne alla posizione di svantaggio occupata dagli immigrati nel
sistema penale rispetto agli autoctoni; rispetto agli italiani gli stranieri:
- Hanno minor padronanza della lingua e minor conoscenza delle leggi;
- Sono spesso impossibilitati a potersi permettere un buon legale e sono quindi costretti ad affidare la loro difesa ad un
avvocato d’ufficio;
Barbagli rileva inoltre che una delle condizioni che statisticamente più favorisce la condanna è il caso in cui una persona si
trovi già in stato di arresto. L’immigrato si trova più spesso degli autoctoni in questa condizione: l’arresto scatta non solo per
la pericolosità sociale, ma tende ad essere effettuato anche nel caso in cui l’individuo non abbia una dimora fissa (condizione
in cui più frequentemente troviamo gli immigrati) e non sia quindi facilmente reperibile.
Tuttavia non si può spiegare una variazione (la crescita del numero di immigrati sul totale dei condannati negli anni
‘90) con una costante (posizione di svantaggio nel sistema penale).
Non si può affermare che questa condizione di svantaggio nel sistema penale non è peggiorata in maniera rilevante, inoltre gli
stranieri hanno dalla loro anche qualche elemento di vantaggio: alcune statistiche ritengono che avere precedenti penali
faciliti la condanna, in questo caso gli stranieri risultano avvantaggiati rispetto agli autoctoni quando non è possibile
identificare e quindi ricostruire la storia penale di un soggetto.
Queste le conclusioni di Barbagli per quanto riguarda il nostro Paese:
A parità di sesso e di età gli immigrati regolari presentano una quota di condanne maggiore rispetto agli autoctoni;
Anni prima si verificava esattamente l’opposto, la situazione è profondamente cambiata nella prima metà degli anni
’90;
Negli immigrati residenti nel Centro-Nord si registrano tassi di condanna molto più alti rispetto al Sud;
Come spiegare il fatto che anche gli immigrati muniti di permesso di soggiorno hanno cominciato a violare la legge più spesso
degli autoctoni?
Per tentare di rispondere a questa domanda Barbagli formula tre teorie:
(1) Teoria del conflitto di culture: ipotizza che le difficoltà nell’integrazione siano determinate dal fatto che chi emigra in
un Paese straniero porta con sé un bagaglio culturale di norme e valori che ha acquisito nella sua patria d’origine e
che possono anche essere in aperto conflitto con le norme vigenti in quella società (è il caso dei delitti d’onore
perpetrati dagli immigrati siciliani negli USA); in questo senso è evidente che il fenomeno della devianza è
strettamente connesso con il processo di socializzazione subito dagli individui.
(2) Teoria del controllo sociale: partendo dall’assunto che ciò che limita gli individui nell’attuare comportamenti devianti
altrimenti spontanei è il controllo sociale, ipotizza che questo non sia efficace soprattutto nella sua forma di tipo
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