vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
Allargando invece la visuale alla molteplicità di mondi possibili si scopre che la supposta equivalenza
tra quei nomi e quelle descrizioni è del tutto fittizia e si rende necessario un altro modo di impostare il
problema del loro riferimento. La soluzione proposta da Kripke è la tesi del riferimento diretto, cioè
l’idea che i nomi propri si riferiscano direttamente all’oggetto senza la mediazione dei significati o, in
altre parole, che il valore semantico del nome consista nell’oggetto in quanto tale, prima di ogni
possibile connotazione o senso che possa essergli riferito per via predicativa. A prima vista questa
concezione sembra plausibile, ma lo è veramente? Ha davvero senso dire che i nomi si riferiscono ai
loro oggetti senza la mediazione dei significati, che con essi s’intende l’oggetto senza alcuna
connotazione, prima di ogni possibile descrizione? La conseguenza più immediata della tesi del
riferimento diretto è infatti un nuovo genere di equivalenza tra affermazioni d’identità, non più tra
“Espero è Fosforo” e “La stella del mattino è la stella della sera”, ma tra “Espero è Fosforo” e “Venere è
Venere”. Se infatti il valore semantico del nome si esaurisce nell’oggetto che designa, allora è possibile
sostituirlo con un qualunque altro nome che designa lo stesso oggetto senza che in questo modo siano
alterate le condizioni di verità della proposizione di cui fa parte. In altre parole un’identità tra nomi
propri è necessariamente vera proprio perché corrisponde all’identità dell’oggetto con se stesso e non
all’identità tra possibili connotazioni di uno stesso oggetto (come voleva invece Frege). Questa
2 Seguendo Kripke si può evidenziare il valore normativo e non descrittivo della tesi delle “descrizioni
normative” di Russell con l’esempio seguente: se si chiedesse a qualcuno che cosa intendeva con
“Cicerone” in un’espressione come “X si crede Cicerone” è probabile che l’unica risposta sarebbe “un
famoso oratore romano”, pur non essendo questa affatto una descrizione definita.
concezione ha però due conseguenze che è necessario mettere adeguatamente in luce. Innanzitutto in
questo modo si avanza una concezione dei nomi per cui essi resterebbero sempre in qualche modo
“localizzati” all’interno di un mondo possibile, che corrisponde poi fondamentalmente al linguaggio di
cui fanno parte nel momento della loro enunciazione; se io con “Espero” o “Fosforo” intendo lo stesso
oggetto designato da “Venere” evidentemente mi riferisco a un oggetto diverso rispetto all’uso che era
riservato a quei nomi prima della scoperta di questo pianeta, cioè prima della scoperta che i due corpi
celesti fino a quel momento intesi con “Espero” e “Fosforo” seguivano una stessa orbita ed erano quindi
uno stesso pianeta, “Venere” appunto. Questa prima considerazione ci lascia piuttosto perplessi, se non
altro perché siamo generalmente disposti a credere che a nomi uguali corrispondano oggetti uguali.
Tuttavia la seconda conseguenza è ancora più pesante: se io con le preposizioni “Espero è Espero” e
“Espero è Fosforo” intendo lo stesso non si capisce come le preposizioni “L’uomo X credeva che
Espero fosse uguale a Espero” e “L’uomo X credeva che Espero fosse uguale a Fosforo” siano l’una
(necessariamente) vera e l’altra (possibilmente) falsa. E’questo il problema degli atteggiamenti
proposizionali, la difficoltà più grande che Kripke si trova ad affrontare. Tornando al nesso tra nome e
descrizione è comunque legittimo precisare alcuni punti: innanzitutto di tutti i nomi è possibile dare una
descrizione che indica il riferimento come soggetto di un predicato; è infatti proprietà dei nomi propri di
stare per un oggetto determinato a differenza delle altre parti del discorso (specificatamente i predicati)
ed è dunque una loro prerogativa quella di poter essere analizzati; d’altro canto questo non significa che
la descrizione del referente del nome sia necessariamente definita e riesca a restituire l’oggetto a cui
esso si riferisce (l’esempio è ancora una volta quello di Cicerone come “famoso oratore romano”). La
descrizione può quindi mancare il referente del nome di cui, secondo la prospettiva di Frege e Russell,
dovrebbe essere analisi. Ad ogni modo l’analisi, anche quando necessariamente possibile (nel caso dei
nomi propri e più in generale di tutti i nomi), sembra essere più che altro il segno di un disturbo nella
comunicazione e di un cattivo funzionamento del nome: il nome in quanto segno rimanda all’oggetto, se
per arrivare ad esso si rende necessaria una descrizione allora quella stringa di suoni resta meramente
tale e non assolve la sua funzione (Wittgenstein). Quando si usa un nome non è necessario identificare
linguisticamente il referente in via preliminare, anche perché questo dipende pragmaticamente dalle
intenzioni del parlante e dalle conoscenze presunte nell’ascoltatore. In definitiva possiamo dire questo:
la parafrasi o spiegazione di un nome risponde a un problema di comunicazione e ne riflette le
specificità; nel momento in cui do una parafrasi del nome mi riferisco ad un suo uso determinato, ed è
questo uso e contesto che rendo esplicito. La parafrasi non dà il significato del nome, cioè il suo
oggetto, ma di un uso del nome, cioè del senso in cui è stato usato e in una forma comprensibile a chi
non l’aveva precedentemente compreso. Ogni domanda sul significato di un nome nasce in un contesto
determinato ed è per questo che l’identificazione di Cicerone con “un famoso oratore romano” è
legittima (l’uso del nome è restituito già da questa descrizione). Se questa lettura è giusta allora la tesi
del riferimento diretto è fondamentalmente un modo per dire che i nomi propri non danno
automaticamente l’ oggetto, cioè che non c’è modo di esprimerlo linguisticamente come loro
significato. Ogni descrizione dell’oggetto ne presenta una possibile connotazione ma nessuna di esse
vale sotto ogni contesto (intenzione del parlante, informazioni accessibili, etc.etc….); per questo ciò che
resta è per Kripke solo l’intenzione di riferirsi a un certo oggetto, nella presupposizione che sia lo stesso
tanto rispetto a coloro da cui è stato appreso linguisticamente come nome, quanto rispetto
all’interlocutore del momento. Ma tornando al problema degli atteggiamenti proposizionali, come può
essere allora affrontato all’interno della prospettiva kripkiana sui nomi propri? Un modo sembra essere
quello di attribuire i due nomi “Espero” e “Fosforo” a due oggetti distinti nelle due proposizioni “Espero
è Espero” e “Espero è Fosforo”, non nel senso di dare due diverse connotazioni ad uno stesso oggetto
come aveva pensato Frege, ma come due oggetti assolutamente distinti. Abbiamo infatti detto che il
nome, di per sé, non dà l’oggetto, e questo significa che a uno stesso nome possono corrispondere
oggetti distinti o a nomi diversi può corrispondere uno stesso oggetto; entrambi i casi possono essere
rappresentati dalle proposizioni “X crede che Espero è Fosforo” e “Y crede che Espero non è Fosforo”.
Se queste proposizioni sono vere deve essere allora possibile fissare il riferimento del nome in modo da
render conto della loro verità, sia che ciò accada per mezzo di una descrizione o di un’ ostensione.
L’importante è servirsi dell’una o dell’altra non per dare il significato del nome ma per chiarire un suo
uso determinato all’interno del nostro linguaggio, cioè per fissarne il riferimento in modo da render
conto della verità di quelle proposizioni; in altre parole la descrizione, che rispetto all’ostensione ha un
campo di applicazione più ampio e risulta quindi più interessante per i nostri fini, può anche non essere
definita. Nel caso dell’identità non deve essere possibile attribuire al primo nome nessun predicato che
non valga anche per il secondo nome, nel caso della non identità deve al contrario essere possibile
attribuire al primo nome almeno un predicato che non valga anche per il secondo nome. Ritorniamo
dunque alle due proposizioni “X crede che Espero è Fosforo” e “Y crede che Espero non è Fosforo”.
Nel primo caso non dovremmo trovare nessun predicato che sia vero di “Espero” e non di “Fosforo”; in
effetti le descrizioni dell’uno come “la stella del mattino” e dell’altro come “la stella della sera”
risultano interscambiabili perché in entrambi i casi ci si riferisce a Venere, cioè a un pianeta che sorge
per primo al mattino e tramonta per ultimo alla sera. Nel secondo caso dovremmo trovare un predicato
che sia vero di “Espero” senza esserlo di “Fosforo” o viceversa, e anche in questo caso i candidati
migliori sono la descrizione dell’uno come “la stella del mattino” e dell’altro come “la stella della sera”,
nella presupposizione che non esista nessun pianeta a cui entrambe possano essere riferite. Questo
discorso è sicuramente paradossale, ma al fondo è vero che noi oggi comprendiamo la proposizione
“Espero è Fosforo” perché con l’uno e l’altro nome intendiamo “Venere”, pur essendo anche
consapevoli della storicità di questi nomi così da ritenere impropria la proposizione “Fosforo è la stella
del mattino” e preferire “Venere” a entrambi; non è del resto accidentale che nel momento in cui si
scopre che i due nomi si riferiscono allo stesso oggetto cadano in disuso a favore di un terzo. In altre
parole il nostro mondo sembra contenere una molteplicità di mondi possibili, ognuno dei quali si
compone di una serie di oggetti che esistono solo in virtù delle informazioni disponibili al suo interno. Il
referente del nome si costituisce infatti come un insieme di proprietà che gli vengono attribuite in
diversi punti dello spazio e del tempo e mantengono anche in seguito questa dipendenza dal contesto in
cui sono state introdotte. Di alcuni referenti dei nomi è dunque possibile negare una proprietà che li
caratterizza nella realtà dei fatti, nel senso che è pensabile una diversa realtà in cui quella proprietà
caratterizza un secondo oggetto senza che il primo cessi per