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TERZO MODULO: STORIA DEGLI SCAVI ETRUSCOLOGICI
L’etruscologia nasce nella prima metà del 900, quando M. Pallottino prende in mano la situazione
degli studi etruscologici; il lavoro del Pallottino nasce in un momento in cui in Italia lo scavo
archeologico era una realtà poco dissodata dal punto di vista metodologico, cioè si trattava di uno
sterro, si esportava la terra per estrarne dei tesori.
Quindi la storia degli scavi etruscologici è legata alla scoperta delle necropoli perchè nella prima
metà del 900 chi si occupava degli scavi etruscologici si dedicava solo alle necropoli che dalla più
alta antichità furono sempre oggetto di saccheggio.
Intorno al 700 con il secondo Granducato di Toscana inizia il fenomeno dell’etruscheria, disciplina
che studiava dal punto di vista antiquario le antichità della nostra penisola, invece l’etruscologia è la
disciplina che studia la civiltà etrusca distinguendola dalle altre popolazioni italiche.
I principi stratigrafici furono elaborati ad opera degli anglosassoni che si occuparono degli scavi del
vicino Oriente e l’esperienza anglosassone venne portata in Italia: da qui inizia una speculazione
teorica sul modo in cui si dovevano scavare gli abitati antichi che venne ripresa negli anni 70 dal
Carandini che scrisse un libro “Storie dalla terra” che ha segnato una generazione di archeologi che
hanno cominciato ad applicare i metodi di scavo anglosassoni in Italia, anche perchè tre quarti della
sua opera presentavano la traduzione di un libro di Harris che offriva una trattazione di tipo teorico
dell’archeologia anglosassone (un’altro personaggio importante fu Barker).
Quindi il Carandini fu il primo mediatore, colui che per la prima volta applicò questi principi allo
scavo romano di Settefinestre; il lavoro di Carandini ha creato una scuola da cui si sono dipartiti
vari archeologi che si sono applicati a diversi settori dell’archeologia italiana.
Negli anni 70 questa nuova corrente nell’etruscologia non venne tanto avvertita perchè si
continuano a scavare le necropoli; questi principi vengono invece applicati negli anni 80, quando
per la prima volta inizia a Tarquinia lo scavo dell’abitato etrusco con metodi stratigrafici ad opera
della prof. Bonghi che aveva già applicato questi principi in altri scavi in cui si muoveva in
situazioni di archeologia classica (gli scavi di archeologia classica furono i primi in cui vennero
applicati i principi stratigrafici); quindi dopo questa sua esperienza di 15 anni, nel 1982 arriva a
Tarquinia forte di queste esperienze.
Uno dei momenti più importanti fu lo studio di quella che, negli anni 70, si chiamava cultura
materiale, cioè tutto quel complesso di manufatti che cominciano ad essere guardati con occhi
diversi, infatti fino agli anni 70 venivano tenuti solo i vasi più belli, mentre gli altri venivano gettati;
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quindi si sono cominciate a studiare tutte quelle classi modeste che fanno parte di quel lavoro senza
gloria perchè non c’è niente di eclatante, ma viene effettuato uno studio sui numeri, sulle quantità
che porta i suoi frutti dopo anni di ricerca.
La ceramica depurata veniva considerata un prodotto di scarto e quindi veniva gettata per cui non
esistevano repertori, cioè testi di confronto su cui lavorare per capire quale materiale venne prodotto
e utilizzato in un sito; il repertorio riguardava tutte quelle classi di materiali ed era un tentativo di
riordino.
Per le classi prodotte nell’ambiente etrusco abbiamo dei repertori che riguardano soprattutto la
ceramica dipinta, quindi la ceramica a figure nere e rosse, quella di importazione greca, mentre per
le produzioni più correnti non esistevano questi repertori; quindi uno dei primi lavori più
impegnativi intrapresi durante lo scavo di Tarquinia fu quello di offrire dei repertori per questa
ceramica depurata che di solito veniva gettata; questo lavoro durò 10 anni e in seguito anche gli altri
scavi degli altri abitati etruschi presero questo indirizzo.
Sulla scia di quella che era l’archeologia 7/8centesca l’archeologia che si occupava
dell’etruscologia tendeva a studiare le classi dipinte e a considerare come elementi da catturare sullo
scavo i frammenti appartenenti a queste classi, infatti la misura era questa: più si trovava ceramica
dipinta di importazione greca in un sito più questo era ricco.
Lo scavo degli abitati oggi invece fa attenzione all’apporto di nuove discipline con una
strutturazione del pensiero più di tipo scientifico che letterario, infatti vengono fatti dei conteggi per
avere il quadro complessivo della realtà archeologica che è frutto della cultura materiale.
La codifica iniziale di questo atteggiamento venne fatta da un gruppo di francesi che negli anni 70
lavoravano allo scavo di un abitato etrusco nella Francia meridionale: da qui nacque il protocollo di
Lattes a cui si sono uniformati molti scavatori; il protocollo prevedeva una serie di procedimenti
che dovevano essere rispettati (tutti i frammenti venivano pesati).
Oggi grazie ai metodi informatici e alla possibilità di costruire delle basi di dati possiamo trattare il
materiale archeologico facendo riferimento ai repertori elaborati sul campo e contando i materiali
sulla base dei capofila costituiti dal primo oggetto di una serie di oggetti simili che permettono un
riordino della documentazione più vecchia; all’interno dei gruppi di scavo si sono costituiti nuovi
modi di imbrigliare la realtà archeologica.
Dopo 20anni di scavi a Tarquinia si sono sperimentati nuovi modi di scavo e di classificazione: da
qui è nato il protocollo di Tarquinia che si appoggia all’esperienza degli informatici e in più si sono
introdotte le analisi chimiche; quindi è necessaria una collaborazione costante con gli informatici e
gli archeometri e i risultati di questo lavoro a stretto contatto sono le trasformazioni dei modi di
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lavorare sullo scavo e nel momento della classificazione dei materiali; ma è anche necessario
comunicare in maniera nuova i risultati degli scavi che devono essere fruibili a più livelli.
Dal punto di vista della teoria dello scavo archeologico abbiamo un altro panorama: la prima
speculazione a livello interpretativo nasce negli anni 60 con il fenomeno della new archeology che
propone un nuovo modo di accostarsi all’interpretazione archeologica, abbandonando gli
atteggiamenti propri dei letterati e degli umanisti, assumendo un atteggiamento scientifico.
Si trattava però di un movimento troppo legato alle scienze naturali e quindi questo in termini
umani non è praticabile. Ora invece si predilige un approccio di carattere contestuale, cioè
l’osservazione della realtà archeologica nel suo contesto; quindi il microcontesto e la microrealtà
sono gli elementi cardine su cui fondare la ricostruzione archeologica.
Nello scavo di Tarquinia si è andati a cercare la microstratigrafia all’interno di contesti chiusi
cercando gli strati ben conservati perchè è l’unica certezza nel ricostruire la realtà archeologica in
modo scientifico, senza appoggiarsi a una realtà precostituita, cioè parliamo dell’archeologo che va
a scavare con le fonti in mano: ad esempio nello scavo di Pyrgi si cercarono gli strati di distruzione
di Dionigi di Siracusa nel 384 (in questo modo si va a scavare sapendo quello che si vuole trovare),
invece oggi lo scavo archeologico è condotto con principi stratigrafici e in contesti chiusi.
Un contesto chiuso è il luogo dello scavo dove c’è una sigillatura. cioè dove siamo sicuri che non è
arrivato l’aratro, infatti la stratigrafia distingue tra strati sconvolti e ben conservati.
Circa l’interpretazione archeologica la prima tensione è verso il contesto, cioè la traccia di
un’attività dell’uomo ben conservata: il deposito reiterato è un esempio di contesto interpretato
perchè la tensione ultima è quella di ricostruire la gestualità attraverso l’indagine della terra e la
dinamica che ha portato a quella posizione.
Il lavoro interpretativo che nasce dalla speculazione post processuale è quello dell’archeologia del
gesto o antropologica che ricostruisce come gli uomini si muovevano a partire dalla realtà
archeologica; una volta identificata la gestualità di un sito questa viene paragonata ad altri siti per
vedere se ha qualche termine di paragone, in questo modo si ricostruiscono delle prassi e delle
procedure di culto intorno alle quali la comunità si riuniva. L’archeologia antropologica si serve di
altre discipline come la paleobotanica e la paleoantropologia.
Agli inizi degli anni 80 l’Università di Milano ha scelto lo scavo di Tarquinia: in quegli anni gli
abitati proposti dalla sovrintendenza archeologica erano vari, come Cerveteri, Tarquinia e Vulci, ma
la scelta cadde su Tarquinia perchè si trattava di un sito mai scavato, solo il Romanelli vi aveva
lavorato negli anni 30 sterrando l’ara della Regina, la porta Romanelli e aprendo qualche saggio; ma
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praticamente tutto il pianoro era libero e in più vi erano delle prospezioni fatte dalla fondazione
Lerici con mezzi geofisici (quindi era una ricerca partita in ambito scientifico).
Quindi uno dei meriti della prof. Bonghi fu quello di scegliere Tarquinia perchè l’abitato era stato
bombardato con le prospezioni con il magnetometro a protoni che aveva dato dei risultati e aveva
messo in evidenza che vi erano delle fondazioni in muratura; il pianoro era quindi libero da
costruzioni tranne l’ara della Regina e il casale degli scavi, una costruzione fatta dal Romanelli
durante gli scavi e la porta.
Il pianoro della Civita è zeppo di cunicoli che attraversavano la Civita e che avevano varie funzioni,
come quella di portare l’acqua e di creare dei passaggi veloci sotto l’abitato con uno scopo di
difesa: grazie agli speleologi sono stati individuati due strati di cunicoli.
Un’altra caratteristica che ha incuriosito e che deve ancora essere risolta è quella
dell’approvvigionamento idrico: gli scienziati del dipartimento di Scienze della terra stanno
studiando i modi in cui Tarquinia si approvvigionava perchè non aveva la possibilità di avere
l’acqua corrente; infatti i pozzi sulla Civita non servivano per attingere l’acqua, ma sono di raccolta
dell’acqua e infatti hanno una forma scampanata.
Quindi come facevano gli etruschi di Tarquinia che arrivarono ad essere 20mila a sopravvivere
senza acqua corrente? Vi è una zona di fonti chiamata “Il Bottino” per cui si pensa che gli etruschi
di Tarquinia abbiano convogliato l’acqua da questa zona a monte portandola all’abitato (qui vi è
anche una località chiamata &ld