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La sfida dell'identità nell'era globale
Siamo dunque di fronte alla desolante alternativa tra una perdita d'identità e un suo revival regressivo, tra un'assenza di legame e una sua rinascita informe, violenta e distruttiva. Resta tuttavia da chiedersi se la forbice tra un individualismo narcisistico e un comunitarismo tribale sia l'unico scenario possibile dell'età globale.
La mia ipotesi è in primo luogo che il processo di globalizzazione contenga, malgrado le patologie da esso prodotte, un potenziale emancipativo; il quale consiste nella chance - del tutto inedita e sconosciuta a fasi precedenti della modernità - di creare una forma planetaria (o cosmopolitica) di legame sociale; in secondo luogo, che questa possibilità sia in parte intrinseca agli stessi fattori dai quali ha origine la crisi del legame sociale (in primis, l'insicurezza e la paura).
Tra i fattori di insicurezza, come accennavo sopra, il più radicale è oggi senza dubbio costituito dai...
“rischi globali” (global warming e distruzione dell’ambiente, minaccia nucleare, epidemie virali ecc.): fenomeno tristemente inedito, che apre una vera e propria voragine nel progetto della modernità minando alla radice la fiducia nella sua presunta razionalità. I rischi globali non sono il prodotto della natura, come nell’età pre-moderna, e non sono neppure i “pericoli” prodotti da un hobbesiano conflitto emotivo cui si può sempre porre razionalmente rimedio. Essi sono il risultato di un agire che, scientificamente e tecnologicamente alimentato, appare sempre più libero di “scatenarsi”, nella propria illimitatezza prometeica; un agire che causa una sorta di liberazione dei mezzi dai fini autorizzando gli individui a fare qualcosa solo perché “può” essere fatta; che ha dunque perso ogni weberiano ancoraggio al senso e allo scopo, causando inevitabilmente conseguenze ed effetti non previsti e non voluti.
Indesiderati, spesso avvolti in un alone di invisibilità, e soprattutto irreversibili, i rischi globali sono la più inquietante testimonianza simbolica di quella perdita di controllo, di cui, per un ennesimo paradosso, gli uomini sono evidentemente i soli artefici ed editori, ma che, allo stesso tempo, li confina al ruolo passivo ed impotente di spettatori.
Il paradigma dello "spettatore" che, come ha suggestivamente mostrato Hans Blumenberg, aveva metaforicamente sancito l'età premoderna venendo poi definitivamente superato dal moderno scenario di individui "embarqués", coinvolti in prima persona nelle cose del mondo, torna curiosamente d'attualità nell'età globale; dove tuttavia non ha più niente a che fare con l'immagine stoica e lucreziana del "saggio" che osserva distaccato il pericolo da un porto sicuro. Inquieto e disarmato osservatore di un "naufragio" che egli stesso ha provocato.
E soprattutto, di cui egli stesso può diventare in ogni momento vittima in un mondo reticolare e interdipendente, l'Io globale non trova più alcun luogo separato e sicuro in cui rifugiarsi. Egli finisce per subire passivamente le conseguenze di un agire che, svincolato da ogni fine e teso essenzialmente a soddisfare la sua pulsione all'illimitatezza, produce un effetto-boomerang da cui non c'è riparo. Incidenti nucleari, disastri ambientali, virus contagiosi avanzano come silenziosi invasori varcando ogni rassicurante linea di confine. Attore, spettatore e vittima allo stesso tempo, di eventi che ha involontariamente provocato senza essere in grado di gestirli e controllarli, l'Io globale non gode più di alcuna immunità: né di quella premoderna del saggio-spettatore, né di quella moderna, garantita hobbesianamente dallo Stato. Egli si trova al contrario sempre potenzialmente esposto al "contagio" di avvenimenti.
(siano essi guerre, malattie o inquinamento) che non sono più spazialmente circoscritti né temporalmente limitati. Tuttavia, questo stesso "contagio" è anche ciò che lo accomuna ai propri simili; questa stessa "esposizione" ad eventi che attraversano il globo, lega gli individui in una dimensione di virtuale communitas planetaria che scaturisce, almeno in prima istanza, dalla condivisione democratica dei rischi; condivisione oggettiva e reale, la quale va di fatto al di là delle "nuove disuguaglianze", che indubbiamente la globalizzazione produce tra élites "globali" e poveri "locali" e che non vanno certamente sottovalutate. Sebbene in forme ed entità diverse, che penalizzano le zone periferiche del mondo e colpiscono i settori svantaggiati della popolazione aggiungendosi a vecchie e più tradizionali disuguaglianze (di classe, status ecc.), la diffusione dei rischi globali èil fenomeno che più di ogni altro consente la configurazione di un legame sociale planetario. Essi uniscono di fatto tutti gli uomini, indipendentemente da ricchezza e povertà, come pure da appartenenze di razza, etnia, o nazione, in un "comune destino"; rovesciando così un evento distruttivo in una chance inedita di condivisione e di nuova autoidentificazione. Nella loro radicalità, i rischi globali rendono in altri termini potenzialmente evidente la possibilità, mai sperimentata prima e paradossalmente intrinseca alle stesse patologie della società globale, di una nuova forma di legame che coinvolge non più quell'individuo o gruppo o nazione, ma l'intero genere umano; prima e al di qua di ogni differenza, e malgrado ogni pur innegabile disuguaglianza. Si può allora essere d'accordo con l'autore quando afferma: "...diviene forse per la prima volta esperibile la comunanza di un destino che– in modo abbastanza paradossale – risveglia, con l’assenza di confini della minaccia prodotta, una coscienza quotidiana cosmopolitica che supera perfino i confini tra uomo, animale e pianta…”.
Tuttavia, ed è questo un aspetto su cui non si riflette abbastanza pur essendo platealmente evidente, l’esistenza del rischio non produce di per sé effetti emancipativi; non si traduce automaticamente in una presa di coscienza soggettiva. Al contrario, l’emergere di rischi così inquietanti per l’umanità da prefigurare addirittura “l’impensabile”, provoca piuttosto, da parte degli individui, reazioni di rimozione, o meglio di “diniego”, della realtà.
Il diniego (Verleugnung) infatti, come Freud ci insegna, è una sorta di sottile autodifesa dell’Io, il quale pur riconoscendo razionalmente una realtà penosa e difficile, impedisce che essa venga emotivamente sentita e partecipata.
In altre parole, l'Io globale è in grado di vedere e riconoscere i rischi che lo circondano senza esserne però affettivamente coinvolto. Ciò spiega in parte quell'assenza di paura in cui già Günther Anders riconosceva il sintomo paralizzante del "dislivello prometeico" di cui soffre l'uomo contemporaneo: il sintomo cioè di quella scissione tra il "fare" e il "sentire" che inibisce, appunto, l'insorgere della paura e la successiva mobilitazione che la paura è capace di produrre. L'enormità dei rischi spinge, in altre parole, l'Io ad una sorta di "ritrazione narcisistica" che lo immunizza dal pathos, bloccando a priori persino la paura. Questa operazione anestetica è inoltre favorita dalla natura stessa del rischio: che a differenza del "pericolo", non è più, come nello scenario hobbesiano, tangibile e determinato, spazialmente.vicino e prodotto da un "nemico" identificabile; ma è, al contrario, indeterminato e invisibile, astratto e aleatorio, privo di un soggetto definito cui imputare la responsabilità dei suoi effetti. Di fronte a questa indeterminatezza l'Io trova automaticamente nel "diniego" un escamotage autodifensivo; o tutt'al più, egli risponde con una reazione emotiva anch'essa indeterminata, che non è più definibile come "paura", ma piuttosto come "angoscia", intesa come generico stato di ansia di fronte a minacce indefinite e non circoscrivibili. Tratto peculiare della soggettività narcisistica sintomo di una radicale perdita di "fiducia", l'angoscia produce due reazioni opposte e complementari: da un lato genera la ritrazione dell'Io nel circuito paralizzante di una autoconservazione entropica e difensiva che va ad alimentare il "fenomeno dellospettatore”;dall’altro può tradursi in forme persecutorie e nella ricerca di “capriespiatori” su cui proiettare le proprie paure, dando origine ad aggregazioniendogamiche ed esclusive, tenute insieme unicamente dal desiderio diidentificare un nemico che le esoneri da un’autentica presa di coscienza. Diventa allora inevitabile chiedersi se sia possibile sottrarsi alla avvilentealternativa tra l’assenza di paura e il suo spostamento persecutorio; se siapossibile uscire, per richiamare i termini che ho prima proposto, dallaforbice tra un individualismo narcisista che annienta ogni legame e uncomunitarismo tribale, che lo ricostruisce in forme distruttive. Il problema èinfatti quello di riattivare la paura senza cadere nella rete paralizzante eindifferente dell’angoscia, e senza cedere alle sue spinte regressive edarcaiche. Solo in questo caso si può davvero parlare di “coscienza” deirischi: questa esige infatti,allo stesso tempo, il risveglio emotivo, che solorende interiormente reale l'evento, e la capacità di porre una distanzarazionale dall'evento che consenta di identificare i veri responsabili e diformare alleanze costruttive.E' vero che in virtù del suo carattere strutturalmente "riflessivo", vale a diredella sua intrinseca e inintenzionale capacità autocritica, la modernitàcontiene di fatto, al suo interno, questa chance. "Insegnare a se stessa adavere paura", proiettandosi nel futuro è uno degli antidoti impliciti nella"società mondiale del rischio", purché però la paura non diventi l'esclusivoalimento della coesione sociale. In tal caso infatti, essa dà origine solo aforme regressive e chiuse di coesione: le "comunità di pericolo" e le"comunità della paura", o le "comunità distruttive", che si limitanorispondere in modo autodifensivo allo slegamento globale. La paura conserva una