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MATERIA E STRUTTURA DEL CANTO

In questo canto non troviamo anime o approfondimenti dottrinali o politici. Il massimo impegno del poeta è

di tecnica letteraria: Dante elabora un complesso schema per enumerare ben tredici esempi di superbia

punita, che immagina raffigurati sul pavimento del girone.

La lunga enumerazione è un artificio tipico nei testi classici, con i quali Dante gareggia. Delle tredici terzine

contenenti gli esempi, dodici sono disposte in tre quaterne, ciascuna delle quali comincia con la stessa parola

(“vedea”, “o”, “mostrava”); ciascun verso della tredicesima comincia con quelle tre stesse parole,

nell’ordine: una sorta di “congedo”.

Il poeta ha voluto costruire una sorte di sestina, con uno schema innovato rispetto a quello del provenzale

Arnaut Daniel: sei strofe dove ritornano in rima le stesse parole e un “congedo” di 3 versi che le riprende

tutte e sei. Inoltre le lettere iniziali delle parole ricorrenti sembrano costruire un acrostico: VOM, cioè

“uom”.

Nella sestina gli esempi di superbia sono distinti in tre gruppi come se ciascuno rappresentasse un diverso

tipo di superbia o di punizione.

Inoltre, se è naturale che la rassegna inizi con Lucifero (spunto preso dalle Sacre Scritture), altrettanto lo è

che finisca con Troia (spunto che deriva dai classici e in particolare da Virgilio), esempio supremo di

superbia etnica e militare. ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI

- Dante paragona la scala che porta dalla prima alla seconda cornice alla ripida scala che da Firenze

conduce alla chiesa di San Miniato. I commentatori sottolineano l’ironia con cui il poeta designa la

sua città (“la ben guidata”), e sullo sdegno con cui ne condanna i costumi corrotti ben diversi da

quelli antichi. Dante quindi avrebbe fatto riferimento alla scala di San Miniato per deplorare ancora

una volta il mal governo e la corruzione di Firenze. Con la scala, però, gli balza alla memoria

l’immagine di quella parte di Firenze e l’improvvisa visione gli suscita un moto di nostalgia,

superfluo nel contesto, e di amarezza e rimpianto per il buon tempo antico.

- Dante si accorge di non far fatica a camminare e ne chiede a Virgilio la ragione. Costui gli spiega che

l’angelo dell’umiltà gli ha tolto la prima delle sette P incisegli sulla fronte dall’angelo a guardia della

porta d’ingresso del Purgatorio. Dante, che non se n’era accorto, porta la mano alla fronte. La

scenetta esprime il sollievo di Dante, conscio della propria superbia, al pensiero di essersi liberato da

quel primo peccato. 21

Canto XIII

• Dove: seconda cornice

• Anime espianti: gli invidiosi

• Personaggi: Dante, Virgilio, Sapia RIASSUNTO

I due poeti giungono alla seconda cornice del monte che è di diametro minore rispetto alla prima perché

stanno salendo. Non ci sono figure o intagli; tutta la cornice è di pietra grigia e uniforme.

Virgilio, intuendo che sarebbe troppo lungo attendere le anime penitenti per chiedere loro la via e ricordando

ciò che Catone gli aveva detto, si volge a destra; fissati gli occhi nel sole, lo apostrofa come lume e guida da

seguire a meno che un altro motivo non lo impedisca.

I poeti hanno percorso appena un miglio nella cornice, quando misteriose voci passano per l’aria gridando

esempi di carità: il primo è quello di Maria alle nozze di Cana, il secondo quello della nobile gara tra Oreste

e Pilade. Mentre Dante chiede che voci sono quelle, una terza ripete il precetto evangelico di amare i propri

nemici. Virgilio allora spiega che, poiché nella cornice si espia il peccato dell’invidia, le voci esortano alla

carità e aggiunge che, prima di giungere al passo del perdono, ne udiranno altre che indicheranno esempi di

invidia punita.

Virgilio invita Dante a guardare innanzi; il poeta vede gli spiriti vestiti con manti color della pietra e li ode

cantare le litanie dei santi. Stanno appoggiati l’un l’altro, addossati alla parete e hanno le palpebre cucite con

il fil di ferro, tanto da sembrare i mendicanti ciechi sulla porta delle chiese.

Poiché a Dante sembra di far oltraggio a quelle anime dato che le vede senza essere visto, si volge a Virgilio

domandandogli consiglio. Questi, prima ancora che Dante apra bocca, gli risponde invitandolo a parlare e

Dante chiede alle anime se ce n’è qualcuna italiana. Una risponde che sono tutte cittadine di una sola e vera

città (la Gerusalemme celeste), ma hanno capito che Dante vuole domandare se qualcuna sia vissuta in Italia

quando era sulla Terra.

Dante vede un’anima che, con il mento levato come un cieco, atteggia il volto come se attendesse qualcosa.

Si rivolge a lei, chiedendole chi sia. Risponde di esser stata la senese Sapia (“saggia”) benché saggia non lo

sia stata perché ròsa dall’invidia al punto di aver desiderato la sconfitta dei suoi a Colle Val d’Elsa. Dichiara

di non aver atteso nell’Antipurgatorio, pur essendosi pentita all’ultimo istante, grazie alle preghiere di un

sant’uomo senese, Pier Pettinaio. Detto ciò, chiede a Dante chi sia, avendo comprese che non è un penitente.

Dante risponde a Sapia di essere un peccatore e che un giorno dovrà espiare il suo peccato in quella cornice,

ma forse per breve tempo. Teme molto di più la penitenza che dovrà scontare nella prima cornice, per la sua

superbia, al punto che quasi gli pare di sentire sulle spalle il peso del macigno. Stupita, Sapia chiede chi l’ha

condotto fin lì, e Dante dichiara di essere vivo e anche disposto a giovarle tornando sulla Terra.

Stupita nell’udire che Dante è vivo, Sapia lo prega di “rinfamarla” presso i suoi, che egli potrà trovare tra

quei “vani” senesi, che si perdono in assurde illusioni.

LA MATERIA DEL CANTO

Siamo nel girone degli invidiosi, la cui trattazione continuerà nei canti XIV e XV.

Questo canto rappresenta un caso raro nella Commedia perché, salvo momenti isolati, appare caratterizzato

da una scarsa concentrazione:

- Ai vv. 61-66 gli invidiosi sono paragonati a mendicanti ciechi seduti sulle soglie delle chiese: la

perifrasi per designare la loro povertà (“a cui la roba falla”) suona fiacca. Dopo aver detto che stanno

lì nei giorni di grande affluenza, non sarebbe indispensabile aggiungere che lo fanno per “chieder lor

bisogna”, e che per chiedere l’elemosina cercano di suscitare pietà sia con i lamenti che con l’aspetto

miserabile. 22

- Subito dopo, al v. 68, si dice che il sole non giunge “a l’ombre quivi” e sarebbe sufficiente; invece è

apposto un superfluo “ond’io parlo ora”.

- All’inizio del canto, non essendoci anime cui chiedere come salire, Virgilio, memore

dell’insegnamento di Catone, si volge a procedere in direzione del sole rivolgendo all’astro un’ampia

apostrofe la cui magnificenza oratoria mal di adatta alla tenue occasione narrativa e al generale tono

dimesso del discorso.

- Caso analogo presentano i versi 82-93. Dante si sente a disagio tra le anime accecate poiché vede

senza esser visto e chiese al maestro il permesso di rivolgersi ai penitenti per svelare la propria

presenza. Virgilio gli raccomanda di essere “breve e arguto”, ma il discepolo disubbidisce: la sua

captatio benevolentiae, infatti, dura due terzine zeppe di preziosismi pesanti e inconsueti. Altrettanto

immotivatamente solenne è la domanda alle anime se fra esse ci siano degli italiani.

Accanto a questi momenti insolitamente deboli, ne troviamo altri energici e incisivi:

- Il livido paesaggio della cornice, con la sua aspra solitudine

- La miseria e la mutua carità dei penitenti

- Il ritratto del cieco che, aspettando, solleva il capo

- Le rappresentazioni delle voci e delle palpebre cucite col fil di ferro, dove la descrizione è quasi

“crudele”

- La rappresentazione delle lagrime che premono l’“orribile costura”, tanto il rimorso è forte, e

riescono ad attraversarla, bagnando le gote :

LE ANIME DEL CANTO GLI INVIDIOSI

Gli invidiosi accecati si sorreggono a vicenda, e insieme si addossano alla parete. L’invidia è il contrario

della carità: solo chi usa carità coi suoi simili, aiutandoli, può sperare di essere aiutato dall’amore di Dio.

Tra qualche canto il poeta definirà l’invidia: l’invidioso è colui che ama il male altrui. L’invidia trae origine

dall’amore per i beni mondani che l’invidioso non vuole dividere con altri; l’invidia consiste quindi nel

ritenere il bene altrui una menomazione del proprio.

Il primo degli spiriti invidiosi che s’incontrano, la senese Sapia, dice di essere stata assai più lieta dei danni

altrui che delle proprie fortune ( superbi).

≠ :

UN PERSONAGGIO POCO RIUSCITO SAPIA SENESE

La lunghezza dei due discorsi di Sapia, con parecchie battute non essenziali, va ascritta al generale tono

discorsivo del canto. L’intero episodio è poco incisivo perché Sapia è una figura non centrata, troppo

eterogenea.

Canto XIV

• Dove: seconda cornice

• Anime espianti: gli invidiosi

• Personaggi: Dante, Virgilio, Guido del Duca e Ranieri da Calboli

RIASSUNTO

Due spiriti, che hanno udito il colloquio tra Dante e Sapia, si domandano, stupiti, chi possa essere quel vivo,

che si aggira per la loro cornice. Uno si rivolge direttamente al poeta chiedendogli chi sia e da dove venga.

Dante risponde di venire dalla valle di un fiume indicato con una perifrasi, e di non voler dire il proprio

nome, perché ancora poco noto. L’anima risponde di aver capito che si riferiva all’Arno.

L’altra anima (Ranieri da Calboli) si volge stupita a Guido, chiedendogli come mai il loro interlocutore abbia

taciuto il nome dell’Arno, come fosse una cosa ripugnante a pronunciarsi. Guido allora risponde di

ignorarne il perché, ma aggiunge che è giusto tacerne il nome per l’indegnità di coloro che vi abitano. Poi

23

enumera i vari abitanti della valle dell’Arno, indicandoli come animali, poiché hanno smarrito il senso della

virtù: porci i casentinesi, botoli ringhiosi gli aretini, lupi i fiorentini, volpi i pisani.

Guido continua profetizzando le stragi che tra quei lupi (i fiorentini) farà il nipote del suo compagno,

Fulcieri; a quelle parole Ranieri da Calboli si turba.

Le parole dell’uno e il volto rattristato dell’altro fanno sorgere in Dante il desiderio di sapere chi siano

quelle due anime. A parlare è stato il romagnolo Guido del Duca, che dichiara di esser stato un grande

invidioso e di pagare qui il fio del suo peccato.

Guido indica poi nel compagno di espiazione Ranieri da Calboli, del cui valore nessuno della sua famiglia si

&e

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Publisher
A.A. 2016-2017
53 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/10 Letteratura italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher itamaione di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Letteratura italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università Cattolica del "Sacro Cuore" o del prof Frasso Giuseppe.