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Berecche. Lui, come l’autore, provano un grave disagio psicologico nel constatare che la
Germania, nazione molto ammirata da Pirandello, sembra ora impazzita e affiancandosi
all’Austria ha creato uno “spaventoso sconquasso”; un popolo, quello tedesco, che fino ad
allora gli era sembrato primeggiasse in ogni campo (industria, cultura, musica, esercito); sia
Pirandello che Berecche poi vivono a Roma, ma non al centro, bensì rifugiati nel quartiere
della Nomentana. Emerge qui il contrasto presente in tutte le opere di Pirandello tra la
campagna e la città: il mondo incontaminato della natura viene contrapposto all’alienante
inferno metropolitano. Nel 1915 Pirandello dichiara, scrivendo in un mensile per il quotidiano
di Roma “La tribuna”: “questa è una guerra di macchine, dove l’uomo si fabbrica con il ferro e
l’acciaio le sue divinità, che si ingoiano la nostra anima e la nostra vita”. Nelle missive
mandate tra l’ottobre e il novembre 1915 al figlio Stefano, partito per il fronte, invece,
Pirandello si muove tra 2 stati d’animo opposti: da un lato, per ragioni etiche e affettive, si
compiace per le prove di coraggio fornite dal figlio (che aveva aderito con dedizione assoluta
al codice dell’etica patriottica); dall’altro lo attanaglia la malinconia dalle notizie che riceve
sulla guerra. Nella novella “Jeri e oggi”, scritta nel 1915 ma pubblicata solo 4 anni più tardi nel
1919, alla fine della guerra (messaggio considerato destabilizzante dall’editore Simoni) sul
Messaggero della Domenica, l’autore pone l’accento sullo scompiglio tumultuoso dei pensieri
e dei sentimenti della gente, sul curioso stordimento dei giovani che devono obbedire agli
ordini di un colonnello, lo strazio dei genitori costretti a vedere solo per pochi attimi i figli in
partenza per il fronte. Sempre nel 1915 nei “Colloqui coi personaggi”, Pirandello attraverso
anonimi personaggi di fantasia parla della guerra attraverso una singolare dislocazione, fuori
dal tempo e dallo spazio, come in un eterno presente: “noi non sappiamo di guerre, caro
signore, tutti gli eventi passano, ma gli uomini hanno sempre gli stessi bisogni: dormire,
mangiare, ridere, piangere… la vita resta, uguale sempre, come se non fosse mai nulla”.
Nella novella “Quando si comprende” nel 1918, vi è il treno che simboleggia l’allontanamento
da persone e luoghi, e la precarietà di ogni percorso esistenziale.
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In Europa negli anni della Grande guerra una febbre nazionalista aveva contaminato il mondo
della cultura in ogni suo aspetto (storia, filosofia, letteratura) in tutti gli Stati. Furono poche le
voci in controtendenza, come il giornalista boemo Kraus, il francese Rolland (che con un
articolo pacifista vinse il premio Nobel della letteratura nel 1915), il gallico Russell (poi
incarcerato per le sue dichiarazioni anti-patriottiche) e il papa Benedetto XV. Anche il
movimento internazionale socialista si schierò contro in conflitto, che non faceva altro che
mostrare il vero volto, violento ed opportunista, del capitalismo. In Italia, la letteratura registrò
la negatività della guerra soprattutto in conseguenza della cocente delusione subentrata
all’entusiasmo iniziale, a far naufragare il mito della morte eroica svelando gli orrori del
massacro tecnologico e della morte anonima di massa. In Rebora, la guerra verrà criticata sia
per le reali cause che per gli interessi economici, nonché per la mercificazione della vita che
si trova in essa. Il poeta così decide di estraniarsi dal mondo e abbracciare il sacerdozio. Per
Ungaretti, il conflitto del 1915-1918 rappresentò la scuola in cui apprendere l’essenza umana,
dove sperimentare la fragilità che accomuna e affratella (come si vede nei versi di “Fratelli” e
di “Soldati”, scritti dal fronte). A differenza di Rebora, però, Ungaretti trova nella guerra una
lezione di vita: la tenacia dell’amore e la resistenza alla morte debbono superare la
ripugnanza e la paura, attraverso la solidarietà umana che accomuna tutti. In Pirandello,
attraverso il professore Berecche, lo scrittore si mostra sopraffatto dal senso di inutilità che
circonda ogni cosa e dall’inconcludenza di ogni sforzo (le innumerevoli vicissitudini dei
soldati, veri protagonisti dello scontro, rimangono ignorate); ciò si vede soprattutto in quel
pezzo del racconto in cui Berecche contempla il cielo stellato mostrando la piccolezza
dell’uomo. Anche Svevo denuncia l’assurdità della guerra, anche se da un altro punto di vista,
quello degli uomini d’affari che, senza intervenirvi da militari, seppero lucrarne proventi
approfittando delle disgrazie altrui, come accade in “La coscienza di Zeno” con il protagonista
(la guerra diventa guadagno facile e inatteso, inoltre è anche salute per la propria nevrosi,
poiché Svevo identifica la salute sociale con la malattia di cui soffre l’umanità).
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Molti studiosi si sono chiesti perché molti intellettuali, economisti e politici all’epoca della
Prima guerra mondiale avessero considerato la stessa guerra come “un modo per mettersi
alla prova e per arrivare alla rivoluzione della società e delle istituzioni”. Nonostante le
differenze politiche tra nazionalisti, socialisti, mazziniani e repubblicani, tutti erano concordi su
questo punto, anche se ognuno aveva obiettivi diversi. Chi vedeva la guerra come una prova
morale contro l’eterno nemico austriaco; chi voleva completare l’unità d’Italia con Trento e
Trieste; chi si poneva contro il militarismo prussiamo ecc…, chi vedeva nell’espansione
coloniale un modo per aumentare la potenza della nazione ecc… Anche in Sicilia, a Palermo,
in un clima nazionale che via via si imbeveva di interventismo, si svolgeva la campagna a
favore della guerra, dal settembre 1914. Uno dei capi del comitato interventista fu il
nazionalista, imprenditore, politico ed economista ebreo Guido Jung. Le sue grandi
competenze economiche e politiche lo porteranno a diventare il nuovo Ministro delle Finanza
dal 1932 al 1935. Jung ebbe un’ importanza fondamentale nel preparare Palermo alla guerra:
dapprima, esponendo le sue teorie attraverso diversi discorsi e conferenze, in cui considerò
l’occasione del conflitto come “una prova morale nella quale si sarebbe completata la
formazione dell’Italia e degli italiani, rigenerati e rinnovati, in cui veniva esaltato l’esercizio
della violenza, il sacrificio a favore della patria”, subito dopo, sostenendo personalmente con
le sue finanze e coinvolgendo la popolazione alla guerra, attraverso pratiche che attirassero
le classi popolari, come le Società di Tiro a segno e la fondazione dell’Università popolare, in
cui lo stesso Jung teneva il corso di “Storia del risorgimento” e istituendo il Comitato cittadino
per le famiglie dei richiamati (che dava sostegno ai soldati partiti per il fronte attraverso
finanziamenti ai familiari). Nonostante queste misure, il gruppo interventista di Palermo era
ancora poco sviluppato, e per questo venne instituito un accordo tra gli esponenti dei diversi
partiti con l’istituzione di un comitato il 24 Ottobre 1914 a favore dell’intervento in guerra
dell’Italia. Ottenuta la sicurezza politica, Jung cercò in tutti i modi di far capire al popolo
l’importanza della lotta contro l’Austria, attraverso tanti comizi e manifestazioni in cui si
bruciavano bandiere austriache o fantocci che rappresentavano gli imperatori d’Austria e di
Germania. Gli studenti furono la categoria che dava il maggior contributo a queste
manifestazioni, attraverso il gruppo universitario radicale. Fu così che il gruppo interventista
ottenne un enorme riconoscimento popolare, e lo stesso Guido Jung partì come volontario
per il fronte, nonostante la contrarietà della famiglia, dovuta anche all’attività commerciale ben
avviata (nella produzione di agrumi ed essenze). In diverse lettere comunque, Guido ribadì il
suo dovere verso la patria, considerata come una “famiglia ingrandita”. Qualche periodo più
tardi, anche gli altri 3 fratelli di Guido partirono per il fronte. Jung fu arruolato, nel maggio
1915 a Verona, come sottotenente, nel Parco Automobilistico della I armata, con compiti di
stabilire ed organizzare approvvigionamenti e rifornimenti. Alla fine di Agosto poi fu trasferito
su sua domanda al 29 Reggimento Artiglieria: qui svolse azioni di combattimento e prese
parte ad alcune battaglie importanti, come quella sul Novegno del maggio 1916. Nel luglio
1916 venne messo definitivamente al Comando della 35 divisione del generale Carlo Petitti, a
cui rimarrà molto legato per lo via dello spirito di cameratismo, con compito di ufficiale di
collegamento (facilitare le disposizioni e le istruzioni dei comandi) e viene trasferito a
Salonicco, per ordine del Governo e del Comando Supremo italiano. Qui mise a disposizione
anche le sue conoscenze finanziarie, per le questioni relative in particolare al cambio delle
valute (dracme). Qui in alcune lettere che Guido manda alla famiglia serpeggia del razzismo:
“la popolazione ha dei brutti lineamenti, da razza poco progredita, e la forma cranica delle
teste delle persone ha fattezze da delinquenti… non sanno neanche come si maneggia una
pala…”. Nel maggio 1917 Guido Jung torna in Italia, dove ottiene la promozione al grado di
capitano per meriti di guerra, coraggio e competenza. Viene destinato all’ 11 Corpo d’armata
agli ordini del generale Pennella. Nell’Ottobre 1917 e nel Giugno 1918 partecipa alle ultime 2
battaglie, a Caporetto e nell’Altipiano del Grappa, dove quella che sarebbe dovuta essere la
definitiva sconfitta dell’Italia divenne un’eccezionale vittoria difensiva, grazie anche al Piave
che si ingrossò e provocò diversi problemi alle truppe austriache. In tutte queste occasioni
ottenne 3 medaglie d’argento al merito. Alla fine della guerra, grazie alla fama e
all’importanza delle sue azioni, accettò l’incarico a Parigi come segretario per l’Italia nel
comitato interalleato per l’armamento e il munizionamento. Da li osservo la fine della guerra e
la firma per l’armistizio. Dal Febbraio 1919 fece parte della commissione finanziaria presso la
delegazione italiana alla conferenza di Versailles. Qui si occupò dell’elaborazione della parte
finanziaria ed economica dei trattati con Germania e Austria. Data la sua competenza, i
banchieri italiani gli avevano proposto di divenire rappresentante del Consorzio Bancario
Italiano, ma decise invece di riprendere la sua attività di commerciante. Nel Giugno 1919, con
il presidente del consiglio Nitti dichiaratamente anti-nazionalista, decise di abbandonare la
delegazione.
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