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Basilio/Gorni anche qua dice di avere un’idea diversa e chiede al maestro se non sia vero che, a

partire già dal Trecento, in ambito letterario e non solo, il “termine selva era metafora della vita”?

Per indicare la vita dell’uomo si usava l’immagine della selva. La vita è come un bosco che va

attraversato. Ed è così. L’osservazione è esatta. Quindi la selva è oscura perché questo cammino è

irto di difficoltà. Sono le dure prove della vita che l’uomo deve affrontare. Il maestro fa

un’obbiezione: l’immagine della selva è suggerita a Dante da Virgilio. Virgilio nel VI canto

dell’Eneide, nel descrivere l’ingresso dell’Averno, parla anch’egli di un bosco. Dante, grande

estimatore di Virgilio e lettore dell’Eneide, come dichiara lui stesso sempre nel I canto dell’Inferno,

prende l’immagine della selva da Virgilio. È possibile. Però la differenza è evidente. La selva di

Dante non è una selva vera e propria, non è un bosco vero e proprio. Qua aveva ragione Croce che

esprime una lettura negativa del I canto. Mentre Virgilio descrive questo bosco, che ha tutti gli

attributi del bosco, in Dante la selva è indistinta, è una selva genericamente buia, è un bosco buio.

Non c’è alcun elemento descrittivo. Quindi questa selva, secondo Gorni che si rifà

all’interpretazione tradizionale del termine, rappresenta la vita. Ma Gorni si spinge oltre e, alla luce

di quanto aveva detto prima, per lui la selva oscura è Firenze. È Firenze afflitta da lotte interne,

violente, fratricide e il legame fra le due cose è proprio rappresentato dalle tre fiere. Così come

all’uscita della selva ci sono le tre fiere, e ciò che rappresentano, cioè la causa delle discordie

interne a Firenze, così la selva non è solo immagine e metafora della vita, ma è immagine e

metafora di Firenze, dove veramente è come una selva oscura, dove gli uomini si fanno la guerra e

dimenticano di essere concittadini e fratelli. Il quadro, il mosaico si va componendo.

3. Il terzo punto è la diritta via, che era smarrita. Sia il testo della vulgata, della versione ufficiale di

Giorgio Petrocchi e dei testi delle vecchie edizioni e degli antichi commenti, presentano il ché, cioè

come congiunzione causale. Quindi:

« Nel mezzo del cammin di nostra vita

mi ritrovai per una selva oscura,

ché la diritta via era smarrita. »

Vorrebbe dire: io mi trovai in una selva oscura poiché la retta via era stata perduta, smarrita. Gorni

dice che non si dovrebbe mettere l’accento, perché quel ché ha un valore modale, cioè: io mi trovai

in una selva oscura di modo che ho smarrito la retta via. Gorni capovolge la prospettiva. Ancora si

può dare al che un valore quasi locativo: io mi trovai in una selva oscura nella quale ho smarrito la

diritta via. C’è un rapporto di causa-effetto. Nell’interpretazione col ché causale, smarrire la diritta

causa. Nell’interpretazione di Gorni è esattamente l’opposto. Perdere la retta via è l’effetto,

via è la

mentre la causa è la selva oscura. La diritta via è la via del bene, della felicità eterna, che era

smarrita. Anche qui l’allievo, Basilio/Gorni, che riferisce le idee di Gorni e se ne fa portavoce, dice

un’idea

che su questa diritta via diversa perché si collega anche al discorso del monte. Quando

Dante guarda il colle illuminato dal sole, il dilettoso monte, Virgilio gli dice: perché non ascendi il

dilettoso monte? Cioè: perché non intraprendi la via che ti porterà al bene e alla felicità eterna?

Questa è l’interpretazione tradizionale. Gorni fa un’ipotesi diversa. Quando Virgilio parla del

dilettoso monte, secondo Gorni, fa un invito alla poesia. Cioè: perché non intraprendi la poesia,

perché non fai ciò che avevi promesso, quello di scrivere il poema sacro, la Commedia? Del resto

non è la prima volta per Virgilio. Virgilio, infatti, in altri casi, come con Stazio nel Purgatori, fa di

queste esortazioni alla poesia. Anche in questo caso è possibile che il diletto monte fosse il parnaso,

la sede delle muse. Cioè: perché non vai nella sede delle muse e lì chiedi la loro ispirazione per

di cui non c’è una

scrivere il nuovo poema? del resto Dante nella Vita Nuova, data precisa (lo stesso

Gorni dice che si possa ascrivere l’opera al 1294), promette di cantare le lodi della gentilissima, di

Beatrice, cosa che non fa subito. Tra la Vita Nuova e la Commedia ci sono il De vulgari eloquentia,

arriva l’Inferno. Quindi c’è uno stacco di circa dieci anni,come se

incompiuto, il Convivio, e poi

Dante avesse tentennato, anche se la Commedia non è dedicata a Beatrice, ma le lodi della

gentilissima sono proprio nel Paradiso. È come se Dante avesse tentennato, fosse stato distratto da

qualcosa nello scrivere questo grande poema, come se avesse quasi paura, la paura che aveva

proprio nel I canto. Allora il quadro si va chiudendo. La diritta via era la via della poesia, secondo

Gorni. Dante aveva smarrito la via della poesia. Da quando chiude il capitolo della Vita Nuova a

quando chiude non solo l’Inferno a tutta l’operazione Commedia, passano dieci anni e anche più.

È come se Dante fosse stato distratto, ma cosa? Dalle tre fiere e dalla selva oscura: da tutti i

problemi politico-civili che avevano afflitto Firenze e che avevano avuto dei riflessi negativi su di

lui, costringendolo addirittura all’esilio. La diritta via era quella della poesia. Dante era stato

lusingato dalla gloria civile, dalla gloria politica, ecc., ma tutto si era poi rivolto contro di lui, e poi

era finito in esilio. Tutte queste vicende lo avevano distratto da un obbiettivo importante che era

quello di scrivere questo grande poema che era la Commedia. Qui si chiude il discorso di Gorni sul

I canto della Commedia. Quindi è una lettura in chiave politica del primo canto, una lettura

completamente nuova che serve come passaggio al VI canto dell’Inferno, che è un canto politico

che appartiene alla trilogia politica della Commedia. I tre sesti canti, sia quello dell’Inferno, che

quello del Purgatorio e quello del Paradiso, sono canti politici. Dante decide di affrontare il tema

politico con una certa gradualità. Nell’Inferno parlerà della più piccola realtà politica che è il

dell’Italia, della nazione, anche se non c’era

comune, Firenze. Nel canto VI del Purgatorio parlerà

ancora il concetto di nazione allora, ma si tratta certamente di una realtà politica più vasta. Nel VI

canto del Paradiso parla della realtà, del soggetto politico più importante, l’Impero universale.

Quindi Dante ne parla gradualmente. Canto VI dell’Inferno

Il VI canto dell’Inferno, come il V, è un canto estremamente importante. anche qua i commenti e i

testi in uso non mettono in rilievo la centralità di un aspetto ce Dante vuole mettere in rilievo. Nel

VI canto, un canto politico, si parla della situazione politica di Firenze. In realtà questo canto ha una

struttura tripartita. Sono individuabili in maniera netta tre nuclei fondamentali: due hanno a che fare

con la tematica politica; uno invece è di natura teologica. Le anime che Dante incontra in questo

cerchio sono quelle dei golosi. Dante, in particolare, incontra un fiorentino la cui identità non è stata

ancora oggi ben svelata. Si tratta di Ciacco, un noto goloso. Si tratta di un personaggio che

certamente non è colpito dalla luce della notorietà. È un personaggio sconosciuto, mentre nel canto

V vi sono due personaggi che furono al centro di un grave episodio di cronaca, Paolo e Francesca.

Ciacco è un personaggio ignoto, Dante stesso non sa chi sia. Però è tutto studiato, perché spesso

Dante passa da personaggi noti dalla cronaca del tempo, personaggi storici importanti o grandi

personalità politiche del tempo a personaggi ignoti. Qui Dante affida a Ciacco, a questo personaggio

ignoto, il grave compito di giudicare i potenti della terra, e in particolare di Firenze in questo caso.

Dante fa questo attraverso un personaggio ignoto. I personaggi sono sempre figure strumentali che

servono a Dante per riflettere su un problema di natura politica, sociale, teologica, religiosa, e così

via. Quindi i personaggi hanno un funzione strumentale. Ciacco è un goloso. Qual è la pena dei

golosi? I golosi sono distesi in una pioggia di fango e vengono colpiti da una pioggia greve e

maleodorante. La cosa importante è il tema politico. Tutti i commenti dicono che tutto ruota attorno

alla situazione di Firenze, ed effettivamente è così. Tutto è già accaduto, ma nella finzione poetica

Dante pone a Ciacco tre domande perentorie:

1. A che verran li cittadin de la città partita?

Cioè: quale sarà il destino dei fiorentini, di questi abitanti della città divisa? Partita è un latinismo.

Poi gli domanda:

2. Quali sono le cause che rendono Firenze una città partita?

Cioè qual è la causa che spinge i cittadini di Firenze ad essere gli uni contro gli altri armati?

Poi gli domanda, ed è una constatazione piuttosto amara e triste:

Se v’è alcun giusto?

3.

Cioè se c’è ancora qualche persona giusta. Queste sono le tre domande che Dante pone a Ciacco,

domanda, cioè “quale sarà il destino dei

che risponde puntualmente. Rispondendo alla prima

cittadini di Firenze?” c’è la profezia dell’esilio di Dante. La situazione politica del tempo vedeva

questo lungo braccio di ferro tra Papato e Impero, e vedeva il Papato e soprattutto coloro che

sostenevano il partito del papa, il partito guelfo, che faceva delle invasioni di campo: interferiva

nelle vicende politiche europee e nel caso specifico di Firenze. Bonifacio VIII interferiva e faceva

accordi politici a Firenze e per Firenze. Il partito del papa era quello dei Guelfi; il partito che

sosteneva l’imperatore era quello dei ghibellini. Però poi succede una cosa un po’ curiosa. Il partito

del papa si scinde in due tronconi: i guelfi bianchi e i guelfi neri, per una questione di visione, di

lettura politica del momento. È vero che i guelfi erano il partito del papa, ma bianchi e neri si

dividono perché danno un giudizio diverso sull’operato del papa del momento, Bonifacio VIII.

I guelfi bianchi, e Dante con loro, erano fortemente critici nei confronti dell’operato del papa. Si

rendevano conto che il papa non faceva bene il suo mestiere. il papa operava quest’interferenza

nelle questioni poli

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Publisher
A.A. 2012-2013
19 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher minniti.vale di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Messina o del prof Onorato Aldo.