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Roma).Durante il processo Verre venne accusato di concussione, per le attività
illegali commesse durante il periodo in cui era stato governatore. La concussione era
definita come estorsione e indebita appropriazione di beni, connessa all’esercizio di
pubblici poteri a danno dei provinciali, anche senza arricchimento dell’autore.Le
sanzioni possibili per il reo di concussione erano le seguenti:
- perdita dei diritti di elettorato attivo e passivo;
- perdita del rango privilegiato di appartenenza, ad esempio esclusione dalla classe
senatoria;
- proibizione di rappresentare in giudizio persone non congiunte;
- esilio (aqua et igni interdictio);
- risarcimento dei danni (litis aestimatio).
Nonostante i tentativi di rinvio del processo da parte della difesa di Verre, Cicerone
riuscì a far accusare Verre, che comunque fuggì in esilio volontario a Marsiglia prima
della fine del processo, trafugando statue e gioielli anche prima della sua fuga. Verre
fu condannato al risarcimento di 3 milioni di sesterzi, una cifra comunque modesta
rispetto quello che aveva estorto; venne poi ucciso nel 43 a.C. per ordine del
triumviro Marco Antonio che lo inserì nelle liste di proscrizione. La sua colpa fu
l’aver rifiutato di consegnare alcuni preziosi vasi di Corinto che avevano attirato
l’attenzione del triumviro.Il processo contro Verre comunque non avrebbe suscitato
tanto scalpore (nelle province la corrotta amministrazione era ormai una prassi
consolidata), se lo stesso Verre non avesse esagerato nelle proprie ruberie, e se i
Siciliani non avessero affidato il loro patrocinio a Marco Tullio Cicerone, il valente
oratore che pochi anni prima (75 a. C.) era stato questore in Sicilia, lasciando loro un
ottimo ricordo, e che a 36 anni aspettava la grande occasione per imporre una svolta
decisiva alla propria carriera di avvocato e di uomo politico presentandosi come
difensore delle istituzioni della repubblica, non disposto a farsi strumento di interessi
di parte in cambio di vantaggi personali. Le Verrine dunque (le orazioni da lui scritte
per sostenere l'accusa contro Verre), non furono solo un atto di accusa contro un
magistrato disonesto, ma assunsero il valore di una vibrante denuncia della
corruzione dello Stato e delle soverchierie amministrative coperte dall'omertà del
Senato. Il complesso delle orazioni comunemente dette Verrine comprende dunque:
-la Divinatio in Q. Caecilium, pronunciata da cicerone nell'udienza preliminare per
dimostrare il proprio diritto a sostenere l'accusa contro Verre, al posto di Q. Cecilio
Nigro, autore insieme a Verre di molte illegalità
-l'Actio prima in Verrem, pronunciata da Cicerone nella prima udienza del processo,
il 5 agosto del 70 a. C. , per formulare i capi d'accusa e dar lettura delle prove
testimoniali. Qui di seguito riporteremo alcune delle accuse rivolte a Verre da
Cicerone. Cicerone parla dei tentativi messi in atto da Verre che va ripetendo “che nn
esiste virtù che non si possa vincere col denaro” Egli va ripetendo che ad aver paura
devono essere coloro che hanno sottratto furtivamente appena il bastante per loro,
mentre quello che lui ha rubato apertamente è tanto, che può essere bastante ad un
buon numero di persone; ed aggiunge che non c’è virtù che si possa vincere col
denaro né castello così fortificato che non si possa nello stesso tempo espugnare.
E’ per questo che, tenendo conto della mia richiesta di un brevissimo spazio di tempo
per svolgere le mie indagini in Sicilia , costui ha trovato uno che chiese due giorni
meno di me per la sua inchiesta in Acaia, e non già per giungere con una solerte e
scrupolosa indagine agli stessi risultati che ho faticosamente ottenuti io sottraendo il
tempo anche al sonno; ché il nostro inquisitore d'Acaia non è arrivato nemmeno a
Brindisi, mentre io in cinquanta giorni ho percorso l’intera Sicilia prendendo
conoscenza dei documenti pubblici e privati comprovanti le illegalità compiute a
danno sia delle comunità sia dei privati. -l'Actio secunda in Verrem, mai pronunciata
ma pubblicata da Cicerone dopo la conclusione del processo. É costituita da 5
orazioni: De praetura urbana (la pretura urbana); De praetura Sicilensi (la propretura
in Sicilia), De re frumentaria (L'approvvigionamento di frumento), De signis (Le
opere d'arte), De suppliciis (I castighi corporali), in cui Cicerone espone nei minimi
particolari tutte le colpe di cui si era macchiato Verre abusando, a vantaggio
personale, del potere conferitogli dalle sue funzioni di pubblico magistrato sia a
Roma sia in Sicilia. Cicerone entra direttamente in argomento quando dice che nulla
di prezioso e bello è rimasto in Sicilia, perché nulla è sfuggito all'ingorda avidità di
Verre. Cicerone non sa definire con il giusto appellativo quella che Verre chiama
"passione per l'arte" : lascia che parlino i fatti. Io dichiaro che in tutta quanta la
Sicilia, provincia così ricca e antica, piena di tante città e di tante famiglie così
facoltose, non c'è stato vaso d'argento nè vaso di Corinto o di Delo, nè pietra preziosa
o perla, nè oggetto d'oro o d'avorio, nè statua di bronzo o di marmo d'avorio, dichiaro
che non c'e' stato quadro nè arazzo che egli non abbia bramosamente ricercato,
accuratamente esaminato e, se di suo gusto, portato via. Nella stringata esposizione
dell'Actio prima (dalla quale abbiamo riportato alcune citazioni che ci sembravano
significative), Cicerone elenca dunque i tentativi posti in atto da Verre per comprarsi
l'assoluzione ed afferma che già questi costituiscono una prova della sua
colpevolezza. Di ritorno dalla Sicilia, per guadagnare tempo, Verre ha fatto in modo
che un altro processo fosse discusso prima del suo; ha contribuito al finanziamento
della campagna elettorale dei suoi difensori, sicuro che per le dilazioni provocate
dalle feste, il dibattito si sarebbe protratto fino all'anno seguente, quando Marco
Metello, nuovo presidente del tribunale, e i nuovi consoli in carica, Ortensio Ortalo e
Quinto Metello, gli avrebbero garantito l'assoluzione. Per sovvertire i piani di Verre,
Cicerone rinuncerà ad un discorso lungo ed esauriente per passare subito
all'esposizione dei fatti e procedere all'interrogatorio dei testimoni. L'actio si chiude
con l'enunciazione in tono solenne del formale atto di accusa contro Verre.
“Ecco l’accusa che formuleremo in questa prima fase del processo: dichiariamo che
G. Verre non solo ha compiuto molti abusi di potere, molti atti di crudeltà a danno di
romani e provinciali, e molte empietà nei riguardi degli dei e degli uomini, ma ha
pure portato via illegalmente dalla Sicilia 40.000.000 di sesterzi. Ve ne daremo ampia
prova con testimonianze e con autorevoli documenti pubblici e privati, facendovi
giungere alla conclusione che, se pur avessimo avuto tutto lo spazio di tempo
necessario per parlare a nostro piacimento, se pur avessimo avuto a nostra
disposizione delle intere giornate, tuttavia non ci sarebbe stato affatto bisogno di un
lungo discorso. Ho fatto”. Indipendentemente dal loro significato politico
contingente, le Verrine, ammirevoli per il vigore drammatico e oratorio, e scritte con
stile molto più duttile e vario che le prime orazioni, enunciano i principi di un
governo umano, ispirato a onestà e filantropia, sui popoli sudditi dell'impero. Inoltre,
il grande successo e l'enorme popolarità ottenuti con il processo, diedero modo a
Cicerone di dimostrare non solo la sua indiscutibile oratoria, ma lo portarono
soprattutto in primo piano sulla scena politica romana.
Il prosieguo del processo
Cicerone ha parlato per circa tre quarti d’ora. Venne quindi data lettura della lista
deitesti d’accusa e se ne iniziò l’escussione. Per nove giorni, fino al 13 agosto,
l’accusatore li fece sfilare senza interruzione davanti al tribunale. Di una sessantina di
essi sono stati conservati i nomi, ma dovettero essere più del doppio. L’accusa
seguiva la procedura preannunciata e la parte avversa dovette rassegnarsi asubirla.
Ortensio da principio intervenne provocando vivaci diverbi, Verre reagì ad alcune
accuse che più profondamente lo colpivano; ma l’uno al secondo e l’altro alterzo
giorno del dibattito rinunciarono ad ogni velleità di lotta. Considerando
l’enormeimpressione suscitata dal numero e dalla gravità delle deposizioni, il
difensore ritenne forse più opportuno tacere riservandosi di svolgere nel secondo
dibattito un trattazione generale dell’operato di Verre. Questi da parte sua pensò bene
di darsi malato, forse per non accrescere con la sua presenza l’odiosità che la folla gli
dimostrava. Il pubblico partecipava con passione alle fasi del dibattito: ad alcuni
episodi commoventi tutti avevano le lacrime agli occhi, alla rievocazione delle
efferate crudeltà di Verre tutti prorompevano in esclamazioni di sdegno; e una volta il
presidente dovette sospendere l’udienza per evitare che la folla si scagliasse
sull’imputato per linciarlo. Alla metà di agosto, come voleva Cicerone, il primo
dibattito era concluso. Fu deliberato il rinvio e fissata la ripresa della causa per il
secondo dibattito al 20 settembre o poco dopo, appena cioè che fosse passato il
periodo dei ludi. Però era opinione generale che Verre fosse ormai irrimediabilmente
condannato.
Condanna e fine di Verre
Perduta la speranza di protrarre il processo fino all’anno seguente, cadde per Verre
anche ogni probabilità di assoluzione. Tuttavia egli ostentò in pubblico indifferenza e
quasi fiducia nell’esito della causa; anzi, alla presenza di parecchi senatori, si
soffermò un giorno ad ammirare, con occhio cupido, l’argenteria di Lucio Cornelio
Sisenna, uno dei suoi difensori. Ma nascostamente fece sparire dalla propria casa
quasi tutte le statue e gli oggetti più preziosi. Certamente si era consigliato con
Ortensio e, considerata la condanna ormai inevitabile, aveva deciso: si sarebbe
allontanato in volontario esilio prima che il processo fosse ripreso. Così al suo
avvocato sarebbe riuscito più facile ottenere che la liquidazione del risarcimento
fosse ridotta al minimo. Probabilmente Verre partì verso la metà di settembre.
Quando, finiti i ludi romani, il tribunale fu nuovamente convocato, ai giudici toccò
sancire con la sentenza quella condanna che l’imputato spontaneamente si era
attribuita. Nel successivo giudizio Ortensio riuscì a manovrare in modo che il
risarcimento fosse limitato a una cifra irrisoria in confronto all’entità dei danni:
soltanto tre milioni di sesterzi. Probabilmente Cicerone, soddisfatto del clam