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III.
“Il terzo canto appare subito nuovo, nella sua potente drammaticità, che nasce appunto dal primo
affacciarsi a quel mondo di dolore senza ritorno” (Chiavacci Leonardi)
cfr. Aen. VI
Ripartizione del canto:
entrata, con la prima e tragica impressione del doloroso abisso di pianti
• gli ignavi, nell'antinferno: la ragione etica assume fin dal principio il ruolo dominante (il
• libero arbitrio ha delle conseguenze)
Acheronte
•
Prima impressione di Dante:
“sospiri-pianti-guai” (climax ascendente)
• “lingue, favelle, parole, accenti, voci” (“ discendente)
•
“l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”= la Chiavacci Leonardi sostiene la tesi di
Celestino V (già accreditata dagli antichi): ossia l'eremita Pietro da Morrone, fatto Papa nel 1294,
che rinunciò al pontificato dopo pochi mesi aprendo la strada a Bonifacio VIII.
Viene fatto anche il nome di Pilato, tra i possibili: ma si consideri che Celestino V era
contemporaneo di Dante: sarebbe difficile spiegare con Pilato l'accanimento di Dante, che appena lo
riconosce riconosce con lui quale sia la colpa degli Ignavi.
IV.
Limbo: nella teologia cristiana il luogo dei santi patriarchi ebrei morti prima della della venuta di
Cristo, e da lui liberati dopo la sua morte (Virgilio ne dà conferma a Dante in qualità di testimone),
e inoltre il luogo dei fanciulli innocenti morti senza battesimo – e dunque macchiati del solo
peccato originale. Dante opera una forzatura nella tradizione cristiana, affinché gli spiriti
magnanimi, pur non essendo stati di fede cristiana, siano in qualche modo 'recuperati'.
Ciò non toglie nulla alla tragicità (vd. Hollander) della loro vana speranza eterna: costoro, che
rappresentano il punto più alto che l'uomo in natura possa toccare con le proprie sole forze, restano
comunque esclusi dalla somma verità e felicità, cioè Dio.
Virgilio impallidisce, e due volte interviene anticipando le domande di Dante (dimostrando quanto
l'argomento gli stia a cuore):
1. “(...) Or vo' che sappi, innanzi che più andi, ch'ei non peccaro”
2. “E vo' che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati” (essi= i santi patriarchi
ebrei) – in entrambi i casi si nota una certa sollecitudine di Virgilio a giustificarsi.
I quattro poeti della “bella scola” sono gli stessi maestri che Dante cita nella Vita Nuova:
1. Omero (“poeta sovrano”); 2. Orazio (“satiro”); 3. Ovidio; 4. Lucano (Dante amava il
Pharsalia); 5. Virgilio stesso; 6. Dante stesso (“sesto fra cotanto senno”).
Oltrepassate le 7 porte delle 7 mura del castello, ecco il prato. Due schiere di 'spiriti magni':
1. Eroi (vita attiva): tutti partecipi della storia di Roma, incluso l'antecedente virgiliano della
guerra di Troia e del pellegrinaggio di Enea;
2. Filosofi, medici, scienziati, poeti: coloro cui pertiene la vita contemplativa posti
leggermente più in alto, come di consueto nel mondo morale dantesco.
“Certo di quella fede”: per chiarire, come stabilito nel concilio ecumenico di Lione del 1274
(ribadendo la posizione del 1215), la “verità di fede” della discesa di Cristo nel Limbo.
“Un nobile castello”: luogo appartato e privilegiato, che ricalca sempre i Campi Elisi di Aen, VI.
Vi sono due principali interpretazioni allegoriche:
1. Quella degli antichi, secondo cui il castello rappresenta la Filosofia, la sapienza umana,
mentre le 7 mura e le 7 porte ne sarebbero le 7 componenti (fisica, metafisica, etica, politica,
economia, matematica, dialettica) oppure le 7 arti liberali del trivio e del quadrivio.
2. Quella della critica moderna, più incline a considerare il castello come simbolo della nobiltà
umana (vd. Convivio, IV), a cui portano le 7 virtù (4 morali, 3 intellettuali).
V.
Minosse: il giudice infernale lo troviamo qui poiché qui comincia l'Inferno delle pene.
Similitudini ornitologiche per descrivere i lussuriosi (forse idea di progressiva nobilitazione):
1. Gli storni: sono i lussuriosi in generale descritti nel loro movimento confuso e fitto di
fuscelli nella bufera;
2. Le gru: per descrivere il lamento dei lussuriosi morti di morte violenta: costoro si muovono,
a differenza degli altri, in formazione ordinata (come le gru, appunto); i membri della
schiera sono nomi in massima parte letterari; Virgilio indica a Dante la prima della schiera,
Semiramide;
3. Colombe: immagine delicata d'eco virgiliana, usata per descrivere i movimento leggeri di
Paolo e Francesca che si staccano dalla schiera dei lussuriosi morti di morte violenta.
“Amor..” (in anafora): i riferimenti alla letteratura d'amore cortese, qui particolarmente espliciti,
sono in effetti disseminati per tutta l'intelaiatura del canto. Come nel caso di Ulisse, Dante si lascia
alle spalle una parte di sé: si discosta per sempre da quel mondo letterario che narra l'adulterio,
l'amor sensuale, e lo celebra.
nb. Dante respinge il topos dell'amore come forza travolgente cui non ci si può opporre: secondo lui
il libero arbitrio (e cioè la ragione) può e deve essere la forza più grande dell'uomo.
IX.
Virgilio, respinto dai diavoli, torna verso Dante e, vedendone il turbamento, immediatamente cela
il proprio; nelle prime battute (prima dell'apparizione dei mostri mitologici) è evidente il senso
d'attesa per l'arrivo del messo celeste.
Tre Furie: nella mitologia antica le Furie rappresentano il rimorso che infuria nella coscienza
• dell'uomo (vd. Orestea). Interpretazione trecentesca: 1. prava cogitatio, 2. prava elocutio, 3.
prava operatio.
Medusa: ci si rifà all'interpretazione di Fulgenzio (Mythologia), seguita anche
• dall'Auerbach. La medusa èla più terribile delle Gorgoni, la paura che annebbia la mente
(“Oblivione” è detta da alcuni antichi)
X.
Canto grandissimo, la cui tensione drammatica sale fino ad esplodere al centro, e poi discende. 136
versi lo impiegano tutto: si tratta della vita di Dante prima dell'esilio, cui qui Dante rinuncia.
Farinata degli Uberti: Manente degli Uberti, detto Farinata, personaggio di maggior spicco della
parte ghibellina nella Firenze del sec. XIII. Il suo nome è legato soprattutto alla battaglia di
Montaperti, nella quale gli esuli ghibellini appoggiati dai senesi e da Manfredi massacrarono le
forze guelfe guidate dai fiorentini. Eppure salvò Firenze dalla distruzione, opponendovisi nel
Concilio di Empoli (seguito alla vittoria di Montaperti). Il suo nome fu per anni demonizzato in
Firenze, in quanto legato alla strage. Nel 1283 (Dante 18enne) fu tenuto contro di lui (morto nel
1264) un processo per eresia (catara), con condanna postuma.
Cavalcante Cavalcanti: padre di Guido, “primo amico” di Dante.
Tutti i dannati nei sarcofagi in fiamme della città di Dite, come si evince dalla definizione deli
epicurei (“che l'anima col corpo morta fanno”) hanno coscientemente rifiutato la dimensione
immortale (ultraterrena) dell'uomo.
In Farinata vediamo rappresentata la suprema contraddizione tra l'uomo magnanimo e la sua
dannazione. Il suo ergersi “col petto e con la fronte”, “com'avesse l'inferno a gran dispitto”: tema
centrale del canto è la statura, la grandezza, fisica o morale.
Pena: come spiega Farinata, agli eretici tocca la dannazione di poter scorgere il futuro, e non il
presente, cosicché alla fine dei tempi ogni luce si spegnerà per loro. Ma, ai fini della narrazione,
questa pena è utile per la profezia di Farinata.
Cavalcante s'innesta per un breve momento: egli è il dolore. Entrambi sono colpiti proprio in ciò a
cui hanno dedicato tutta la loro passione e speranza: la passione politica e l'orgoglio di parte, in
Farinata; la passione paterna e l'orgoglio per il figlio Guido, in Cavalcante. Il loro orizzonte
termina con la terra: e su questa hanno termine le loro virtù. Dante si distingue da loro per aver
rinunciato a contare solo sulla propria forza umana: il rischio della grandezza è dunque
l'illusione di essere padroni del proprio destino, ovvero la superbia, la tracotanza.
Dante aveva condiviso con Farinata e Cavalcante questa superbia, ma se ne distacca
completamente in questo momento. Quella superiorità umana che tanto aveva contraddistinto
Farinata in vita, ora lascia trapelare la sua reale miseria e infelicità, il suo cieco ed esclusivo
attaccamento ai valori terreni.
ERICH AUERBACH, “MIMESIS” (1946) FARINATA E CAVALCANTE, cap. VIII
Farinata (stoico, imponente, egocentrico) contrapposto a Cavalcante (debole, angoscioso, piccolo,
tutto teso al figlio)
cit. “(...) a chi parta dall'esame degli autori precedenti, la lingua di Dante appare quasi un miracolo
inconcepibile” (p. es. l'uso del “da” in “da me stesso non vegno”, nuovo).
Cit. “In complesso la mira stilistica è volta senza dubbio allo stile sublime, e ciò si avverte, anche
se già non lo si sapesse dalle precise espressioni di Dante, immediatamente da ogni riga del poema,
per quanto comune possa essere il linguaggio nel quale è scritto”.
Gli antichi professavano la separazione degli stili, portata avanti anche da Dante finché non se ne
distacca nella Commedia.
nb. Benvenuto da Imola ritiene che Dante abbia titolato Commedia la sua opera poiché il suo stile è
umile e la sua lingua popolare, tuttavia il suo genere è sublime e grandioso.
Il paradossale realismo dantesco (Hegel, Lezioni di estetica):
Gli abitatori dei tre regni danteschi si trovano in un'esistenza immutabile, e tuttavia Dante immerge
“il mondo vivente del fare e del patire, e più precisamente delle azioni e dei destini individuali, in
questa esistenza immutabile”. Farinata e Cavalcante sono sì definitivi ed eterni, ma non sono senza
storia. Hanno sorte eterna affine, ma personalità individuali nettissimamente differenziate
(personalità che il giudizio divino ha fissato nell'eterno).
Ossessione dello stato presente delle cose (cfr. Guido da Montefeltro a Virgilio: “dimmi se i
Romagnoli han pace o guerra”).
Ogni esistenza terrena è FIGURA della corrispondente esistenza oltremondana.
“Il carattere e la funzione dell'uomo hanno il loro posto prestabilito nell'ordine divino, quale sulla
terra è figurato e nell'aldilà è realizzato”. In altre parole il compimento è forma perfectior della
figura.
XI.
Secondo una terminologia critica ormai desueta, è il primo di quelli che venivano definiti (e lo sono
tuttora nei licei) &ldqu