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ARISTOTELE

Il gioco di interazione tra gli individui è ciò che costituisce la politicità dell'uomo e all'interno di questo

sistema Aristotele cerca che cosa sia il giusto politico, appunto non prescindendo dal carattere politico degli

individui. Aristotele esamina il giusto partendo dal fatto che questo deve essere concretamente realizzato e

verificato all'interno di un contesto sociale. Nel IV° libro dell'Etica Nichomachea il filosofo distingue il

giusto politico naturale, conforme alla physis, e il giusto politico legale, conforme al nomos.

Il giusto politico naturale, secondo Aristotele, non è legato a elementi mutevoli o volubili. Il giusto politico

legale, invece, si distingue e caratterizza nel momento in cui viene formulato, cioè la determinazione del

giusto politico secondo il nomos si verifica in funzione del mondo in cui quel giusto viene stabilito o

tramandato nelle leggi. Potremmo dire che il discrimine è come il giusto politico viene codificato o

legalizzato. In primissima battuta, sembrerebbe che Aristotele non ci stia presentando sostanzialmente nulla

di diverso da quella che è la distinzione tra il diritto naturale e il diritto positivo. L'idea di Aristotele di ciò

che si intende per natura è l'atto, cioè la polis e il giusto politico sono di natura, in quanto l'uomo libero

trova nella polis strutturata e organizzata l'essenza del suo essere in atto, cioè la propria realtà e il proprio

compimento. Con physis si indica qui una realtà concretamente fatta, la “fatticità” del mondo (energheia).

Sappiamo che al centro del pensiero aristotelico c'è la finalità di una vita buona (eudaimonia) e allora

l'uomo, come animale politico, perviene nella polis alla realizzazione della sua più autentica finalità, cioè la

sua vita buona. Il giusto conforme alla natura è ciò che consente all'uomo la realizzazione concreta di questa

eudaimonia. È qualcosa che sta e cade con la polis e ne costituisce il fondamento.

Ognuno è uguale e libero secondo il proprio modo, non tutti possono essere filosofi ovviamente, e per

questo possono raggiungere la propria felicità. Ma il problema è tutti lo possono essere liberi e uguali?

Aristotele dice di no, in quanto vi sono per natura delle persona che non sono libere: gli schiavi. Esiste una

struttura economica dell'oikos strutturata nella figura del padrone, della moglie, dei figli e dello schiavo.

Quest'ultimo è una sorta di utensile vivo che realizza, in base agli ordine e le esigenze del padrone, le

imprese necessaria al mantenimento della casa e che quindi consuma la propria essenza in tale finalità.

Aristotele legittima tale figura nel fatto che se la natura in atto sono diverse anche le nature in atto degli

uomini sono diverse secondo la propria funzione. Per cui avremmo una natura a cui annerisce una

inclinazione al comando e una altra a cui annerisce l'inclinazione ad essere comandato, cioè ogni natura

partecipa della propria inclinazione e all'uso della ragione. La conseguenza di come ci si arrivi ad una

visione di questo genere non da un'idea di natura universale, ma a partire dalle nature concretamente in atto

arrivando a ragionare su come questa può variarizzare il proprio scopo. Aristotele non si chiede perché gli

schiavi esistano, ma vede che esistono concretamente e cerca di studiarne la natura.

Il fatto che Aristotele parli di una schiavitù per natura, prevede che vi sia anche una schiavitù per legge.

Secondo il filosofo vi sono uomini schiavi non per natura, ma perché lo sono diventati, come nel caso dei

prigionieri di guerra. La condizione di schiavitù è stata stabilite, in questo particolare caso, secondo la legge.

Questa schiavitù è legittimata secondo e solamente mediante la legge che nel suo imporsi ha bisogno della

forza. Questo apre lo spazio per lasciare aperta ad Aristotele di considerare qualcosa di anche

profondamente ingiusto. Occorre in primo luogo verificare se si tratti di una schiavitù per natura o per legge,

che può essere considerata ingiusta.

L'altra conseguenza che ne deduciamo è che se il giusto per natura si ricava dalla natura concretamente in

atto, allora questo giusto non è temporale, né statico, né modificabile, né universale. Per Aristotele la natura

dell'uomo è sottoposta al mutamento, alla trasformazione. Il mutamento della natura in atto fa si che si

possa considerare con forma e natura e quindi giusto una modifica dello status. Lo schiavo, in concreto, per

legge che si affranca e quindi modifica la sua natura in atto, legittima il suo diventare uomo libero. Il giusto

politico non viene mai messo in critica a priori. Ogni cosa viene come prima cosa analizzata nel suo esistere.

C'è una tendenza in Aristotele a giustificare e legittimare le cose come conformi a ragione, lo status squo.

Tuttavia anche su questo punto è bene essere un po' cauti, perché se pur esista questa tendenza del diritto

sussistente e il tentativo di Aristotele di legittimare la realtà, per il filosofo qualsiasi argomentazione deve

partire sempre da un dato concreto o da un ambito specifico.

Gli uomini devono essere messi nella condizione del loro essere pienamente loro stessi. Gli individui sono

messi e agevolati a ciò che è conforme alla loro natura. La giustizia è il dare uguali opportunità. Questa

essenzialità, questa irrinunciabilità vale anche per l'aristotelismo. Non c'è giustizia particolare e concreta se

non c'è questa dimensione egualitaria. Aristotele si pone il principio della incommensurabilità della

giustizia, cioè quale sia l'unità di misura della giustizia.

Mercoledì 30 Settembre 2015

AGOSTINO

Agostino ha un elementi di particolare interesse, perché con un espressione abusata “mutamento di

paradigma” tra il mondo antico e quello medievale che è evidentemente rappresentato dall'inserimento nel

mondo dell'evento del cristianesimo. Fondamentalmente, a dispetto di tutte le inclinazioni teologiche, su due

grandi tematiche storico-filosofico-politica: la concezione della storia che porta con sé una nozione nuova

del tempo. Dopo Kant non si può pensare al tempo senza comprendere lo spazio e questo implica che il

tempo ha un correlato fondamentale anche sul piano filosofico-politico. Pensare il tempo vuol dire anche

ridimensionare gli spazi interumani della azione e quindi ripensare politicamente la società. Agostino da

questo punto di vista è l'interprete che plasticamente riproduce questo mutamento di paradigma.

Dalla storia e la biografia di Agostino possiamo ricostruire i contorni di questa situazione. Agostino è il

primo a scrive una autobiografia, che potrebbe essere considerata il suo vero capolavoro filosofico e cioè Le

Confessioni. Agostino presenta l'innovazione di sceglie di raccontare la propria vita non per una forma di

vanità o per il bisogno di autopresentarsi, ma il voler rendere ragione che anche gli eventi particolari ed

individuali non sono il frutto di una mera causalità, ma sono iscritti all'interno di una progettualità della

storia e del mondo che Agostino interpreta essere una progettualità scritta e governata direttamente da Dio,

da una dimensione specifica della divinità che è la sua dimensione provvidenziale. Una provvidenza che

regge le sorti del mondo, individuali e collettive. Quindi la motivazione che sorregge Agostino è una vera e

propria filosofia della storia, in cui quella individua o collettiva sono guidate ed inserite in un disegno

previdenziale retto e voluto da Dio.

Fin da subito abbiamo un mutamento di prospettiva, in rapporto proprio alla concezione della storia. La

storia dell'io non può essere disgiunta dalla storia del mondo. Sono in essi separati, ma indirizzati verso uno

scopo che ha in Dio il proprio culmine.

Il fatto che il cristianesimo consenta di interpretare la storia in una prospettiva teologia, vuol dire che trovare

l'alpha o l'omega in Dio significa che la storia ha un significato, che gli eventi di essa sono giustificati, in

una prospettiva redentiva, di salvezza, tramite la quale l'uomo, se fa ciò che è nelle sue potenzialità fare, è

esposto non alla dannazione, ma alla beatitudine. C'è quindi un disegno provvidenziale della storia di

carattere esoterico-redentivo. La storia non è condannata a finire nel nulla o nella dannazione, ma in una

prospettiva di beatitudine e redenzione.

Ciò che per i greci e in particolare per Aristotele era la entelechia, il fine dell'esistenza, nella storia viene

ricompreso a partire dalla propria fine, cioè dalla consapevolezza che il mondo finirà. Il mondo non è eterno,

ma è destinato a concludersi. La storia viene analizzata e compresa dalla constatazione della sua fine.

L'escaton è quel finire che illumina la storia nella sua finitezza.

Agostino in questa prospettiva cerca di risolvere un problema, cioè la presenza del male. Nel filosofo

domina sempre un carattere duale e questo è un imprinting mentale che gli è derivato dal fatto di essere

cresciuto filosoficamente alla scuola del manicheismo che vedeva il mondo come un lotta incessante tra due

forze, il bene e il male, compresenti nella realtà e quindi anche nell'uomo. L'esito di questo scontro non è in

sé prevedibile, secondo i manichei, e perciò vengono ritenuti eretici, in quanto nella tradizione cristiana-

paolina il bene domina sempre sul male. Agostino aderisce a questo movimento, affascinato e sedotto dalla

teoria manichea, e quando ne uscirà convertendosi al cristianesimo la sua risposta sulla realtà del male sarà

toglierli spessore ontologico, come era per il pensiero socratico del male come ignoranza del bene. Il male

quindi diviene negazione del bene e alla base di questa teoria vi è un elemento originario: il peccato

originale.

Il fatto che vi sia un evento, una colpa, all'origine della storia che giustifichi la decadenza del mondo è una

costante di tutti i miti fondativi delle grandi civiltà. Tutti pongono una colpa commessa all'origine della

creazione e prima di codesta colpa il mondo era perfetto e privo di contraddizione. Questa colpa non è stata

commessa una volta per tutte in un dato momento della storia, ma questa si riverbera nella storia di ogni

uomo e si tramanda di generazione in generazione. È proprio questo il carattere della cristianità più forte, in

quanto questa colpevolizzazione sta iscritto nel codice genetico sia dell'ontogenesi sia della filogenesi, nella

natura di ogni uomo. È su questo tramandamento che arriva l'evento della morte e risurrezione di Cristo,

Dettagli
A.A. 2015-2016
35 pagine
3 download
SSD Scienze politiche e sociali SPS/01 Filosofia politica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher insintesiHegel di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Filosofia politica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Trento o del prof Ghia Francesco.