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Purgatorio canto V

In questo canto vi sono i penitenti dell’ultima ora. Si tratta di uno dei più drammatici,

strutturato in tre parti, in gradazione ascendente di intensità.

Il parlare è dimesso, in stile comico. Ma all’indugiare di Dante, il rimprovero alto di Virgilio già

passa a un altro registro (etico), questo perché il coraggioso andare, senza lasciarsi trattenere

o fermare dai terreni richiami, è costante etica del viaggio.

Qui si trovano i morti di morte violenta, uccisi nel fiore della gioventù, e che non ebbero quindi,

pentirsi e salvarsi, che l’ultimo breve momento della vita. Solo un momento, di fede e di amore,

basta all’uomo, e a Dio, perché qualunque vita si è riscattata e salvata.

Coloro a cui la morte sopraggiunse inattesa, peccatori come tutti gli uomini, avrebbero forse

dedicato tempo al pentimento e alla penitenza, se tutto il tempo non fosse stato tolto loro per

forza.

Queste anime appaiono alacri, ansiose di sapere la condizione di Dante, bramose delle sue

preghiere. Appaiono come un coro, parlano con una preghiera rivolta al vivo, che si leva in tono

Miserere

elegiaco, in accordo al che essi vanno salmodiando quando entrano sulla scena.

Questa intensa preghiera, svolta in quattro terzine, racchiude il contenuto essenziale delle tre

storie. Gli spiriti dicono infatti in coro quello che a tutti è stato comune: all’improvviso

sopravvenire della morte, all’ultima ora, la grazia divina illuminò il loro cuore, così che

pentendo e perdonando morirono pacificati con Dio. Queste tre parole danno il senso alla loro

vita, alla loro morte. Lo stesso andamento dei versi esprime l’animo contrito e pacificato di

costoro.

Sul tema principale, del pentimento e dell’aspirazione a Dio, se ne introduce un altro, quello del

corpo. Il distacco da quel corpo mortale, sarà il tema dominante della seconda parte del canto.

Tre spiriti si fanno avanti, uno di seguito all’altro, a chiedere preghiere, e a raccontare la loro

morte. Queste tre sequenze formano un trittico e vanno viste come un unico quadro, un solo

discorso. La struttura bipartita delle tre parlate è comune (richiesta di preghiere, iniziano a

parlare con il sottinteso nesso logico della loro violenta morte) ma il modo di esprimersi è

diverso, così come l’oggetto su cui fanno centro.

La prima storia, quella del fanese Jacopo del Cassero, raggiunto dai sicari di Azzo d’Este e ferito

a morte nelle paludi presso Oriago, descrive lo strazio fisico e morale dell’uccisione, ancora

vivo nel ricordo, della separazione violenta dell’anima dal corpo (tutto questo tenuto su un

registro fortemente drammatico).

La seconda storia, che già si pone al di la del fatto di sangue, quando l’uomo ferito in battaglia

fugge dal campo e va a morire sulla riva di un fiume, pronunciando all’ultimo istante il nome di

Maria e facendo croce delle braccia sul petto.

N.B. Questo racconto porta con sé il secondo tempo, il più importante, quello della morte

violenta, comune a tutti e tre. È il momento del pentimento, dell’affidarsi a Dio, che li ha

salvati.

Il centro morale del canto è rappresentato dalla scena del temporale scatenato dal demonio

per inferire sul corpo da cui l’anima gli è per sempre sfuggita. Qui si consuma sia l’evento di

pentimento e di salvezza sia lo scempio del corpo rimasto in terra.

Si tratta di Buonconte di Montefeltro, capitano dei ghibellini a Campaldino, dove Dante

combatté nelle file dei guelfi. È il figlio dell’altro Montefeltro, il grande Guido, condannato

nell’Inferno, e la cui morte si è consumata con opposta vicenda.

Subentra ora la terza, brevissima parlata, dell’ultimo personaggio del trittico: Pia dei Tolomei.

Nelle sue poche e dolci parole, dove non si ricordano le circostanze precise della morte, il tono,

musicale e lirico, esprime quel sentimento che concluse la vicenda di tutte queste anime: dopo

lo strazio dell’uccisione, il pentimento e l’estremo rivolgersi a Dio ha cambiato il senso di quelle

morti e ha posto i loro cuori nella pace. Quel sentimento pacificante che accompagnò il loro

uscire dalla vita è affidato da Dante alla voce di una donna, la creatura che impersona la

dolcezza divina. Così all’entrata del paradiso sarà un’altra donna, Piccarda, a proclamare la

pace propria dei beati. Purgatorio canto VI

Il canto sesto, posto al centro della sequenza dell’Antipurgatorio, è costruito in modo anomalo

rispetto agli altri, nei quali si alternano parti narrative e dialogiche.

A un prima parte che fa seguito al canto precedente, la cui azione si prolunga, segue una

grande digressione, che occupa per intero la seconda metà del canto, e che ne costituisce il

vero e principale argomento: la celebre invettiva politica che denuncia con intensa passione i

mali che affliggono l’Italia. Il grande discorso civile e profetico è legato ad una persona storica:

un poeta, il trovatore Sordello de Goito, noto per i suoi testi di impegno politico e civile, scritti a

esortazione e rimprovero dei potenti del mondo.

Al momento di levare la propria voce nell’ammonimento appassionato e severo, il più lungo del

poema, rivolto in incalzanti apostrofi alla Chiesa, all’Italia, all’imperatore, a Firenze.

Significativo l’abbraccio tra Sordello e Virgilio, riconosciutisi nell’amore per la terra natale.

Prima di giungere a questo suo centro, il canto si svolge per circa cinquanta versi. Il racconto è

tenuto su un registro di tono medio, quotidiano, presentando una piccola folla di anime, serie di

volti non a caso tutti toscani; gente uccisa nelle faide politiche comunali. La rassegna degli

uccisi anticipa l’amara denuncia degli odi di parte che insanguinano le città d’Italia.

Lasciati infine quegli spiriti così ansiosi di preghiere, i due poeti riprendono il cammino. Dante

pone un breve intervallo ragionativo che serve a fissare i termini dottrinali entro i quali è posta

l’invenzione del secondo regno.

Nel terzo canto si risponde al problema delle pene fisicamente sofferte dalle anime separate

dal corpo. Questo passo è necessario a Dante per fondare la dottrina dei suffragi che ora riceve

una sicura base teologica, con l’appello a quel principio cristiano per cui la forza dell’amore

dell’uomo può modificare i decreti di Dio senza lederne la giustizia.

Il canto giunge ora al suo centro con l’apparire della figura solitaria del trovatore con cui si apre

la grande pagina profetica. L’abbraccio tra i due poeti celebra l’amore per la patria; si tratta di

uno dei momenti più alti nell’invenzione drammatica della Commedia.

Il personaggio Dante resta silenzioso; riserba infatti a se stesso autore l’invettiva,

assumendone intera la responsabilità e dandole così il massimo rilievo. Si svolge condotta ad

un’ardente passione civile, questa lunga ‘digressione’, tutta costruita con una sapiente

struttura retorica che regge un arco di 25 terzine. Essa si svolge indirizzandosi a diversi

interlocutori come in progressione: all’Italia, alla Chiesa, all’imperatore, infine a Dio stesso, che

sembra non curarsi delle sventure del misero paese.

Toccato questo culmine, l’invettiva cambia registro e si rivolge a Firenze, con tono

dolorosamente ironico; ironia e dolore, fino alla pietosa immagine dell’inferma senza pace,

rivelando il vero cuore, la prima origine di tutto il discorso.

N.B. L’invettiva del sesto del Purgatorio è la più alta del poema per questo personale

coinvolgimento di amore e dolore (esperienza dolorosa nel suo acuto e deluso amore per la

città dove nacque).

Ma se l’idea dell’Impero come garante della pace fra le nazioni in cui egli credette era

tramontata già nel suo stesso tempo, sempre viva tra gli uomini è l’idea del vincolo che unisce

coloro che sono nati nello stesso luogo e la deplorazione per le lotte fratricide che in ogni

tempo li pongono gli uni contro gli altri.

Non si può dire che per Dante l’Italia fosse solo un’entità geografica e linguistica, bensì la

considerava in quanto nazione, una nave senza guida, abbandonata e misera, serva dei vari

signori, cavallo non ben guidato.

In questo svolgimento vi è un evidente progetto unitario, non per niente alla fine dell’ottavo

sarà posta a suggello della serie la breve, ma ben dolorosa, profezia dell’esilio dell’autore, che

nel disordine della città, dell’Italia e dell’Europa, è la vittima e insieme il denunciatore.

Nei tre sesti canti del poema, tutti e tre dedicati al tema politico, la critica ha riconosciuto un

allargarsi di prospettiva. In realtà, il secondo testo, pur facendo centro sull’Italia, abbraccia nel

suo svolgimento anche la città di Firenze e l’Impero stesso, deplorando la sua mancanza di

responsabilità, idea centrale in tutta la denuncia politica di Dante. Il diretto coinvolgimento è

rivelatore di quella storicità fondata sul fatto personale che è il carattere primario della

Commedia. Purgatorio canto XVI

Al canto centrale del poema Dante ha riserbato un grande discorso sul piano etico-politico. Un

altro invece riguarda il piano religioso, o meglio soprannaturale.

Dante pone chiaramente nella Monarchia i termini dei due campi entro cui si muove il suo

pensiero: c’è un ordine terreno, che porta alla felicità di questo mondo, a cui presiede l’Impero;

e c’è un ordine ultraterreno, che porta alla felicità eterna, a cui nella storia presiede la Chiesa.

Di quel primo ordine, i cui fondamenti sono l’etica e la politica, si parla appunto in questo

canto.

Per svolgere questo argomento Dante ha scelto la cornice dell’ira e un ambiente di tenebra; la

pena degli iracondi è, con evidente contrappasso, un fumo densissimo che acceca gli occhi

corporei, come il fumo dell’ira acceca quelli della mente.

In quel buio anche Dante va come un cieco, appoggiandosi al fido Virgilio-ragione e incontra un

altro cieco, con il quale può comunicare solo con la voce. A questo personaggio senza volto è

affidato il più grande discorso politico della cantica.

Costui è Marco di Lombardia, uomo di corte, ben noto per saggezza, nobiltà di costumi e

arguzia. Dante ha visto in lui, peregrinante nelle corti del nord, e non disposto a vendere la

propria dignità, uno simile a sé. L’unico suo tratto distinguibile è la fierezza disdegnosa e un po’

brusca e un’aria altera e magnanima.

Dante gli pone una domanda sulla corruzione del mondo: qual’è la ragione di questa coltre di

malizia che grava sul mondo? È all’interno dell&rsqu

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A.A. 2017-2018
10 pagine
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher alessxrap di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Genova o del prof Morando Simona.