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Chiunque dica ora, oggi, in questo momento, situa un avvenimento come simultaneo al discorso; il suo oggi è necessario
e sufficiente perché il partner partecipi alla medesima rappresentazione. Ma se separiamo oggi dal discorso, esso non sarà
3 Il legame tra Tempo e Racconto stabilito da Ricoeur trova qui la sua conferma. Agostinianamente, non esistono tre tempi, ma solo un tempo, il
presente, che si articola in presente-presente; presente-passato; presente-futuro. Non a caso, poi, Agostino raggiunge tale posizione grazie ad una
considerazione del linguaggio ordinario. 9
più segno del presente linguistico, perché non è più parlato né percepito e non può più rinviare il lettore a un certo giorno
del tempo cronico. Se, ad esempio, lo scriviamo, esso non si identifica con nessuna data: può esser stato proferito in un
qualsiasi giorno del calendario e potrà essere indifferentemente applicato a ogni giornata. Il solo modo per impiegarlo e
renderlo intellegibile fuori dal presente linguistico è affiancarlo esplicitamente a una divisione del tempo cronico: oggi, 8
settembre 2013. Si disegna lo stesso scenario quando un io, sottratto al discorso che lo introduce e attribuibile perciò a
ogni parlante, non designa il suo reale locutore: per attualizzarlo occorre affiancargli il nome proprio: io, Luca (come in
una lettera: se scrivessi solo io e nessuno conoscesse la mia calligrafia, sarebbe riferibile a chiunque).
“Se ne deduce che le entità designate e ordinate dal discorso (il locutore, la sua posizione, il suo tempo) possono essere
identificate solo attraverso i partner dello scambio linguistico. In altri termini, per rendere intellegibili i riferimenti
interni al discorso, bisogna collegarli a un punto determinato in un insieme di coordinate spazio temporali. In tal modo,
tempo linguistico e tempo cronico si congiungono”, perché entrambi hanno bisogno di un riferimento assiale.
Seconda parte, L’uomo nella lingua. Della soggettività nel linguaggio. “Perché il linguaggio ha la proprietà di essere
‘strumento di comunicazione’ ?” Si potrebbe rispondere dicendo che il linguaggio presenta dispositivi che lo rendono
adatto a fare da strumento: si presta a trasmettere quel che gli si affida, e provoca nell’interlocutore un comportamento
sempre adeguato, in risposta. Ma non si confonde, qui, il linguaggio con il discorso? Posto che il discorso è il linguaggio
messo in atto tra partners, EB intende rivedere l’idea di linguaggio come strumento, in quanto “ci sembra che la natura
di questo ‘strumento’ sia spiegata con il suo status in quanto ‘strumento’ ”, che sembra invece appartenere al discorso.
Difatti, troviamo moltissimi sistemi segnici che hanno la funzione di trasmissione: gesti, segnali stradali etc. In effetti, è
proprio il paragone del linguaggio con uno strumento ad essere sbagliato. “Parlare di strumento vuol dire contrapporre
l’uomo alla natura”, perché gli strumenti sono sempre artificiali (la zappa non si trova in natura), mentre “Il linguaggio è
nella natura dell’uomo, che non l’ha fabbricato”. E’ mera e ingenua immaginazione il pensare che un uomo completo
abbia incontrato un altro uomo completo e insieme abbiano elaborato, poco per volta, il linguaggio. “Noi non possiamo
mai cogliere l’uomo separato dal linguaggio e non lo vediamo mai nell’atto di inventarlo”. Né possiamo mai coglierlo
isolato, solo con se stesso: “Nel mondo troviamo un uomo che parla, un uomo che parla a un altro uomo, e il linguaggio
detta la definizione stessa di uomo”, da Aristotele.
Certo, nella prassi il va e vieni della parola suggerisce uno scambio, e quindi una ‘cosa’ che scambieremmo; questa cosa
sembra assurgere a una funzione di strumento, ipostatizzabile in un oggetto: ma è un ruolo, ancora, che spetta alla parola.
Che cosa la predispone ad assurgere a una funzione comunicativa? Deve essere il linguaggio a renderla capace, visto che
la parola è l’attualizzazione del linguaggio. E’ dunque nel linguaggio che va cercata la condizione di questa capacità. Essa
risiede nella proprietà linguistica di manifestare il soggetto. E’ nel e con il linguaggio che l’uomo si costituisce in
quanto soggetto,“perché solo il linguaggio fonda nella realtà, nella sua realtà che è quella dell’essere, il concetto di
‘ego’”. La soggettività che si analizza nel testo, “è la capacità del parlante di porsi come ‘soggetto’”: questa soggettività
è, per EB, “l’affiorare, nell’essere, di una proprietà fondamentale del linguaggio”. La coscienza di sé, la soggettività
come persona, è possibile solo per contrasto con l’Altro. E ciò avviene nel linguaggio. Infatti, io non uso io se non
rivolgendomi a qualcuno, che nella mia allocuzione è un tu. Questa condizione di dialogo implica, inoltre, che io diventi
tu nell’allocuzione di chi a sua volta si designa con io. Il linguaggio è possibile solo per il fatto che il parlante si pone
come soggetto, riferendosi a sé come io nel suo discorso. Per lo stesso motivo, io pone un’altra persona, che, esterna a
me, diventa comunque la mia eco a cui dico tu e che mi dice tu. “La polarità delle persone, è questa la condizione
fondamentale nel linguaggio, il cui processo di comunicazione, dal quale siamo partiti, è una conseguenza
esclusivamente pragmatica”. E questa polarità, inoltre, assume una specificità nel linguaggio. In esso polarità non
significa né uguaglianza né simmetria: io ha sempre una posizione trascendente rispetto a tu, e tuttavia nessuno dei due
termini può essere concepito senza l’altro. Essi sono complementari, ma secondo un opposizione interno/esterno, e allo
stesso tempo reversibili, poiché si scambiano di posto. Non c’è una situazione analoga: “La condizione dell’uomo nel
linguaggio è unica”. Con esso cadono le vecchie antinomie dell’io (coscienza individuale) e dell’altro (società) come due
entità opposte, nel senso di primarie l’una rispetto all’altra. Nel linguaggio si instaura, invece, una realtà dialettica, nella
quale “si scopre il fondamento linguistico della soggettività”. Ma a che titolo il linguaggio fonda la soggettività?
Esso è in tutte le sue parti marcato dall’espressione della soggettività. Ci si riferisce al linguaggio in sé, e non alle lingue
particolari. Difatti, tra i segni di una lingua, di qualsiasi tipo, epoca o regione, i ‘pronomi personali’ non mancano mai.
“Una lingua che non esprima la persona è inconcepibile”.
Inoltre, i pronomi si distinguono da tutte le altre forme linguistiche perché non rinviano né a un concetto né a un
individuo. “Il concetto di ‘io’, inglobante tutti gli io enunciati in ogni istante dalle bocche di tutti i parlanti, non ha lo
stesso senso del concetto di ‘albero’, al quale si riconducono tutti gli usi individuali di albero. L’ ‘io’ non denomina
alcuna entità lessicale”. Né io si riferisce a un individuo particolare, altrimenti ci sarebbe una contraddizione nel
linguaggio: lo stesso termine potrebbe rapportarsi indifferentemente a qualsiasi individuo, ognuno potrebbe usare io per
designarsi nel discorso, ma insieme dovrebbe identificarlo nella sua particolarità, rendendone impossibile l’uso da parte di
tutti. E allora, io si riferisce “all’atto di discorso individuale nel quale è pronunciato e di cui designa il parlante”. La
realtà alla quale io rimanda è la realtà del discorso, l’istanza di discorso, il discorso in atto. “E’ nell’istanza di discorso in
cui io designa il parlante che quest’ultimo si enuncia come ‘soggetto’. Il fondamento della soggettività sta quindi
veramente nell’esercizio [nell’atto] della lingua” [cioè nel discorso, che è l’attualizzazione della lingua]. (L’enunciato
contenente io, appartiene al livello di linguaggio pragmatico e che include, con i segni, coloro che se ne servono. E’
possibile, ad esempio, che in un trattato scientifico i pronomi io/tu non compaiano mai, ma è impossibile che ciò avvenga
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nel testo di una conversazione. Qualsiasi impiego di un nome rinvia a una nozione costante e ‘oggettiva’, che può restare
virtuale o attualizzarsi in un singolo oggetto e che rimane sempre identica nella rappresentazione che suscita in persone
diverse. Le istante di impiego dell’io, invece, non creano una classe di riferimento, perché non esiste ‘oggetto’ definibile
come io. “Ogni io ha una sua propria referenza e corrisponde ogni volta a un essere unico”. L’io e il tu, quindi, rinviano
a una “realtà di discorso”. “Io significa la persona che enuncia l’attuale istanza di discorso contenente io”, istanza unica
per definizione. Nel momento in cui percepisco in due successive istanze di discorso contenenti io, proferite dalla stessa
voce, niente mi assicura che una di esse non sia un discorso riportato, una citazione nella quale io sarebbe attribuibile a un
altro. Quindi, “l’io può essere identificato solo ed esclusivamente dall’istanza di discorso che lo contiene” . Ma,
parallelamente, deve essere colto anche in quanto istanza che ha la forma – linguistica – io, che, d’altronde, non ha
esistenza [la forma linguistica io] se non nell’atto di parole che la preferisce. Troviamo, dunque, una duplice istanza
coniugata: istanza di io referente e istanza di discorso contenente io, riferito. Si può definire meglio l’io, allora, come
“l’individuo che enuncia la presente istanza di discorso contenente l’istanza linguistica io”. Introducendo però l’istanza
di allocuzione, si ottiene una definizione simmetrica del tu: “individuo al quale ci si rivolge allocutivamente nella
presente istanza di discorso contenente l’istanza linguistica tu”. Da La natura dei pronomi, da ora NP.)
I pronomi personali sono il primo appiglio di qualsiasi analisi sulla soggettività del linguaggio. Da essi dipendono altre
classi di pronomi, gli indicatori della deissi – dimostrativi, avverbi, aggettivi – i quali organizzano le relazioni spaziali e
temporali attorno e a partire dal soggetto preso come riferimento: ‘questo, qui, ora’ etc. o ‘quello, ieri, domani’ etc. hanno
in comune la proprietà di definirsi solo in rapporto all’istanza di discorso da cui si producono, cioè dall’ io che vi si
enuncia (I dimostrativi questo, questa, rappr