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LA CARRIERA DI VERRE
Verre nacque nel 115 a.C., era figlio del senatore
Gaio Verre e da una donna della gens Tadia.
Nell’84 divenne questore del console Gneo
Papirio Carbone in Gallia Cisalpina. A Roma era
in corso una guerra civile e il senato cercò di
formare un esercito vincente. Silla, ritornato
vincitore dell’oriente e sostenitore della parte
anti-aristocratica, si scontrava con i seguaci del
generale Mario, esponente del ceto popolare.
Verre capì che le cose si svolgevano a favore di
Silla, abbandonò Carbone e scomparve con la
cassa dell’esercito, che, in quanto questore
doveva amministrare. Nell’81 si aprì un’inchiesta,
Verre sostenne di aver lasciato la cassa a Rimini,
e che la sua scomparsa fu dovuta ai saccheggi
dalle truppe di Silla. Verre schierandosi con Silla
ottenne dei benefici: fu mandato a Benevento e
gli furono concessi i beni proscritti. Nell’80 Verre
fu nominato legatus dal governatore Dolabella e
quando Gaio Malleolo fu ucciso, Verre, prese il
suo posto di questore. Durante il tragitto, Verre,
innamorato dell’arte saccheggiò templi, tentò di
rapire una fanciulla, derubò e saccheggiò.
Dolabella comunque lo proteggeva sempre, ma
quando poi nel 78 egli dovette rendere i conti del
suo governo davanti al tribunale, Verre si
presentò come accusator facendolo condannare.
Con molto tatto si assentò da Roma per qualche
anno affinché fosse dimenticato il suo passato e
nel 75 si comprò i voti alle elezioni del praetor
Urbanus. Con tale carica poteva aspirare al
governo delle province e con l’aiuto della sua
amante «rondinella» ottenne il governo della
Sicilia, nel 73. Egli non ebbe più ritegno, avido di
ricchezze e amante del lusso, non sentiva il peso
delle sue responsabilità e quando le cose si
mettevano male la sua pazzia lo spingeva a
bramare di più così da poter comprare il tribunale.
Ironia del caso fu che per 2 anni impedì l’arrivo
del suo successore, lasciando così i siciliani alla
deriva. Verre poté così agire indisturbato: non fu
solo un ladro ma anche carnefice. Tutto era una
burla, comprava, eleggeva e vendeva tutto ciò che
gli conveniva. Amante dell’arte fece erigere
statue in suo onore, in onore del padre e di suo
figlio. Rubò moltissime statue grazie alla
complicità dei collaboratori, che facevano tutto
per interesse. Oltre che destituito di ogni senso
morale era anche crudele.
DE SIGNIS
Cicerone mette alla luce dei fatti la bramosia di
Verre, governatore della Sicilia, che non ha
lasciato nulla in casa di nessuno.
Gaio Eio possedeva nella sua casa una cappella
con quattro statue: Cupido (marmo), Ercole
(bronzo) e due Canefore (in bronzo); Verre
gliel’ha portate via lasciandogli solo un pezzo
ligneo rappresentante la Buona fortuna. La
plausibile scusa di Verre era che li avesse
comprati ma Gaio non aveva alcun motivo per
venderli, anche perché nutriva grande rispetto per
i suoi antenati. Fatto sta che Verre gli fece
annotare nei suoi registri che gli furono state
vendute per 6500 sterzi. Chiamò Gaio a
testimoniare e, essendo rappresentante dell’unica
città che difendeva Verre, Messina, inizialmente
elogiò Verre ma poi confermò la versione dei fatti
raccontata da Cicerone richiedendo, non i soldi,
ma le statue degli dei. Messina si dimostrò l’unica
città amica perché nascondeva i suoi imbrogli in
cambio di favoritismi. A Gaio Eio derubò anche i
drappi, ma non si premurò di registrare un falso
acquisto come fece con le statue, cosa che gli
costò cara poiché non poté difendersi dall’accusa
di furto.
Da Filarco di Centuripe e da altri uomini illustri
pretese che gli venissero date delle fálere (piastre
rotonde di metallo, generalmente prezioso e con
figure cesellate, usate come decorazioni da
appendere al petto sopra la corazza), inizialmente
gli uomini cercarono di sviarlo, ma Verre, con la
forza, otteneva sempre ciò che chiedeva.
Verre rintracciava tutti questi oggetti dopo vari
controlli, e nel far ciò era assistito da due fratelli
originari di Cíbira. Uno di loro faceva il
modellatore in cera, l’altro il pittore. Costoro
erano fuggiti dalla loro città dopo aver
saccheggiato il tempio di Apollo, e dopo essere
entrati in contatto con Verre, trovarono asilo da
lui mentre stava in Asia. Egli si valse a più riprese
della loro opera e del loro consiglio per le rapine
e i furti compiuti durante le sua legislazione.
Dopo averli oramai conosciuti a dovere e
ampiamente sperimentati, se li portò in Sicilia.
Una volta arrivati li, sembravano cani da caccia:
in un modo o nell’altro riuscivano a scovare ogni
oggetto, dovunque si trovasse.
A Panfilo Verre portò via l’idria cesellata, e
successivamente, inviò uno schiavo a casa sua per
intimargli di consegnargli anche due coppe ornate
a bassorilievi. A questo punto, quando Panfilo
supplica i fratelli di lasciargli tenere le coppe,
questi gli chiedono in riscatto 1000 sesterzi, lui
accetta, si porta via le coppe, e i cani da caccia
raccontano al loro padrone di avergliele restituite
poiché erano di mediocre fattura.
Cicerone risulta clemente riguardo al furto subìto
da Apollonio di Trapani (Verre depredò la sua
argenteria dei pezzi di maggior pregio) perché
considera quest’ uomo vile quanto Verre: rubò
tutte le eredità degli orfani di cui ne era tutore, e
si divise il bottino con il governatore.
Originario di Malta fu Diodoro che abitò poi a
Marsala. Egli possedeva bellissimi vasi cesellati,
fra cui le tericlee. Verre, che le voleva tutte per se,
chiese a Diodoro di portargliele, ma questo,
furbo, gli disse che le aveva lasciate a Malta, e
così ottenne tempo per fuggire. Verre, scoperto
l’inganno, divenne un pazzo e diceva a tutti di
essere stato derubato. Da ordine di cercare
Diodoro in tutta la Sicilia, ma questi, intanto
sen’era già andato. Allora Verre, per farlo tornare
escogita questo stratagemma: gli affibbia come
accusatore uno dei suoi scagnozzi che manifesti
la sua volontà di mandare sotto processo per
delitto capitale Diodoro di Malta. Fu quella la
prima volta che, venne accolta un’accusa contro
un’assente. Il fatto destò grande indignazione in
tutta la Sicilia: Verre rischiava un processo per
delitto capitale. Intanto Diodoro cercò rifugio a
Roma e raccontò a tutti il suo accaduto, ciò arrivò
all’orecchie del padre di Verre che, richiamando il
figlio, non fece condannare Diodoro in
contumacia. Disprezzando la classe dei cavalieri
li derubò tutti o, addirittura, spiantava i rilievi
incastonati dai vasellami.
Derubò tutta la Sicilia: Cicerone sostiene che un
tempo questa terra fosse ricca di oggetti artistici,
ma l’avidità e l’ingordigia di quest’uomo fecero
si che con il tempo necessario costui riuscì ad
accaparrarsi tutto quello su cui valesse la pena
mettere le mani. Anche quando veniva invitato ad
un banchetto tele governatore non riusciva ad
andar via senza aver prima depredato la famiglia
ospite di piatti, suppellettili o qualsiasi altro
oggetto cesellato.
A Filone di Tindari strappò i bassorilievi da un
piatto e glielo riconsegnò, a Eupolemo di Calette
gli strappò i rilievi incastonati da due coppe.
Facendo fare il lavoro sporco agli altri derubò
tutto l’argento di Catania, Centuripe e Alunzio.
Se precedentemente i governatori tenevano
nascoste le loro malefatte, Verre le faceva
pubblicamente, come nel caso della città di
Alunzio. In tale luogo, il tiranno ordina ad
Arcágato, l’uomo più illustre della città, e fra in
più rispettati di tutta la Sicilia, di portar giù dalla
città al mare tutta l’argenteria cesellata ed
eventualmente tutti i vasi di Corinto esistenti ad
Alunzio. Tutto è portato giù alla spiaggia. Si
chiamano i fratelli di Cibira; essi rifiutano un
piccolo numero di pezzi; agli oggetti che
ricevevano la loro approvazione venivano staccati
sia i rivestimenti, sia i rilievi incastonati. Ma che
cosa ne fa Verre di tutti questi fregi in rilievo?
Egli crea un laboratorio nel quale fa chiamare a
raccolta tutti gli artisti esperti nel cesello e nella
fabbricazione di vasi preziosi. Per otto mesi
costoro furono impegnati nella fabbricazione di
vasi d’oro sui quali applicare tutti i fregi rubati.
Un’evento a dir poco impensabile accadde con i
principi di Siria: Verre invitò a banchetto i reali e
questi a loro volta ricambiarono dando
l’occasione a Verre di cedere in “prestito” del
vasellame impreziosito; interesse di Verre stava
comunque in un candelabro che i reali volevano
donare al tempio di Giove e, con la scusa del
prestito, se lo fece portare. I regnanti richiesero
più volte che gli fosse restituito ma Verre chiese
che gli fosse regalato, i regnanti non accettarono e
Verre li minacciò e, sotto gli occhi di tutti, li fece
andar via dalla provincia provocando il
malcontento tra le popolazioni stranierie. Facendo
ciò non dichiarò guerra solo agli umani ma anche
agli dei immortali.
In Sicilia c’è una città di nome Segesta che la
tradizione vuole che sia stata fondata da Enea
(doppio legame con Roma). Dopo la vittoria dei
Cartaginesi su questa città, essi trasportarono da
Segesta a Cartagine una statua di Diana in
bronzo, oggetto di una venerazione tutta
particolare che risaliva a tempi molto antichi.
Senza profanarla, ne continuarono il culto, in
quanto in merito alla sua splendida bellezza anche
ai nemici sembrava degna della più devota
adorazione. Publio Scipione Africano, conquistata
Cartagine, la restituì ai legittimi proprietari che,
come segno di gratitudine, segnarono il suo nome
sul piedistallo. Verre allora la richiese e vedendo
opposizioni iniziò a far gravare sui Segestiani
qualsiasi tipo di imposizioni fin quando
quest’ultimi cedettero. Cicerone sceglie
quest’argomento perché tra la difesa di Verre c’è
Publio Scipione, discendente dell’Africano, e così
facendo egli, da liberale, fa leva sui valori della
nobiltà in modo da sposare la causa popolare. Se
Scipione accetta di restituire la statua, condanna
automaticamente il suo cliente, d’altro canto se si
rifiuta d